NAPOLI di Atanasio Pizzi) – La divulgazione delle tradizioni all’interno delle piccole comunità minoritarie per opera di fautori di una consuetudine fuori da ogni regola, è emersa a seguito di una serratissima ricerca d’ambito, dalla quale è stata confermata una preoccupante e paradossale realtà.
Se prima del sondaggio la mia era sola, sensazione, scaturita dal modo in cui è stato trattato il patrimonio edilizio; gli appunti ricavati a seguito di conversazioni realizzate telefonicamente, ha confermato la mia perplessità, in quanto una consistente fetta del patrimonio consuetudinario è andato disperso, stravolto e manomesso.
Il demerito di quanto dismesso, va attribuito a una categoria ben individuata e che si potrebbero appellare come quelli di “un discorso nuovo” (gnë discùrs i rì) i cui promotori, ambivano a rinnovare consuetudini che ritenevano vetuste e fuori dal tempo, in quanto, motivo di vergogna e disagio, verso le realtà contigue.
È chiaro che quanto detto si è tradotto in una rivoluzione generale, le cui origini vanno ricercate negli enunciati politici del Grande Vecchio, che a quei tempi era difficile da comprendere perché poneva a dimora il seme del processo economico culturale, oggi identificato come globalizzazione.
Grazie a Dio però, qualche decennio prima una schiera di “saggi cultori”, racchiusi all’interno del quadrangolare dei paesi di Civita, San Benedetto Ullano, Santa Sofia d’Epiro e San Giorgio Albanese, attuava certezze e solidità storiche che avrebbero assorbito l’inappropriato scontro generazionale; ad esempio a Santa Sofia d’Epiro, negli anni cinquanta del secolo scorso “zoti Giovanni Capparelli” coadiuvato da un manipolo di uomini, pose in essere una delle pagine più rappresentative a tutela dell’arbëreshë e venne valorizzato il processo di integrazione degli esuli albanesi, racchiusa nella “ Primavera Italo Albanese”.
La folta schiera di Sofioti così come altri gruppi dei paesi che ricadevano all’interno del quadrangolare su citato, furono i precursori di una stagione che condusse i minoritari a primeggiare all’interno della R.s.A. sia per gli ideali divulgati, sia per le consuetudini valorizzate, realizzando quel focolare d’ideali attorno al quale ogni buon arbhëre si rigenera, quando sta per smarrire la retta via.
Essi i “saggi cultori” istituirono tavoli di dialogo e ambiti di aggregazione, oltre a divulgare notizie attraverso riviste annuali, distribuite alle famiglie del paese e spedita a tutte quelle emigrate sparse nel resto del mondo; salvarono testi antichi, costituirono comitati, gruppi musicali, folcloristici e dettero avvio ad una serie di attività fondamentali per rendere coese tutte le comunità dei piccoli centri albanofoni; diedero forza, alla cadenza idiomatica, ai canti, ai costumi e i balli; illuminarono le feste e regolarizzarono lo svolgersi di tutti gli avvenimenti con i quali la consuetudine di radice albanofona si riconosce sin anche negli ambiti locali.
Una vera e propria corazzata di temerari, grazie ai quali agli arbëreshë, fu consentito di affermare la propria identità; il tempo purtroppo e gli eventi inesorabili hanno fatto si che quando uno di loro veniva a mancare, c’era sempre lo lëtir di turno, che lo sostituiva; vero è che a cavallo degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, rimasero solo in pochi audaci per guidare le nuove generazione di radice lëtir, fu così che dopo poco meno di un decennio l’oceano di consuetudini riferibili alla minoranza albanofona si prosciugo ed è divenuta una pozzanghera alloctona.
A questo punto essendo il patrimonio nelle disposizioni di coloro che si vergognavano di esprimersi in arbëreshë, per meglio dire quelli di “un discorso nuovo”, questi ultimi aprirono scenari nuovi e paradossali attraverso i quali volevano riferire della storia arbëreshë alla luce di espedienti estrapolati nelle frasi o nelle pieghe canore di Bruce Springsteen, Bob Marley, Mino Reitano, ecc., ecc., ecc., immaginando gli ambiti albanofoni del primo periodo fatti di capanne, di pelle di bufalo, come riferito nei racconti di Tex Willer e di altri miti della fumettistica più alla moda; come se ciò non bastasse si identificavano anche come fiori del deserto(??); quest’ultimo sostantivo in particolare, oltretutto!!!, con gli ambiti albanofoni, storicamente riconosciuti come esclusivamente collinari, non ha nulla a che fare, se non fosse per il deserto identitario da loro stessi posto in essere.
