NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il patrimonio storico fatto di cose, persone e fatti riferibili alla Regione storca diffusa Arbëreshë, non è stato il tema d’interesse per le istituzioni di ogni ordine e grado, nonostante, evidenti indicatori rilevassero le eccellenze ancora presente in questi anfratti insulari e peninsulari del meridione italiano.
Allo stato dei fatti, vive senza soluzione di continuità un fenomeno di resilienza attiva, il cui valore poggia nei principi di convivenza di uomini, cose, in armonia con la natura.
In altre parole sono luoghi della memoria innalzati secondo antichissime consuetudini, esperimento difensivo, tra i più singolari, perché non contengono forme materiali evidenti, o indirizzate verso altrui genti, per questo la regione storica, realizza i centri, assumendo il ruolo di fucina del confronto sostenibile di uomini, società, culture e religioni.
Ambiti costruiti in cui l’uomo utilizza le risorse fornite dall’ambiente naturale, attraverso antichi protocolli ereditati grazie a codici non scritti ma tramandati oralmente per innalzare presidi in forma di comuni intenti tra dinastie, generi e religioni.
Gli arbëreshë per questo si possono considerare il popolo capace a intercettare i luoghi ideali per divenire a tale risultato, senza forme invasive o che possano mettere in crisi gli equilibri naturali, nell’adempiere alle operazioni per la difesa degli spazi naturali e costruiti.
Un modello che avvia una nuova era, priva di barriere o murazioni atte alla difesa fisica degli uomini; come avveniva in altri ambiti circoscritti dove se ricco avevi il privilegio di vivere dentro i borghi, se povero nei pressi delle murazioni dalla parte esterna, alla mercé di ogni genere di invasore.
Il modello aperto dei centri antichi nati in età moderna, seguono una nuova prospettiva, basata sul principio dell’accoglienza urbanistica aperta, in cui la risorsa per la difesa era affidata al luogo e al modo in cui si poneva rispetto all’ambiente naturale; nascono così, lentamente, prima in forma estrattiva e poi additiva gli Sheshi, “Labirinti Costruiti”.
Essi sono composti da moduli abitativi essenziali, strade e spazzi disposti secondo l’orografia; un’apparente disordine urbano che si adagia sulle pieghe dei parallelismo ritrovato, disposti per accogliere e potersi espandere come cerchi concentrici all’infinito, perché la barriera naturale sommata alle lentezze dell’attraversamento le rendeva sicure senza troppo apparire .
Un patto stretto, tra uomo e territorio, in cui tutti ne traggono beneficio e valore; nascono così due elementi caratteristici: il primo esempio di razionalismo abitativo; il secondo, la radice della moderna industria, basato sui principi di famiglia Kanuniana, la filiera corta o “proto industria”.
I centri antichi detti di radice arbëreshë, nascono per accogliere, nascono per convivere, nascono per rendere il luogo vivibile secondo consuetudini antiche che non temono lo straniero, quest’ultimo non si avvicina per invadere o distruggere, non si avvicina per dominare, essi arrivano perché i Katundë arbëreshë, hanno tante strade che accolgono, per offrire un’opportunità per una nuova vita
Esempio unico nel genere, sono espressione di confronto tra popoli in leale convivenza senza che alcuno debba compromettere la propria identità pur avendo prospettive non simili.
Prova di questa ideologia che unisce è il tratto della via Hegatia, dell’antico Epiro che da Durazzo sino al confine con la Grecia, era noto come luogo dove trovavano allocamento, in comune convivenza, Chiese Latine, Chiese Ortodosse, Chiese Bizantine a cui nei pressi dimoravano moschee eogni altro presidio di credenza.
Questo è un processo sociale disegnAto nel territorio con architetture e modelli urbani, secondo esperienze dove i protagonisti sono gli arabi con le loro idee, poi i romani a incidere il primo solco, rifinito in seguito dalla credenza bizantina, contestata dai turchi, per essere difesa, valorizzato e sostenuta dagli Arbëreshë.
Tutto questo avveniva all’interno di semplici architetture, i tasselli fondamentali dell’urbanistico detta di città aperta o policentrica, la stessa dei processi delle città o metropoli dei nostri giorni.
Gli originari tratti distintivi di questo processo, in forma tangibile e intangibile si possono leggere nell’impianto urbanistico dei tipici rioni, ancora intercettabili e conservati nei tratti originari secondo i quali si svilupparono i Katundë arbëreshë.
Questi in specie e meno quelli indigeni limitrofi, non avendo avuto alcuna tutela si presentano stravolti negli aspetti esteriori, compromettendo fortemente il paesaggio, tuttavia all’interno rimangono intatti i valori immateriali che riverberano consuetudini mediterranee, importate dalla terra di origine, amalgamate con i segni delle civiltà che vissero in precedenza queste terre.
Questo patrimonio diffuso, proprio per il carattere distintivo, non tutelato, difficilmente potrà tornare a segnare lo scorrere del tempo, se prima non si pone attenzione nel comprendere e ascoltare i lamenti di vetustà per liberarli dai carichi impropri di superfetazioni.
Questo adempimento, deve partire dall’analisi del luogo costruito, specificando ruoli e dinamiche di crescita senza confondere, rioni con quartieri, strade con tracciati storici, piazze con modelli urbani in forma di scescio, paesi con borghi, poggi con colline e ogni sorta di pronome utilizzato per spettacolarizzare vesti storiche, con abiti da sposa, utili alla vita della specie, quanto si indossa per festeggiare l’aver fatto stragi non è un bel esempio di onore e storia diffusa.
Certezza sono i rioni storici secondo i quali nascono i paesi di minoranza arbëreshë, che seguono la via del confronto e dell’accoglienza, modelli urbani aperti, senza distinzioni di classe, ma più di ogni altra cosa, privi di murazioni fisiche atte a distinguere, quanti possono permettersi il lusso di stare dentro con falso onore, o restare fuori le porte, assumendo ruolo di ‘o buàrù.
Questo è lo stato dei fatti per i quali il patrimonio urbanistico storico dei piccoli centri antichi non va ritenuto secondari o di poco conto.
Ormai è trascorso troppo tempo nell’averli lasciati al loro inesorabile destino, sono fortemente vulnerabile ed esposti alle manomissioni di necessità in forma di adeguamento, secondo metriche di un modernismo irriverente, che s’insinuano nelle parti più intime, violandone, ogni forma e senso originario, oltre ogni sorta di diavoleria che non lascia scampo al messaggio in essi custodito.
Ad’oggi, servono forme di tutela in “Piani Attuativi” che diano linfa, anche contro le cause dell’emergenza , storicamente nota come la catastrofe che rende ogni cosa giusta.
Realizzare progetti di di restituire senso e ruolo ai ‘monumentali modelli’abitativi detti minori, piani colore e programmi di conservazione,devono dare risposte esaurienti a breve termine, avendo come supporto progettuale una accurata ricerca storica che allo stato delle cose quando non è opportunamente realizzata sfocia nei boschi e nei cieli verticali.
Il fine comune deve mirare alla valorizzazione del bene si base storica e non sia risposta di una singola opera o manufatto per la memoria come un mausoleo, ma espressione d’i un insieme Sheshi, recuperato con dovizia di particolari, in grado di rispondere alle esigenze odierne del territorio, e rispondere alle esigenze di resilienza moderna di luogo e persone secondo la filiera corta di un tempo.