NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Essere Partiti il 18 gennaio del 1977, con la promessa di rendere merito alle cose essenziali del loco natio e, darne valore economico senza il bisogno di museare quell’economia parallela dei suoi storici cunei agrari è una grande promessa data.
Tuttavia quella storica promessa, fatta nella “Somma Trapeza” non è stato semplice da mantenere, sostenere e portare a buon fine, perché le chine da superare e le ire gratuite indirizzate, non trovano, ancora oggi sedici aprile del 2025, fine di continuità.
“Chi parte torna e fa memoria, chi resta ne smarrisce i senso” trasforma questa frase in un tono poetico riflessivo che, lega viaggio esperienze, ritorno, applicazione, e memoria per valorizzare gli antichi luoghi.
La frase è un proverbio che esprime la differenza tra chi vive un’esperienza in prima persona e chi la osserva da lontano, essa non è attribuita a un autore specifico, ma saggezza popolare condivisa in molte culture del vecchio continente.
Un concetto simile è espresso nella frase: “Odiarsi è più facile di quanto si creda, e la grazia consiste nel dimenticarsi”.
Anche se non identica, questa affermazione sottolinea l’importanza del dimenticare, suggerendo che la vera grazia, risiede nel non ostinarsi.
In sintesi, un pensiero condiviso sulla memoria e sull’esperienza, di due aspetti che se opportunamente intersecati posso portare al successo sociale di un ben identificato luogo.
Tuttavia se scomponiamo le fasi, si ha visione chiara di quando possa essere utile allontanarsi dai lenti luoghi natii, per fare esperienza maturare e dinamica al pensiero, mantenendo sempre vivo gli storici principi locali, gli stessi che si possono intravede, in ogni luogo dove si vive l’atto del produrre, fare economia e, quando si torna si ricompongono quelle prospettive di progetto in memoria rinnovata.
Per questo chi si allontana, viaggia, lascia un luogo o condizione di memoria e al ritorno, si ricorda, riflette, rielabora nuove prospettive che possono vantaggiare quelle generazioni spente o prossime ad inginocchiarsi alla globalizzante locale più in auge.
Il distacco permette di vedere le cose da una nuova prospettiva, la stessa che in ogni luogo visitato appare all’orizzonte con emblema le case natie e familiari.
Diversamente da quanti non si muovono e restano legati a dinamismi rigidi lenti o addirittura statici, gli stessi che fanno smarrire il contatto con il significato e il ricordo autentico, forse perché troppo immersi nel buio quotidiano che crea l’isolatamente in forma di riverbero.
Il tutto poi si trasforma e diventa, nenia fastidiosa che ti rende debole e senza prospettiva di rinnovamento o dinamismo alcuno.
Questa potrebbe esse interpretata come una lode al viaggiare, inteso non solo in senso fisico, ma anche interiore, che da agio all’essersi allontanati per comprendere, per ricordare meglio lambito locale intrecciato come una nobile tela con altre realtà produttive semplici e connesse dalle forme agri silvo pastorali, le stesse che hanno dato notorietà agli Arbëreşë nel corso dei secoli.
Tuttavia recuperare un’antica filiera agricola è un processo affascinante, un parallelismo che interseca, cultura, economia locale, territori, natura e, con mira di far coincidere passaggi che contribuiscono a guidare con garbo il recupero.
Questo non è un adempimento semplice, infatti richiede informazioni storiche, documentali, che possano far immaginare prospettive nuove avendo riguardo dei racconti orali di memoria locale.
Tutte quelle consuetudini parallele di tecniche e saperi antichi custodite e non documentate se non nelle vicende sociali che in questi ambiti era espressione indelebile del governo delle donne, sostenute dalle attività di quello degli uomini.
Il tutto per identificare, quali varietà di piante o razze animali venivano utilizzate (es. grani antichi, vitigni autoctoni, razze rustiche).
Studiando le tecniche agricole tradizionali, rotazioni, concimazioni naturali, sistemi di irrigazione antichi, coinvolgendo agricoltori locali, associazioni, scuole, università o istituzioni.
