NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando si leggono le variegate disertazioni che compongono la legge 482/99, la mente torna nelle vicende di memoria enunciate come “Questione Albanese”, le stesse che dalla fine de XIX agli inizi del XX secolo non trovano solidità.
Tuttavia a ben vedere, quelle anomalie sociali sono contemplate nel 1999 come esigenza da tutelare Albanese, disertando così volutamente, l’emergenza della Regione storica diffusa degli Arbër/n, i quali perché Italiani, sono stati lasciati scientemente fuori dalla tutela dei legislatori del 99 che non riportavano in alcun modo l’appellativo della Minoranza.
L’indistruttibile modello sociale, denominato Arbër/n, il codice fatto di cose materiali ed immateriali, unitariamente legate con un ben identificato lugo naturale, è stata preferita una mera Questione linguistica Albanese moderna.
Per conferma pregnante e definitiva non servono luminari o addetti specificamente preparati, in quanto tutto appare chiaro appena si darà seguito all’inerpicarsi della Salita della Sapienza, per recuperare e valorizzare, finalmente, l’irripetibile scrigno di cose uniche e preziose che non sono certo depositate in Albania.
Non è da Corone o da Morea che essi provenivano, come di solito si ode cantare. Perché, non sono altro che i natii delle colline dove passa la via“Egnatia”, semplici e durevoli generazioni che affidano la forza nei valori all’accoglienza e il conforto nei riguardi di quanti lì transitassero per recarsi nel palcoscenico delle Ragioni di Credenza.
La minoranza storica degli Arbër/n non è “Arberia” sinonimo di stato, per questo, l’appellativo che si addice esclusivamente a quanti oggi vivono la Nazione moderna dell’Albania, quella eretta e istituita dopo l’aver affrontato l’annosa Questione Albanese tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che solo da qualche tempo si è deciso di valorizzare a scapito degli Arbër/n.
Sono gli attori della “Regione storica diffusa Arbër/n”, la penisola più accogliente del mediterraneo perché italiani e, quindi liberi pensatori, che avrebbero dovuto essere tutelati e citati nella legge detta, perché sono essi gli unici a conservare valori antichi rispettosi delle terre e le genti della discendenza.
L’ Arbër/n non è un Albanese italianizzato, essi sono i portatori sani di un modello antico; sono in pochi ad avere la fortuna di ereditare, comprendere, proteggere, per poi riverberarlo i cinque sensi alle nuove generazioni con la stessa radice pura di sei secoli orsono senza che nessuno li piegasse ad altrui mire.
Si è iniziato con il numerare le migrazioni con bauli libri e costumi come se nelle emergenze più estreme le cose di valore non è la propria vita, ma, vestizioni femminili al cospetto degli altri,
Personalmente ritengo che chi fugge perché in pericolo, non porta altro, che il proprio corpo, il cuore vivo, la mente pieno di amore e ricordi; null’altro.
Chi fugge dalla disperazione non va per mari e per monti per disperdersi o nascondere la sua ragione, ma segue strade, sia per mare che per terra, solo qui poteva diffondere e segnare il tempo con la propria ragionevole esperienza, affinché non si ripetesse e coinvolgesse altri.
Gli Arbër/n, sono stati, per la loro posizione storica e geografica un popolo, sempre sottomesso e diretti da altri, infatti: Romani con l’Impero d’Oriente, Normanni, Serbi, Veneziani e Turchi senza respiro sono stati l’eterna fucina senza incudine e martello.
L’epopea di Giorgio Castriota fu uno sprazzo di vivida luce, che interruppe solo per breve tempo il ciclo uniforme della tradizionale sottomissione, tuttavia, grazie al solco da lui tracciato, gli Arbër/n ebbero modo di conservare le dritte cose.
Infatti il dominio straniero non ebbe efficacia di assimilazione o attecchito cose agli antichi abitanti delle terre oltre adriatico poste ad est, segnando la parte più esteriore dell’anima e del corpo, che senza soluzione di continuò allora come oggi, proteggere i sensi il cuore e della mente, denotando negli albanesi un valore figurativo esterno che denota la piega di fucina.
Diversante dalla completa fierezza esterna e interna, materiale e immateriale che contraddistingue degli irriducibili Arbër/n del modello Kanuniano, che costringevano i conquistatori a limitarsi alla semplice custodia, delle vie di transito e non certo diffusamente all’interno.
Storicamente, la supremazia straniera non si estese dunque all’intera Albania, che rimase, in massima parte, come una regione isolata nell’ordine politico e nell’ordine sociale.
In particolare, poi, il dominio ottomano ebbe molti riguardi per queste caparbie dinastie diversamente dalle altre genti balcaniche con atti di oppressione e repressione.
Entro l’Impero della mezzaluna Arbër/n non erano né grandi né ricchi, tuttavia il popolo, relativamente uniforme rimaneva permanentemente suddiviso da discordie interne, difendendosi con ogni avverso con l’uso dei codici identitari mai svelati.
Carattere, costumi, linguaggio, credenze, culto fiero dell’indipendenza, si presentavano come prerogative albanese, immutate e prolungate attraverso secoli.
Nondimeno, il consolidarsi di nazionalità spiccate e fortemente assimilatrici non poteva rimanere immune rispetto allo sviluppo politico e sociale soggetta al Turco più per dominio formale che effettivo.
Così, a nord l’orbita serba attirava misure montanare dei Gheghi, in parte stanziati anche nel Montenegro, Mirditi e Dibrani; a sud dal fiume Skumbi o Skumbini l’orbita ellenica, poté assicurarsi la supremazia dei Toschi alimentando divergenza di interessi tra i due poli e l’Albania centrale.
Una sorta di regione neutra tra due stirpi e, nel contempo debolezza diffusa per l’intero paese, protetta marginalmente da una cintura di ostacoli natura verso l’esterno.
Il Castriota fondò la sua opera politica grazie alla posizioni di Kruja , di Elbasan e di Berat, dalle quali tenne a soggezione l’alta Albania, Musakia, Acroceraunia, Tepeleni ed Argirocastro e grazie a questa posizione poté realizzare quel solco politico che oggi sfugge alle attenzioni delle istituzioni, nonostante il presidente Mattarello lo metteva in evidenza nel suo discorso a San Demetrio, appellando la regione storica diffusa degli Arbër/n il modello più longevo di accoglienza e integrazione mediterraneo.