NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La Bagliva o Baliva (da Balivo pubblico ufficiale con autorità su di un determinato territorio) costituiva l’esazione di diritti da parte delle Autorità Pubbliche preposte per applicazione di bolli alle bilance, alle stadere e alle caraffe, in base alle unità di misura usate in quella provincia.
Tale tassa, non sempre periodica, era associata al controllo da parte della Pubblica Amministrazione degli attrezzi utilizzati per il peso degli aridi, il volume dei liquidi e ciò a salvaguardia dei diritti dei consumatori nei confronti dei venditori e reciprocamente.
Si aggiunga che in accadico c’è il verbo babâlu con il significato di condurre, trasportare, il quale in verità richiama fortemente quello latino baiulare che ha lo stesso senso.
Il peso naturale che la donna porta in grembo, in braccio o al collo è infatti il suo bambino, di sicuro c’è il neonato che a lei si affida perché gli dia il suo latte e poi lo svezzi e se ne prenda cura.
Forse è il caso di accennare anche a un San Bàiulo, protettore delle bàlie o dei facchini, il cui martirio è celebrato il 20 dicembre.
Ben presto accadde che al fardello materiale si aggiungesse quello metaforico del carico morale e allora nacquero parole come bàiulo, che Dante adopera per il portatore dell’aquila imperiale ( Paradiso , VI, 73) e per chiamare i sette re di Roma «quasi baiuli e tutori della sua puerizia» ( Convivio , IV, V, 11), e bàlio con cui si designarono i mariti delle bàlie, i pedagoghi e i precettori.
E poi, di peso in peso si pervenne a dar del bàlio a chi doveva sostenere quello di un ufficio giurisdizionale straordinario o di un governo territoriale con autorità civili e giudiziarie.
Fu così che col titolo di bàilo, si noti la seconda metatesi, venivano inviati alla corte di Bisanzio l’ambasciatore della repubblica di Venezia e quello di Firenze.
Passato nella lingua dei francesi, prima con bailler = portare, il termine divenne baile = governatore, che fu titolo ben presto conferito a ministri, reggenti e grandi dignitari.
Da baile si passò a bailli, grado supremo in molti ordini cavallereschi e religiosi, e poi a baillie e fu nella forma di balìa che il termine tornò in Italia col significato della potestà assoluta, della piena signoria che sottopone tutti alla mercè autoritaria di qualcuno o di qualcosa.
Quella di balivo fu in seguito la carica di nomina regia per cui, nell’ordinamento feudale, si era posti a capo di una intera circoscrizione territoriale.
Nella Napoli angioina il termine baiulus è attestato in documenti dal 1269 in poi col significato di amministratore delle rendite, dei censi e dei tributi del sovrano.
Curia del bàiulo fu detto il tribunale amministrativo competente per i reati contro il patrimonio di entità non superiore ai tre ducati.
La Baillie ebbe prima residenza nel superstite pronao del tempio di Castore e Polluce, ovvero presso le scale della chiesa di San Paolo Maggiore, poi in un vicolo adiacente del quartiere San Giuseppe.
Il bisogno di riunire in unico edificio le diverse magistrature sparse lungo la via, che non a caso reca ancora oggi al plurale il nome dei Tribunali, portò nel 1540 anche la Bagliva in Castelcapuano.
Il trasferimento della sede giudiziaria provocò una innovazione toponomastica, per cui si continuava a dire Bagliva la sede giudiziaria, ma si definì Baglivo e poi Vaglivo il sito che ancora oggi ne conserva il nome nel quartiere San Giuseppe.
La cosa ha una sua dimostrazione letteraria in Giambattista Basile che distingue, nelle sue Muse napolitane (1635), tra «la Bagliva» ( Clio , v. 214) e «lo Baglivo» ( Tersicore , v. 20), ovvero tra l’ufficio dove presentare una denuncia o attendersi giustizia e lo spazio urbano che dapprima l’ospitava.
La figura del balivo assume quindi significato sia economico che politico, identificando un rappresentante edificio.
Ogni baliaggio era di competenza di un sovrano che si occupava dell’amministrazione di quel territorio grazie a un landfogto: una persona che veniva mandata nel baliaggio per amministrare la giustizia e per riscuotere le tasse.
Con Bagliva, si intende quindi una circoscrizione territoriale, e sotto alcuni aspetti, anche amministrativa, che racchiudeva nel suo perimetro due o più casali contermini e che assumeva il nome del casale principale.
Ad esempio Kòliva joskàrit, ritenuta strategicamente lo spazio rappresentativo di un possedimento il luogo di incontro per le misure e per le retribuzioni dovute.
il richiamo alla Kàliva con cui gli albanofoni indicano quel rifugio essenziale e strategico ad uso e servizio prevalentemente dei terreni agricoli o Copricapo di fortuna che ricade all’interno di un determinato territorio di balivaggio.
