NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – A seguito di un’indagine dello stato della sostenibilità, all’interno della regione storica arbëreshë, secondo le risultanze delle ultime tre generazioni, è emerso palesemente un quadro a dir poco allarmante.
Se accenniamo il dato che sino all’alba del settimo decennio del secolo appena trascorso, le generazioni crescevano pensando e dialogando secondo l’ereditato idioma attingendo dei propri genitori, cosa che non avviene più da diversi decenni.
E se solo dopo aver raggiunta l‘età scolare, si aveva la prima infarinatura in forma di dialogo e lettura della lingua italiana, adesso impera senza soluzione di continuità il calabrese diffuso, in espressione delle macro aree dei Kastrum di appartenenza marcatele.
Questo è il quadro a dir poco preoccupante, visto il gran numero di “devastatori culturali certificati e approvati” che divulgano, oltre modo, notizie della stessa matrice indigene, privi dei minimali requisiti formativi in diverse discipline, proponendo stereotipi senza fondamento e senso.
Che cosa sia avvenuto dagli anni settanta in avanti, sino ai giorni nostri, è un fenomeno da studiare, nonostante furono emanati leggi di tutela, risorse e componimenti per evitare l’inattesa deriva.
Quest’ultima ha prodotto una breccia incolmabile, a cui si può correre ai ripari solo producendo, stati di fatto su certezze storiche.
Per rievocare ogni cosa, richiede una larga e diffusa trattazione multi disciplinare, che in questo breve saranno accennati in forma palese e indelebile.
Se torniamo indietro con la memoria e ricordiamo tutti i buoni propositi, per i quali furono istituiti numerosi dipartimenti, leggi e istituti, con l’impegno di tutelare e sostenere gli elementi caratteristici delle minoranze storiche italiane, la cui direttiva attingeva dagli articoli tre, sei e nove della Costituzione Italiana.
Vero è che nel tempo di tre generazioni è stato smarrito ogni forma di interesse verso la storia degli ambiti costruiti, la lettura dell’architettura secondo i canoni “ARBËRESHË”, della lingua. la metrica, oltre gli aspetti religiosi, che nel tempo di una benedizione, si cambiavano vesti, riti e imprestavano asce, chiodi e martelli per distruggere statue e affiggere icone.
Tutto era depositato sotto un pietoso velo grigio, lo stesso che innesca processi di confusione alle chiare prospettive ereditate oralmente dai nostri genitori.
Sono state proprio le anomale figure battezzate dagli articoli 3 – 6 – 9 della Costituzione ad innalzarsi come guide del sapere e smarrire ogni riferimento al fine di allevare le tre generazioni citate, abbandonate nell’odierna deriva culturale.
L’errore, commesso da istituti istituzioni e ogni sorta di privato cittadino, armato di buone intenzioni, è stato in non aver mai avuto elementi idonei a realizzare una base culturale adeguata a sostenere il prezioso protocollo identitario.
Se in qualche disciplina sia transitato un velo di cultura, l’esaltazione, cattiva consigliera ha terminato con l’invadere altri campi di ricerca più complessi, rendendo così paludi le arche colme di significato che finirono per essere idonei siti per le Anofele.
Per evitare cattivi intendimenti, parliamo del costruito storico e i valori materiali immateriali in forma sociale addomesticati e costruiti secondo precisi protocolli, entro cui sono stati depositati, all’interno del costruito che negli spazi antistanti consuetudini, antiche di matrice religiosa e pagana.
Vero è che ancora negli anni novanta del secolo scorso, gli studiosi locali e di ambito, ritenevano il costruito storico, come prestito indigeno, non degni di nota o di essere studiati, contemplati o considerati tema di analisi e studiato.
Intanto accadeva, nel mentre si decideva se erano icone o statue, da venerare, di presentare racconti di fratellanza per battaglie, processioni per fiere dove a primeggiare era il vino, genitori appellati come compagni, oltre a riferire di metrica canora di genere, in forma di balli di battaglie vinte, perché sostenuti da generi, in attesa di ballare.
Sono questi gli avvenimenti, senza alcuna senso storico, a determinare le pericolose derive, attraverso le quali sono state rese irriconoscibili le cose del protocollo arbëreshë, oggi stese al sole, in sofferenza e scambiate come indigene o di matrice turca.
Se volessimo puntualizzare solo uno di questi argomenti, come non citare della storica nuvola sociale, relegata al mero affaccio dell’uscio delle case, disposti in forma circolare o linearmente su slarghi o strade, come se altri popoli o altre comunità, l’uscio delle case usavano disporlo verso luoghi senza transito, montagne inaccessibili o precipizi.
Questo e molto altro ancora è stato certificato, da un numero di addetti senza titolo, come adempimento attinti dagli indigene, ritenendo, gli arbëreshë un popolo che viveva in capanne disposte in ordine circolare, come gli indiani delle Americhe.
