NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Mio Padre raccontava spesso, nelle gelide serate senza luce elettrica riuniti davanti al camino, il suo sofferto ritorno a casa a seguito del disarmo dell’esercito Italiano alla fine della seconda guerra mondiale: dopo aver parcheggiare il camion officina nel cortile della caserma a Riva di Trento, gli venne ordinato di recarsi nella camerata, ritirare il tascapane e gli effetti personali, poi un ufficiale gli fece consegnare il percussore del fucile, la baionetta, in fine di tornare a casa, perché i servigi verso la patria erano terminati.
All’inizio una grande gioia e subito dopo si rese conto che casa distava oltre mille chilometri dalla parte opposta dell’Italia e non nella comoda direzione Est-Ovest; ma secondo quella più impervia e colma di pericoli, Nord-Sud, per questo sarebbe stato più prudente da percorrere a piedi.
Un percorso intriso di pericoli, in quanto, andare controcorrente alle truppe tedesche che ripiegavano devastando ogni cosa e imprigionando ogni persona che non avesse effigi germaniche non sarebbe stata cosa semplice.
Fine marzo, in quella verde vallata dove erano terminati i patimenti di soldato, rimaneva un solo ed unico alleato il Santo Patrono Sant’Atanasio il Grande; e fu così che fece voto di rientrare in paese entro il due di maggio per onorare il santo e abbracciare moglie e figlia.
La primavera stava per sbocciare dopo un lungo inverno durato anni e dopo un attimo di sbandamento quel voto al santo protettore apparve l’unico fine da perseguire con tutte le forze,
Dopo aver salutato i miei commilitoni, per non apparire ancora come gruppi antagonisti alle truppe tedesche, ci disperdemmo e ognuno di noi prese la via di casa.
Sapeva di non dover seguire strade carrabili, spiagge e ferrovie, in quanto, la campagna, i boschi e i corsi fluviali erano gli unici alleati; quante chine e quante discese dovute percorrere, poi torrenti e campi senza semina.
Si cibava di prodotti naturali e poche cose che ogni tanto gli donavano i contadini che cercavano di rigenerare gli scenari di una guerra che avevano voluto altri.
Pastori, contadini, mugnai e manovali che svolgevano attività, dividevano volentieri con lui le poche cose del pranzo e lui per ricambiare, avevo solo il racconto della sua storia e la meta a cui ambiva, non ricordava a quanti aveva detto di essere un Sofiota e quali ideali lo sostenevano; poi giungeva il momento di riprendere l’orizzonte ancora soleggiato.
I primi di aprile attraversa la campagna toscana e quanti incontrava, gli dicevano che non avrebbe mai potuto portare a termine l’audace impegno.
Cosa lo spingesse ad andare avanti era il sagrato di quella chiesa la famiglia e i visi fiduciosi di quanti incontra, che come in una gara podistica facevano il tifo per lui, non avendo altro da offrirgli se non le poche cose per cibarsi, la sua infondo era una gara contro un invasore che contro corrente, avrebbe potuto portarlo con se in ogni momento.
Tutte le persone che incrociava ritenevano che la distanza fosse eccessiva e trovare un passaggio era pericoloso, in quanto avrebbe potuto mettere fine al voto, quindi, ogni volta gambe in spalla fino che la luce del sole lo accompagnava.
Lungo la strada immaginava di risalire via Pasquale Baffi e arrivare in piazza, nel momento in cui le campane a festa annunciavano l’uscita del Santo; poi gli amici, i parenti come lo avrebbero accolto, chissà se nella processione ci sarebbero state la moglie e la figlia Francesca o come gli aveva promesso, rimaste a casa ad attendere il suo ritorno.
Questo e tanti altri erano i pensieri che lo accompagnavano, e intanto chilometro dopo chilometro la meta era sempre più vicina.
Era iniziata la terza decade di aprile e iniziate già le novene, quando si trovò nei pressi di Salerno, se le forze lo avessero sostenuto così come, nelle settimane passate l’impresa sarebbe stata possibile e continuando a cibarsi di ogni cosa che la primavera offriva, la meta diventava sempre più prossima.
Nei pressi di Battipaglia evitò il centro abitato, così come fece a Eboli, poi verso le gole di Campagna su per frazione quasi deserte, giunse nei pressi delle grotte di Pertosa.
Da qui per Lagonegro, Laino e Campotenese, preferì seguire percorsi sempre più impervi per evitare di incontrare le retroguardie tedesche.
E finalmente la mattina del trenta di aprile, vicino al centro di Castrovillari, ebbe modo di concedersi una pausa di riposo per presentarsi degnamente da soldato al raggiungimento dei suoi cari e dei suoi paesani.
Attraversato il Crati vicino il cimitero di Tarsia e raggiunti, i luoghi della giovinezza, dove portava le pecore a pascolare, la china che avevo percorso tante volte, lo fece sentire a casa perché ormai conoscevo ogni zolla e ogni anfratto di quegli ameni luoghi, per oltre un mese immaginati.
Quell’anno il due del mese di maggio cadeva di mercoledì e quando in vico III° Epiro, Adelina si senti Chiamare da suo zio Giuseppe, mentre iniziarono i primi rintocchi delle campane a festa, nulla di più intonato risulto per lei il ritornello,: Adollì, ezë mbë quishë se u mbiosh Janari!