Il termine Kàliva, utilizzato dagli albanofoni, per identificare quel manufatto ricadente all’interno dei terreni agricoli utili alla gestione e produzione agro-silvo-pastorale è sempre accompagnato da una modesta estensione di territorio che ha come regia il luogo della Kaliva .
Esso rappresentava l’utile giaciglio per ripararsi dalle intemperie, il deposito degli attrezzi, la stalla, oltre a rappresentare il luogo da cui pianificare, gestire e predisporre e dare conto delle lavorazioni più idonee alle quote di terreno.
Il primo luogo da raggiungere all’alba e organizzare le attività giornaliere e l’ultimo al tramonto da cui partire e riunirsi con la famiglia in paese.
Edificato su pianori naturali, senza alcun tipo di fondazione, si elevavano i paramenti murari in blocchi, matunazetë, queste ultime ottenute amalgamando un impasto di terra, paglia e il giusto quantitativo di acqua.
Per meglio amalgamare l’impasto si utilizzava la pietra trainata dai buoi che normalmente serviva per la trebbiatura.
L’impasto così ottenuto era depositato all’interno di apposite sagome, continuamente vibrate e in seguito lasciato ad essiccare al sole.
I paramenti murari per edificare le Kàlive erano realizzati con la semplice sovrapposizione sfalsata dei blocchi ed è rimasto uguale nell’utilizzo dei materiali primari, blocchi, travature, infisso tegole e panconcelli.
Le modifiche che essa ha subito nel tempo si sono limitati all’utilizzo dell’impasto di sabbia e calce per realizzare gli idonei cuscinetti tra blocchi e sovrapporre ad essi oltre che a realizzare una lamina di intonaco protettivo per renderli meno esposte alle insidie meteorologiche.
L’unica apertura, l’ingresso, era ricavata con piedritti in blocchi e architrave in legno, la copertura in doppia lamina di coppi, dritti e rovesci, sostenuta da un impalcato di travi e panconcelli.
La copertura a falda unica, fu sostituita in seguito da quella più economica a due, poiché a parità di superficie utilizzabile, consentiva di produrre una minore quantità di paramento murario.
Il manufatto prevalentemente a pianta quadrata in alcuni casi, assumeva la forma rettangolare, mantenendo il lato corto, che non sempre era il principale, ma che manteneva la dimensione al di sotto dei 3,50mt. circa.
La dimensione su citata era rispettata per evitare sovraccarichi, dovuti alle eccessive dimensioni relative alle sezione utile delle travi primarie.
All’interno trovavano sicuro riparo i prodotti appena raccolti pronti per essere trasformati o inviati al mercato, i canestri per l’essiccatura stagionale e tutti gli attrezzi di uso comune per le attività agro-silvo-pastorale.
Uno dei quattro angoli all’interno della kàliva era adibito a camino, pur non avendo alcun tipo di connotazione tipica per lo scopo, questa si riconosceva dai residui della combustione di cui erano intrise le pareti del recapito prescelto.
Le kàlive sono state edificate sino al XX secolo e si conservano ancora validi esempi.
Essi furono sostituite prima dalle case coloniche che la legge agraria consentiva di realizzare grazie ad agevolazioni economiche e fiscali e poi da residenze vere e proprie.
La kàliva, in alcuni casi, è stata la vera e propria abitazione per le classi meno abbienti essa si poteva ritrovare anche all’interno dei perimetri urbani poiché di facile edificazione.
In seguito ai tanti eventi sismici esse sono state realizzate con sistemi edilizi più idonei, utilizzando materiali di spogliatura acquisita da coloro che dopo i terremoti non avevano l’opportunità e la forza economica di riedificare.
L’evoluzione della kàliva è andata di pari passo con gli eventi economici, sociali adeguandosi ai sistemi tecnologici e al nuovo modo di produrre agricoltura.
In tempi più recenti sono stati utilizzati materiali più idonei, paramenti murari in pietra e listatura di mattoni o strutture ancora più moderne con l’utilizzo del cemento armato, sicuramente più idonei ai primi, le coperture realizzata con paramenti e tegole più moderne, idonei basamenti di fondazione, infissi tecnologicamente più avanzati e man mano l’utilizzo di tutti i tipi di impianti termici, idrici ed elettrici utili a un modello di vita in linea con i tempi odierni.
Il vecchio nome di kàliva è stato col tempo sostituito da quello più rappresentativo di Casolare, poi di Villa, oggi di Agriturismo, ma lo scopo di vivere questi anfratti è rimasto costante, ovvero, quello che l’uomo cerca di addomesticare e rendere il territorio utile e idoneo per una più naturale sopravvivenza.