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STORIE DEI PICCOLI CENTRI MINORI NEL MERIDIONE ITALIANO (Janë përàlesë arbëreshë)

Posted on 02 maggio 2021 by admin

PER AMORE D’ARBERIA.NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Generalmente la storia dei centri minori del meridione italiano, si basa sulle note prodotte dal parroco, l’alchimista, il notaio, il medico o l’aio; in tutto, le uniche figure all’epoca dei fatti, in grado di leggere, scrivere; generalmente di parte e privi di competenze specifiche verso i temi e le note lasciate in eredità ai posteri.

Lo scorre lento, sostenuto dal consuetudinario locale, lasciava il tempo alle citate figure, di annotare le cose e catalogarle secondo personali descrizioni, che non rientrano nelle materie della propria formazione, professione o arte manuale.

I lasciti così prodotti, assumono più un valore campanilistico, che traccia della storia locale, quella che poi serve come lascito da tramandare.

Tuttavia, se le note opportunamente interpretate, si confrontano con le cose del territorio locale, il riferito di memoria è  presumibile catalogare quali i temi in due distinte categorie: le romanze locali utili a valorizzare ceppi campanili familiare  e  il veritiero realmente accaduto, quest’ultimo in specie, ricoperto da dubbi di ogni genere .

La consuetudine da annotare, la storia in forma campanilistica, attinge le informi pieghe dai trattati dei romani, questi ultimi, notoriamente per esaltare le gesta dell’impero in ascesa, mescolavano presente, passato e futuro, a cui si è dovuti ricorrere ai temi delle diplomatiche della storia.

Oggi a rivestire il ruolo di scriba dei latini, sono figure con funzione di  modellatori della storia locale arbëreshë o indigeni, i quali, invece di annotatore note da tramandare, esaltano senza ragione cose mai avvenute o da nessuno prodotte o rese in forma veritiera.

Per questo la storia dei piccoli centri minori, come avveniva con i romani, si ripete e promuove accadimenti, raffigurazioni, costumi e riti, senza un supporto di senso compiuto, rimanendo incapace di rendere credibile, forme fisiche e le risultanze del genius loci, in altre parole argomenti senza fonte storica possibile, per un ambito ben circoscritto o identificabile.

L’impossibilità di confrontare elementi finiti del territorio, parallelo allo sviluppo economico e sociale, immaginando che siano il prodotto del tempo di una stagione, restringe secoli di storia secondo la metrica di una favola o di una leggenda.

Chi oggi crede di poter tracciare o far apparire credibile la storia di un centro minore, brandendo capitolo, onciari liberamente interpretati da comuni addetti, in oltre produce danno alla radice della comunità.

Non è concepibile continuare a dare di giorno, in giorno, significati pittoreschi perennemente alle note locali senza avere come fondamento una visione globale dell’ambito in esame, in altre parole si costruisce forme con la polvere e alla prima flebile brezza, sottratta da quanti attendono d’incamerarla senza misura di cosa raccolto, se polvere di storia o stelle filanti, certamente non sono ne vicende e ne avvenimenti della radice  locale.

Quale migliore auspicio identificativo può essere, per un ambito minore, l’analisi del paesaggio, le bonifiche, gli elevati dove le genti hanno iniziato a vivere, le vie, le piazze, in tutto l’insieme “sheshò”  atto di ritualità, giacché, componimento, eseguito non secondo le note ereditate, ma grazie il genius loci, in altre parole, gli atti dell’uomo con l’aiuto della natura.

La storia di un centro minore, è cammino culturale, intrapreso da un gruppo di lavoro, in continuo fermento e confronto; esso mira a raggiungere obiettivi certi, individuando bagliore, dopo spiragli, la storia del passato.

Alla luce di ciò si può ritenere che ogni piccolo centro minore dell’Italia collinare, sia esso Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castrum, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Sheshi o Katundë, tutti volgarmente appellati Borghi, Borgate o Bovàrë; o il risultato matematico di una  somme, sempre in numero primo.

Altrimenti si termina per inglobare ogni cosa nel calderone dei piccoli imperi romani, in piena evoluzione; racconti di  luoghi idilliaci, i cui attori principali sono sempre nobili cavalieri, spose in festa e nessuno intento a lavorare;  una società priva d’ingiustizie, soprusi, prevaricazioni o pregiudizi verso le altrui genti, cui oggi, nessuno crede.

In altre parole una popolazione gioiosa intenta a stare seduta nei tipici artefatti murati, di fianco all’uscio della propria dimora, in attesa che la storia li annoti, toponimi di quartieri, rioni o gjitonie.

Per analizzare le dinamiche di crescita dei centri antichi detti minori, in passato, non si sono occupate, le grandi menti in campo architettonico, sociale, antropologico e urbanistico, generalmente inclini a osservare e studiare  centri maggio, ritenendo a torto, che il confronto tra uomini e natura, splendeva solo nelle grandi opere.

Purtroppo per loro, non è così perché l’uomo, ha sempre iniziato con le cose piccole, per poi crescere e fare cose grande.

