NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Affermare ancora oggi, che la minoranza storica arbëreshë sia passata indenne allo scorrere del tempo, perché ha vissuto lunghi periodi d’isolamento, è un teorema privo di senso.
Poi, credere pure che la sola espressione idiomatica è la medicina che guarisce ogni male di queste popolazioni non ha alcuna fondatezza scientifica, anzi si esalta il senso della banalità o della leggenda.
Cosi anche quanti appellano comunemente l’insieme della popolazione Arbëria (sinonimo di stato), poi la seminano in ogni luogo, ritenendo che essa si trova dove, due o più parlanti s’incontrano e iniziano a parlare.
Alla luce di ciò è bene precisare che la minoranza storica, non va circoscritta esclusivamente nell’idioma, perché si finisce per sminuire l’apparato tangibile e intangibile, la vera piattaforma attraverso la quale si tramandare l’identità, priva di forma scritta e arte figurativa.
La forza nel tramandare di generazioni, è racchiusa nel consuetudinari che si produce tra madre in figlia e pare in figlio, consuetudini condivise e ripetute sino all’ultimo respiro del più anziano, per poi ricominciare.
Sono proprio gli ambiti, naturali e costruiti in conformità a esigenze per rendere solido e duraturo il modello esclusivo mediterraneo, che restituiscono l’unicum che fornisce il suo apporto agli ambiti economici e sociali del macro sistema, rimanendo intatto nel tempo, senza degenerazioni di sorta.
Ritenere che la minoranza storica sia un prodotto di esclusiva radice idiomatica, poteva essere un argomento utile e pregnante sino alla meta degli anni settanta, per scopi politici o di casta culturale nascente.
Se a quei tempi per un presidio di studio, si poteva volgere lo sguardo, tale teoria oggi assolutamente non può passare inosservata e lasciata libera di vagare!
Essendo stati aperti, nel frattempo che i presidi prendessero forma, nuovi stati di fatto, oggi è giunto il tempo di restituire dignità e una chiara visione di quanto realmente è avvenuto in sei secoli di tenuta culturale contro le tempeste dei riversamenti scritto grafici degli edificati del sordo e del settimo degenere.
Terminato il tempo di riversare o addirittura copiare delle altrui culture, questa è la stagione del riconoscimento identitario arbëreshë, chi ha la forza di seguire la china culturale con garbo e dedizione è il ben venuto.
Quanti diversamente credono di prendere parte armati di organetti e strumenti sonori discutibili, immaginando che battere il passo, sia indispensabile, sappiano che perdono il loro tempo e dovranno prima o poi pagare per il maltolto, con la propria coscienza, ammesso abbiano conoscenza di un tale frutto.
Non è concepibile, per questo, che ancora oggi si possa riferire che una minoranza sia il risultato di “un idioma”, pur se è consapevolezza diffusa nel riconoscere sia giusto studiare la totalità degli aspetti materiali e immateriali che la caratterizzano e la rendono parte integrante, anzi oserei dire, fondamentale di un ben circoscritto macrosistema culturale, economico e sociale di maggioranza.
Nel corso della storia, legare la caparbietà Arbanon al solo fuscello idiomatico è stato un adempimento paradossale, in quanto, esso rappresenta solo una parte di un albero molto più articolato e complesso, sia nella parte visibile fuori terra, e sia delle radici indispensabili a sostenerla e alimentarla.
I gruppi familiari allargati di Arbanon, hanno rappresentato nel corso della storia una macchina sociale ineguagliabile, capace di insediarsi in località o meglio in ambienti naturali ben adatti a riverberare il proprio modello, in cui i cinque sensi convergessero in armonia con i presupposti di allocamento ideali.
Un insieme finito composto da uomo, consuetudine e natura, caratteristica viva sino alla meta del secolo scorso e in buona parte ancora oggi si cogliere indelebilmente, attraverso la toponomastica storica e negli elementi naturali e costruiti.
Identificare una minoranza storica, che riverbera con caparbia determinazione la propria identità dalla notte dei tempi, attraverso l’esclusivo tema idiomatico, non rende merito alla caparbia e valorosa popolazione.
Gli Arbanon, Arbëri e oggi Arbëreshë, è un sistema di radici che ha bisogno del propria ambiente naturale per crescere e produrre quell’albero capace di riverberare al contatto con il vento e l’ambiente la propria natura.
Essa si materializza in consuetudini, riti pagani e religiosi, per poi marcare gli spazi privati, familiari o intimi, con il proprio idioma, gli spazi all’aperto con la metrica, con i calendari rituali lo scorrere del tempo.
Questi ultimi in specie, per una furbizia storica degli arbëreshë, hanno adattato miti, leggende, paganesimo, grecismi e latinismi per sfociare oggi nell’epoca bizantina, conservando indelebile un sottobosco esoterico tramandato nel chiuso di grotte case e palazzi.
Ermetici e abili addomesticatori di terre, fiumi e cavalli, nel pieno rispetto dell’ambiente naturale, sono stati preferiti nonostante, le diffidenze per la chiusura identitaria, da Regnati, Papi e ogni genere di sistema territoriale politico e religioso, per la capacita di mantenere fede a ogni impegno preso.
Oggi la voglia di emergere e di rendere merito alla storica minoranza, sfugge al controllo delle istituzioni culturali, che nel corso degli ultimi decenni nonostante qualche frammento legislativo, sia stato prodotto, non ha germogliato neanche un frammento di arche del buon senso.
Oggi aspettiamo il momento della rinascita, si cavalcano le vie del costume senza ago, filo e metro; quelle del canto con strumenti musicali; quelli dell’urbanistica e dell’architettura senza matita e compasso; gjitonie copiate dal vicinato; calendari rispettosi di anomali latinismi, immaginando, che così facendo, si possa annaffiare le preziose radici identitaria ormai in penuria idrica, da diversi decenni.