Perseguendo il fine di ricercare per creare una rete di interesse attorno al progetto, intercettando mulini, frantoi, cantine, caseifici o magazzini antichi, realizzando il restauro per il più idoneo riutilizzo.
La dinamica tipologica locale di ogni cuneo agrario o della trasformazione mira a reintrodurre colture/razze autoctone con metodi biologici o rigenerativi.
Poi se la ricerca o meglio la radice del progetto ha come scenario il valorizzare prodotti tipici della Presila Cosentina, come i Grani antichi, nelle varietà locali come il Senatore Cappelli, ma anche altri grani duri e teneri, adattati all’altitudine della collina, il cuneo geografico è di rilevanza strategica, l’insieme renderebbe possibile il recupero della filiera del pane, della pasta e dolci tradizionali.
Se a questo affianchiamo la storia dell’ulivo locali come la Carolea, qui molto diffusa, riattando e facendo rifiorire, gli uliveti storici, eseguendo la raccolta a mano e, riattivare l’antico concetto di olio extravergine di alta qualità, prodotto in loco e senza attesa di macerazione, facendo ruotare gli antichi frantoi a ciclo continuo e del breve tragitto a pietra.
Non da meno sarebbe risvegliare l’antica risorsa, della viticultura e puoi puntare su varietà locali come il Magliocco Dolce, Greco Nero, o il Mantonico, realizzando vitigni resistenti (con l’aiuto di istituti agrari) piantando i roseti come vigilanti naturali dei filari.
Vale cosi anche per i noti allevamenti di pecore e capra, collocando l’antica e onnipresente “mursica” che prima era in ogni famiglia di queste storiche macro aree.
Il tutto darebbe agio alla produzione di caciotte, ricotte fresche e stagionate, butirro, predisponendo e avendo cura di riattivare gli originari pascoli, caseifici artigianali, o piccoli laboratori.
Non da meno sarebbe utile la produzione e selezionare di Fagioli, ceci, lenticchie rustiche, senza dimenticare le patate e della Sila IGP, il tutto commesso a una filiera bio integrata con cucina e trasformazione o punti di accoglienza, racchiuso in una filiera corta o comunitaria.
Una Micro-filiera “Vino, Olio e cereali” di Calabria citeriore degli Arbëreşë a cui affiancare grano antico locale e, oliveti.
Avendo cura di collaborare con mugnaio artigiani locali, in grado di produrre di olio EVO e farina integrale a pietra, con lievito madre, a cui affiancare eventi di degustazione “Bukë e Valljë”
Quello che ad oggi manca è un marchio unico che garantisca il valore di tutti i prodotti naturali che erano la primizia alimentare del Governo delle donne Arbëreşë, cose fatte con continui abbracci di amore e manualità che passava da madre in figlia, le stesse che hanno sostenuto questo popolo antico, a integrarsi ed essere considerati i fautori dell’economia in diverse macroaree delle sette regioni del meridione, oggi identificate come Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë; che non è l’Albanistica Arberia senza radice e solidità che non trova germoglio alcuno.
Se a tutto questo ricordiamo la memoria storica di queste terre ambite, da tutti i popoli europei che le ritemevano le più soleggiate e climaticamente equilibrate, di tutto il mediterraneo.
Infatti il sud dell’Italia di tutte le terre d’Europa, rientrando tra i paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, quindi i più centrali, non sono mai stati mira di popoli che la volevano sottomettere distruggerle, schiavizzare o violentare, ma viverci in comune convivenza con gli indigeni locali, in agio di vita lunga.
Tuttavia resta un dato fondamentale; che a valorizzare il territorio non possono essere le filiere lineari di un mero prodotto solitario, ma la tessitura del genio di chi è partito in concertazione con le forze umane e naturali di un ben identificato luogo, tutto il resto e fatuo, che non fa buona farina associata alla salutare crusca Arbëreşë.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-04-16