NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli e le sue provincie sin dai tempi dei fondatori sono state, per le caratteristiche climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, accoglienza e convivenza tra popoli con diverse ideologie.
Tra queste, resiste imperterrita, allo scorrere del tempo, la popolazione della minoranza storica Arbëreshë, che silenziosamente è protagonista incontrastata sia nelle provincie dell’antico regno e sia nella capitale partenopea.
Il centro antico della storica capitale dell’Italia meridionale, per la sua posizione baricentrica nel mediterraneo, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, Austriaci e tante altre popolazioni e dinastie di rilievo.
Tutti depositarono temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati la forza della città, tra questi a partire dal XII secolo, vanno ricordati anche gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, l’odierna Albania.
Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica.
La città metropolitana di oggi e il centro storico e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbanon, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nella piana del quartiere di Fuorigrotta e più in dettaglio all’interno dell’area dell’odierna Mostra d’Oltremare.
Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo per i processi di tutela cristallizzati, giacché luoghi di storia protetta; diversamente accade nell’edificio che pur testimoniando, la prima pagina del rilancio culturale economico e produttivo dell’Albania di settant’anni addietro, non ha avuto lo sperato momento di gloria, cosi com’era stato immaginato dai suoi progettisti.
L’edificio fieristico denominato Padiglione Albania, fu edificato negli anni trenta del novecento, nella Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli; dedicato specificamente all’Albania (stato Skipëtaro), unico padiglione, per i rapporti storici che lo legavano all’Italia, a essere contraddistinto con il nome proprio della Nazione.
Forte dell’esperienza barese, all’interno della Fiera del Levante, l’urbanista Gherardo Bosio, progettò il Padiglione di Fuorigrotta, affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi.
L’opera espositiva a tema, esclusa la breve parentesi dell’inaugurazione, sembra aver assunto le caratteristiche delle pietre tipiche Albanesi e resistere solo per essere contemplato per la sua lapidea durevolezza.
Esso nasce come biglietto da visita delle eccellenze Albanesi, il cui tema architettonico metteva in evidenza le tipiche abitazioni denominate “Kulla” abitazione grazie alla quale le famiglie allargate Arbanon difesero la propria identità linguistica, metrica canora, consuetudinaria, e religiosa.
Diversamente dal progetto che mirava a valorizzare le caratteristiche: storiche, geografiche, della produzione e del lavoro, che avevano contraddistinto, l’Albania sia dai tempi dell’impero romano.
L’edifico si presenta come una struttura in pianta rettangolare, in bugnato e arricchita da aquile di epoca romana ai quattro angoli; la facciata principale ospitava, un ampio loggiato ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.
Il salone interno, si presentava rivestito da lastre di marmo apuano, ulteriormente impreziosito da lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura un particolare irraggiamento.
Il percorso espositivo si sviluppava secondo priorità riferite all’Artigianato e all’Industria della Nazione Albanese dell’epoca, proseguendo, attraverso due scalinate, in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso, si giungeva al primo piano.
Nella scalinata di destra, dominava l’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, accompagnando il visitatore verso la Storia dell’Albania; la scalinata di sinistra, sovrastata da un dipinto di Gianni Vagnetti, conduceva alla sezione riservata alle opere che si andavano a realizzare in Albania.
Pregevolissimi erano i materiali archeologici secondo l’allestimento di Luigi Penta: essi consistevano in quattro statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto.
Tra queste la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa ebbe ragione dei bombardamenti che di li a poco tempo l’avrebbero deturpata.
Il secondo piano ospitava otto teste che non subirono danno e dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.
Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital allocandovi nei suoi spazi le sale operatorie.
Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948, quando si diede avvio al progetto per la ricollocazione fieristica del polo, conclusa nel 1952 con la conseguente inaugurazione con titolo il Lavoro Italiano nel Mondo.
La manifestazione segnò anche l’inizio di una lenta e inesorabile manomissione del tema architettonico originario, stravolto per aver modificato alcune strutture identitarie dell’antico progetto, perché profondamente danneggiate dai bombardamenti.
Oltre ciò, nel corso del rifacimento il padiglione venne convertito, con poca attenzione del suo originario tema, intitolandolo al Lavoro Italiano in Oceanica.
Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse, dando così avvio ad un secondo abbandono dell’ edifico, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.
Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la gestione di Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio.
Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area, ma ciò nonostante il Padiglione Albania, fu abbandonato èd ebbero inizio le drammatiche vicende di abbandono e l’ovvio degrado.
L’ingresso all’edificio, infatti, è a oggi circoscritto da un muro in cemento che ne impedisce vista e accesso, la cui naturale conseguenza è la perdita immateriale del suo significato storico e l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato.
Tutta la vicenda del padiglione Albania cui si deve porre rimedio e dare lustro, sino a oggi si possono sintetizzare nel dato, che non rientra ne fa parte di questa analisi,specie quelle legate all’ultima vicenda che ha visto l’intero piano di riqualificazione dell’comparto, oggetto del ritiro dai fondi europei previsti per la sua riqualificazione.
Alla luce di ciò e di tutte le vicende storiche che legano Napoli, il meridione d’Italia e l’Albania, devono porre in essere attività in concertazione tra le istituzioni, affinché il padiglione assuma quella funzione di fratellanza storica, economica, sociale, culturale, religiosa e politica per il quale venne innalzato e contro ogni avversità degli uomini continua a resistere imperterrito.
Il Padiglione Albania, allocato all’interno della mostra d’Oltremare, non è un semplice involucro fieristico reversibile, e adattabile a ogni genere di avvenimento, in quanto, nasce come emblema storico di cooperazione e diffusione delle eccellenze di oriente e di occidente cordialmente convergenti nel bacino mediterraneo.
Un monumento realizzato a tema per unire l’Italia ospitante e l’Albania ospite, una caratteristica parallela che unisce i due ambiti territoriali posti di fronte e quanti hanno avuto la possibilità di farla brillare, non possedevano lo spirito storico culturale per comprendere il ruolo che esso doveva assumere.
Oggi le istituzioni Albanesi e Italiane dovrebbero rendere merito alla caparbia durevolezza di questo manufatto, segno di unione di due popoli e terre parallele, predisponendo misure adeguate per confermare il legame tra le due nazioni, essendo l’Italia, anche la patria ospitante la minoranza storica più numerosa del meridione italiano: gli Arbëreshë.
Per questo, urge istituire un comitato tecnico, politico e scientifico, al fine di concertare, appropriate iniziative per restituire al manufatto gli originari temi divulgativi dei territori oltre adriatico sia dal punto di vista sociale e sia produttivo, degli Albanese a Napoli.
Basterebbe spolverare protocolli tecnici e porre in armonica cooperazione i Ministeri della Cultura, del Turismo, degli Esteri e dell’Industria, oltre Regioni, Provincie e Comuni, per rendere l’edificio, un luogo d’incontro per la minoranza storica arbëreshë, che con le sue eccellenze è stata sempre in prima linea con le vicende storiche partenopee, ancora oggi solidamente connesse alle realtà sociali culturali ed economiche meridionali.
Il padiglione Albania alla mostra mediterranea potrebbe diventare l’emblema di un trittico culturale senza eguali, per questo, attraverso il giusto progetto di restauro funzionale, si potrebbe allestire attività in rappresentanza di una Regione Storica Arbëreshë e della Nazione Albanese in terra d’Italia.
Un vero e proprio manifesto fieristico espositivo,da cui far emergere l’espressione culturale, senza soluzione di continuità, secolare, al fine di rendere merito al modello sociale, culturale, linguistico, consuetudinari e religioso, tra i più solidi del bacino mediterraneo, frutto della buona cooperazione di radici solidali.
Il padiglione Albania monumento unico nel suo genere, rappresenta, il luogo in cui convergono culture diverse, per confrontarsi, per far emergere le cose buone dei due paesi di fronte, proprio come “l’Aquila bicipite”, che rappresenta un solo corpo, forte e solido, con le prospettive di orientamento ricolte sia a oriente e e sia a occidente.
Uomini culture religioni e operosità messi a confronto per migliorarsi e spargere esempi attraverso gli elementi caratteristici della regione storica arbëreshë, l’esempio mediterraneo di cui Napoli e l’antica Albania, hanno reso possibile, da sei secoli e senza soluzione di continuità sino a oggi.