Oggi finalmente si è compreso che è arrivata la stagione per recuperare e iniziare il percorso di recupero dai centri minori, avendo ben chiaro il principio che a svolgere questo complicatissimo compito devono esse i grandi e non i comunemente, senza formazione culturale, sensibilità, garbo, in tutto educazione, per leggere e tradurre le fondamenta dell’architettura che è appartenuta alla maggior parte degli uomini, in tutto la parte operosa del mediterraneo.

Ragion per la quale, dare significato alla storia e agli eventi seminati nei perimetri dei centri antichi detti minori delle colline italiane, bisogna essere “imprenditore storico colturale” menti libere da pregiudizi, prevaricazioni politiche, senza mire e accomodamenti di genere/ colore.

L’imprenditore storico colturale, preferisce libri, mappe, atti impolverati, memoria del territorio, in tutto, cosa è in grado di fornire ricchezza storico/culturale, per delineare il processo di sviluppo locale, in stretta aderenza con la storia in senso ampio, di un territorio in fermento identitario.

La ricchezza culturale così intercettata, renderà possibile aprire nuovi stati di fatto, attraverso cui si possono vedere, le vicende locali in forma di architetture.

Sono proprio queste ultime grazie alla consistenza degli elevati murari, gli orizzontamenti, i piani inclinati, ad essere espressione lampante del genio locale, atti materiali, elevati nel corso dello scorrere dei secoli; aggiunte, sovrapposizioni, conquiste di spoglio, sono l’espressione economica della crescita di un ben identificato gruppo familiare.

Gli stessi, che fino agli anni sessanta del secolo scorso rappresentavano i libri, gli atti disegnati sul territorio; la stessa architettura, s che da oltre cinque decenni accoglie superfetazioni e angherie di ogni genere;  senza  che una cultura professionale figlia della formazione scolastica, accademica e di categoria prenda il volo e osservi.

Quando si riferisce di tutela, non si dovrebbe intendere a quella delle leggi degli uomini, ma della fonte del rispetto che ha origine dalla formazione del progettista cui viene affidata l’opera, dalla committenza, lasciando ai preposti  il compito di memoria e non tribunale, da aggirare con espedienti o esperimenti.                                                                                                                

Solo quando il tecnico progettista inizia il suo itinerario sostenibile. attingendo da fonti storiche per impastare il suo progetto. fatto di antropologia, valori sociali, architettonici, analizzando le attività di luogo, potrà mirare a un buon progetto di riqualificazione.

È tempo di prendere consapevolezza che le epoche di edificazione di questi ambiti, nasce per rispondere a esigenze, non più possibili dentro i recinti delle città murate, questo è il tempo. in cui si termina di esse il modello per accogliere e sostenere le esigenze dei suoi abitanti, ma di allargare le prospettive sociali.

Ha così origine la città aperta o policentrica, prima con le appendici di prossimità fuori dalle mura, la conseguente eliminazione di queste ultime  per scelta strategia e rispondere adeguatamente alla nuova economia in forza lavoro.

È in questa epoca che nasce l’elenco citato di agglomerati, gli unici in grado di predisporre attività intensive in forme produttive, agricole, silvicole e pastorali, in prossimità di queste ultime.

L’agricoltura e la bonifica del territorio diventano la risorsa per la sostenibilità demografica in forte crescita, ed ecco che in prossimità dei luoghi di lavoro, nascono quelli che oggi identifichiamo come Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castrum, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Shesho e Katundë.

Modelli urbani che non hanno mura, ma si difendono con la tipica configurazione articolata in forma di rughë, shëpi e aie adagiate rispettosamente senza intaccare l’orografia naturale; rioni in aderenza che danno origine a forme urbane policentriche, il Sheshi, la nuova murazione fatta di case e strade per la difesa.

Questi s’identificano in due tipologie distinte; la prima, espressione sociale del modello di vicinato e riguarda gli indigeni locali; la seconda gli agglomerati etnici dei gruppo provenienti dalle sponde a est dell’Adriatico, questi, una volta intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, avviarono le loro attività di sostentamento, affidandosi al modello sociale denominata gjitonia, battiti sociali intercettabili all’interno dei quattro rioni tipici arbëreshë.

Analizzare gli ambiti e la relativa storia, per quanto accennato, consente di avere consapevolezza dei trascorsi delle popolazioni distintesi sotto il sole del mediterraneo collinare.

Secondo il noto filosofo Aristotele, i centri  quelli collinari, erano storicamente riconosciuti ideali per crescere, coltivare e nel contempo allevare coltura, scienza e arte, grazie alla luce più longeva del mediterraneo, la stessa che consente di indagare le sfumature più profonde, in ombre e si oppongono alla luce del sole.

A tal fine è il caso di citare alcuni esempi, se non i più emblematici componimenti realizzata in ambito architettonico e urbanistico, direttamente connessi con le narrazioni delle figure elencate all’inizio del capitolo.

Utopie storiche, componimenti dell’uomo senza indagine, producendo  prevalenza o favori di pochi verso i molti in sofferenza perenne.

Gli esempi sono rispettivamente: San Leucio in Campania, Filadelfia in Calabria, Ulteriore, Matera in Lucania e Cavallerizzo in Calabria Citeriore; quattro modelli  della storia moderna il cui sunto attinge dalla narrazione che supera supera la vera radice delle cose che servono; tutto diventa leggenda e quanti non sanno, producono identità violate.

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