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IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

Posted on 22 febbraio 2025 by admin

ciliegio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della popolazione arbëreşë, non è fatta dei riflessi della luna negli occhi di una madre, quando allatta i suoi figli, specie se seduta sotto l’ombra che fano le foglie di un albero di noce; ma raggi di sole al mattino, che indicano la via maestra ad un popolo in crescita solidale, in quelle “Terre lagrimose, colme di pia genti Arbëreşë”.

Questo teorema fa la differenza tra la luna il sole e, in tutto il circoscritto del genio del male e il santificare del bene, nel corso del tempo per dare agio alla minoranza, di purificarsi e diventare il gioiello più solido e prezioso dell’integrazione mediterranea.

Nel racconto generale che gli eletti dispongono o stendono a gocciolare di notte e di giorno, senza cautela di raccontare sotto l’ombra di quelle pianta si viene poi allattati dal primo giorno di vita e, di quelli futuri a venire.

Tuttavia la differenza la fanno le cupe e tondeggianti noci, l’affilato mandorlo, a cui si contrappongono il sorridente ciliegio e il verde ulivo.

Una sostanziale differenza che ha come protagonista il colore in primo piano, in specie di quelle piante che non hanno, bisogno di una corazza per presentarsi a primavera innanzi alla luna, ma quando le illumina e il sole svelano la vera natura.

Un po’ come fanno gli isolani d’archivi e di biblioteca per seguire le tracce della storia mirano a sottrarre la scena di quanti vivono d’ascolto e confronto e, in specie minano le conquiste di memoria storica locale.

Quando si semina il grano in quelle piane che nella consuetudine linguistica locale degli arbëreşë, appellate, corredo steso al sole (arethë i shëtruatë ndë dialjtë), si preferivano le terre migliori, nel mentre gli ulivi azotavano quell’oro di coltura, con le foglie sempre verdi.

Un teorema antico, che poi la consuetudine degli arbëreşë, riversava nelle nuove generazioni che crescevano nei stenopoi e i plateiai della iunctura familiare sotto la luce e le ombre del sole che accarezzava Gjitonitë.

Pericolosi diventano quanti si sentono interi, ma poi culturalmente sono solo una metà di quello che serve, in tutto la negazione del vero che viene riferito agli altri condannati all’ascolto della libera e gratuita interpretazione che si espongono sotto il nocivo e liberale arbitrio.

Imparare a sognare quando non si è più bambini perché la speranza di essere eccellenza, si allontana dalle tue aspirazioni culturali, non ti dà rispetto in te stesso, specie quando ti specchi e, ti vedi sempre più nudo e senza alcuna veste di nobiltà sociale, che ti possa confortare per quello che hai dato e non puoi più ordinare.

Chi segue le linee parallele dell’arato deve saper espandere, la giusta dose di seme, altrimenti i covoni non saranno solo di spighe di grano ma anche di inutile fatuo, che serve solo a degenerare quel terreno che sostenere il tuo essere e la casa del bisogno.

Il fatuo nel seminato storico degli arbëreşë è sempre stato presente, ma la saggezza dei nostri avi ha fatto sì che non invadesse più di tanto, il seminato estirpandolo prima che diventasse spiga e fare danno, purtroppo le generazioni che hanno dimenticato questo atto di tradizione, hanno lasciato libero agio a quelle piante infestanti come se fossero genere buono e genuino.

Oggi purtroppo ci ritroviamo con campi di fatuo, dove non riusciamo più ad individuare il genuino, che la storia separa la crusca dalla farina.

Il senso di questa frase vuole dimostrare che il libero racconto democratico, dove tutti sono liberi di esprimere opinioni e un processo naturale che l’uomo espone come giusta causa.

Ma non tiene conto del dato che oltre la linea della porta di casa propria, le cose devono essere e rispettare la storia di tutti gli uomini, le cose che fanno Katundë e valorizzano il senso della regione storica diffusa, sostenuta in arbëreşë.

Ovvero dove termina il solco del seminato di ognuno di noi e, iniziano le terre che appartengono agli altri, per questo vanno rispettate senza essere contaminate da tutte quelle genti che li transitano per dare agio al cuneo di sostentamento, economico e civile, non fatto dalle foglie del nocivo arboreo, ma del verde candido dell’ulivo mediterraneo.

Tuttavia la professione più nobile e diffusa è quella del cantare seguendo la musica o invadere le professionalità  di quanti vogliono emulare e cercano senza risultato, le antiche direttive degli Olivetani napoletani, quelle che si diffusero dal convento lungo il crinale che porta a capodimonte, quando non era ancora reggia.

La Repubblica, nonostante l’articolo nove, promuova lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio, il patrimonio storico, artistic l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni.

Tuttavia i liberi pensatori, sotto la bandiera del dualismo politico, compiono senza respiro ogni genere di gemellaggio e miscelano la tutela su citata, che si decompone e diventa polvere al vento.

Ed è questo che bisogna concentrarsi a saper avvicinare le menti e i principi senza intrecciarli o renderli tessitura impropria. Va in oltre sottolineato che le istituzioni tutte di ogni ordine e grado sono all’oscuro o meglio adombrati dalle foglie del noce e si finisce nel rendere sin anche pagana il ricordo del termine di tutta la regione storica un tempo sostenuta dalla credenza  arbereshe, che in questa giornata promuoveva le cose buone della natura esclusi tutti i ricavati di sangue o di estrazione animale; buona ricorrenza a tutti quelli che sanno e tutelano memoria che non è per quanti, davanti a una fetta di salame o un bafa di genere aquatico sotto olio, dimentica il dovere del rispetto dei morti e, ingurgitano tutto, in memori di un nulla che si prospetta davanti a queste blasfemie senza radice.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                NAPOLI 2025-02-22

 

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