Ritengo che produrre focolai cosi alloctoni e fuori da ogni regola, all’interno delle macroaree minoritarie, mi astengo dal definirli, per evitare di essere sgarbato o addirittura volgare; una miscellanea disomogenea fuori da ogni buon senso, che ha innescato il disfacimento della particolarissima identità culturale; fu così che ebbe inizio il fenomeno di confusione in cui vivono le generazioni che seguirono.
Il Discorso Nuovo, non aveva e non a tutt’oggi, alcun modo di confrontarsi con una comunità, radicata nel territorio e il valore delle cose arbëreshë, non sono mai state nelle loro disponibilità culturale, pur se hanno inconsapevolmente prodotto elementi di sintesi, una sorta di ibrido che chiamerei Lëtarbhër .
Questi erano e sono i figli di una radice anomala, che ritenevano, i trascorsi arbëreshë, prima durante e dopo il ventennio del secolo scorso, non degni di nota, ma non solo, in quanto gli attuatori di un discorso nuovo, non avevano nella loro disponibilità culturale, annotazioni d’arberia, le eccellenze e quanto venne offerto dai grandi intellettuali per renderla viva, partecipata e nota nello scenario culturale europeo.
La messa in atto delle leggi a tutela delle minoranze nel 1999 ha innescato una corsa per produrre la migliore idea, per rendere visibili e speciali gli ambiti di minoranza, ma purtroppo con i presupposti di quanto esposto prima, le gjitonie dei paesi albanofoni divennero peggiori del paese dei balocchi, in cui i figli di un discorso nuovo hanno attuato modelli per i quali la genuinità minoritaria è peggiore di una farsa di carnevale.
Gli ambiti sono stati letteralmente stravolti, le gjitonie distrutte, le strade tappezzate, le quinte edilizie pigmentate, le chiese gestite secondo gusti imprenditoriali, le proloco dissociate tra di loro e promuovono attività alloctone, ma quello che più duole è il senso della consuetudine arbëreshë che ormai parla in Lëtarbhër, con qualche frammento di inflessione anglosassone.
Ambiti minoritari che si muovono senza una regola, promuovendo storie e consuetudini che non hanno nulla a che fare con i trascorsi degli ambiti arbëreshë, ogni evento, sia esso civile, religioso o che abbia la cadenza della vecchia consuetudine, è rievocata attingendo frammenti da ambiti fuori da ogni regola dei minoritari.
Volendo fare alcune citazioni tra le più inadatte valgano:
- l’ottava di Sant’Atanasio, “La Primavera Italo Albanese” scambiata per“Valle Çivitjote”;
- i percorsi religiosi modificato a misura delle famiglie dei Comitati Festa;
- la toponomastica storica stravolta;
- gli ambiti della chiesa matrice caratterizzati a misura e i gusti dei lëtiri;
- l’ospitalità turistica che non parla arbëreshë;
- le fontane storiche poste nelle disponibilità dei privati, come quelle dell’acquedotto pubblico.
Tutto per colpa di una “società conservatrice del consuetudinario minoritario” che pur avendo nelle disponibilità cinque secoli di trascorsi storici, rimane immobile e non è capace di scuotere gli ambiti istituzionali, amministratori, dirigenziali, scolastici, clericali al fine di mutare il senso di questa disfatta.
Per questo chiedo alla “società conservatrice del consuetudinario arbëreshë” di attivarsi per far emergere in maniera coerente le caratteristiche del costruito storico, gli ambiti sociali, l’idioma e tutto il patrimonio tangibile e intangibile, per avere i riferimenti giusti in cui identificarci, e sentirci arbëreshë a casa propria secondo gli originari protocolli: tutto cio per due motivi fondamentali:
- il rispetto che noi arbëreshë nutriamo verso questi luoghi;
- preparare il vecchio patrimonio per le generazioni future, cosi come i nostri genitori lo posero nelle nostre disposizioni.