Di questi protocolli esistono cospicue trattazioni, in cui si evidenziano forme e dimensioni, mentre nelle planimetrie storiche appaiono, in forme pressoché rettangolari o addirittura triangolari secondo un misterioso trittico urbanistico, importato dalla terra di origine, in tutto un’orgia di alchimie demoniache.
Un quadro per nulla edificante, in cui primeggiano: giullari impazziti, fumosi alchimisti, spose solitarie, pronte a promettere piaceri circolari, per poi terminare in colorite espressioni d’ignote latitudini.
Se a tutto questo, aggiungiamo le gratuite note a cielo aperto di un’estate mai verde, non sostenibile, la di cui conseguenza più ovvia incute energie e risorse negative che ogni giorno compromette la solidità armonica dei “cinque sensi arbëreshë”.
Tutto questo costringe le nuove generazioni, della minoranza storica a sorbire scenari indegni e poco utili al punto tale che neanche il sommo poeta, nella peggiore delle sue tappe, sarebbe stato in grado immaginare.
Dipartimenti istituzioni di ogni ordine e grado, hanno per questo dato avvio a una stonata sinfonia di tutela cavlcando aspetti mobili e immobili, manipolandone a la metrica armonia tra ambiente naturale e uomo, perché suonavano senza rendersi conto che ancora mancava il maestro per dirigere.
Questo è l’errore fondamentale che segna le ultime tre generazioni, le quali hanno immaginato che fare parte della grande famiglia di suonatori, la “regione storica arbëreshë”senza un maestro potevano suonare musica.
Purtroppo questa usanza anomala, specie per chi non ha suonato mai musica come gli arbëreshë, attende che dalla cabina di regia sorga il sole e adombri, i noti saccenti, seguiti dalla innumerevole pletora di servitori inginocchiati.
Allo stato delle cose servono sette saggi, uno per ogni disciplina, al fine di rendere omogenea ogni cosa giusta e attinente con i luoghi vissuti dagli uomini della regione storica, senza dover attingere dalle cose Francofone, Germaniche, Latine, Grecaniche e di ogni altro popolo che non sia riferibile al Kanuniano protocollo, tramandato oralmente.
Gli arbëreshë vivono una stagione assurda, che non ha precedenti nella storia di nessun altro popolo, in quanto, ogni alchimista imita Laurent de Lavoisier, ogni bidello emulare Torelli, credersi Enrico Berti, progettare come Quaroni, tutelare come de Felice, in tutto un esercito di figure che pur di apparire spara basso, immaginando che mirare alle gambe, produca meno danno che sparare dritto al cuore della regione storica.
Nel corso di Composizione Architettonica tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, un noto professore, mio maestro, prendeva ispirazione per le sue opere, dal pittore Russo Vasilij Vasil’evič Kandinskij, ciò nonostante nessuna delle sue opere realizzate in Italia; sono tante e famose al giorno d’oggi nessuna porta il nome dell’ispitatore pittore Russo.
Questo vale anche per quando si dice del modello sociale Kanuniano denominato gjitonia, perché, invece di comprenderne il significato, la radice e il valore sociale, al fine di dare univoca esposizione , negli anni settanta del secolo scorso, si è preferito copiare il tema dalla compagna di banco, Lidia da Bari, sostituendo al soggetto del suo tema “Gjitonia” con “Vicinato”.
Ormai le cesta che porta l’asino, dal saggio padrone, sono: sono tornate a casa una colmo di errori senza senso; l‘altra con certezze di quanti in forma privata fanno coltura di qualità.
Quanto prima l’asino solitario giungerà alla meta e non servirà a nulla isolare gli autori del cesto la storia non fa sconti perché è lenta e imperterrita, a breve si confronteranno i contenuti; a tal proposito valga l’esempio di Fabio G., noto cantante arbëreshë, al quale durante la processione di Sant’Atanasio del due di Maggio del 2003 venne chiesto: ma a scuola quando la tua generazione frequentavi le lezioni di “Alberese” , quelle realizzate dalle istituzioni, quale beneficio ti hanno fornito: rispose secco: Thanà nengh fijsinë si më fieth Nana; u jiam arbëreshë.
Per terminare questo breve, si ritiene sia doveroso rilevare quali siano le cose degli arbëreshë, avendo consapevolezza di non poterle tutelare solamente perché si fanno convergere aspetti di q minoranza nella miscela alchemica dell’idioma con accenni Arbëreshë è valenze Albanese condite per la parte mancante di macinati latini e greci; altrimenti si torna indietro nel tempo all’epoca del 1835, con Torelli che redarguisce e fa tornare il figlio del mugnaio a casa, con il macinato era anomalo.
Non basta credere di essere, bisogna saper fare l’arte dell’architetto, l’urbanista, l’antropologo, il sociologo, il ricercatore per sommare le cose della storia e degli uomini, per innalzarli certi di non distruggerli.
Cosa diversa è l’apparire per moda, sostenuta dalla luce e dal vento della natura, che per funzione, sono in continua mutazione.