NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Se dovessi dipingere l’arberia e il suo seguito di addomesticatori, gli darei il corpo di un vigoroso cavallo, inseguito lungo gli anfratti collinari della regione storica, da antiquari napoletani, palermitani, romani, baresi, potentini, leccesi, e cosentini, che cercano di sellarlo non col basto, ma con la sella turca.
Tuttavia viene da chiedersi quanto durerà questa innaturale, vergognosa e insana farsa, che vuole piegare questo antico ceppo linguistico per il volere di inadatti antiquari, allocati alla guida di fantomatiche strutture non per i meriti, ma per la loro appartenenza politica.
Quante cose rimangono ancora indelebili negli ambiti d’arbëria, quante sono in grado di conferire significato alla Regione storica Arbëreshë per sostenerla degnamente?
Quali sono state le frizioni culturali che hanno consumato la volontà di azione e di movimento che in altri tempi e presso altre generazioni tonificava il sistema intellettivo, sociale e morale del nocciolo duro d’arbëria?
Ad oggi non è più un dato che si possa ritenere noto, tuttavia rimane un inestimabile e corposo sistema arbëreshë che va ripreso, consolidato, ripristinato e tutelato con tutte le risorse cultural, sociali ed economiche possibili.
La nebbia sale imperterrita dalle gole della R.s.A. e avvolge ogni cosa, solo chi ha vissuto e vive la parte alta è in grado di conoscere quali saranno gli effetti negli anfratti del territorio.
Intanto da quei luoghi ormai privi di riferimento s’innalzano lamenti di chi non riesce più a distinguere il mare dalla spiaggia, come in un girone dantesco, vivono immaginando di essere in una terra che non c’è.
Quale è la misura quotidiana del patrimonio identitario che viene annienta giorno dopo giorno tra gli ingranaggi di questo secolo, smettiamo di distrarci dalle piante sempre verdi del vicino perché esse non portano frutti, ma solo illusione e la morte del ricordo.
È idoneo chiedersi, per questo, perché si lasciamo ignari praticanti di bottega, a cibarsi delle nostre radici, solo per il piacere effimero di emulare un domani che non ci appartiene.
Perché scambiare la metrica del canto con quello della musica, eppure un grande uomo d’arberia diceva: che nella battaglia infinita tra musica e canto, riteneva quest’ultima quale frutto originario.
Perché non diamo un più alto significato alla nostra consuetudine e come in altri secoli, raffigurati in forma di mari, fiumi, tempeste, sismi e fiamme?
È un eufemismo continuare a ritenere che la cultura è allocato nella mente di nonna Elisabetta, di zia Clementina o abbarbicata negli ambiti murari di una gjitonia che materia non è.
Se dovessimo dare una forma materica al secolo trascorso e quello in corso, non mi viene in mente nulla, se non il grigiore della cenere, che poi sono quello che resta delle radici identitarie bruciate.
Pochi sono i fiori che ancora restano integri, non facciamo che l’inverno (i litiri) li trovi impreparati, diamogli una possibilità e innalziamo solidi presidi (Arbëreshë) per far crescere queste rare piante, le uniche in grado di risvegliare a primavera i sensi di un’antica tradizione.
Non servono venti nuovi in arberia, “perché il vento è uno solo” soffia da est verso ovest e porta con sé profumi e voci rarissimi; solo un arbëreshë li può avvertire e alimentare gli antichi principi di fratellanza che da secoli si rivelano come i più caparbi in tutto il mediterraneo.
Non servono canti alloctoni in luoghi sacri, perché così facendo si violentano i principi della propria identità religiosa, un luogo che t’identifica non deve e non può essere violato da ideologie litirë, che poi è il tarlo che consuma e rende in polvere ogni cosa.
Ogni luogo ha un suo ruolo e gli uomini che li hanno ereditati hanno il dovere di preservarli e lasciarli intatti alle generazioni future, nessuno può arrogarsi il diritto dovere di insudiciarli o di modellarli a propria misura culturale, altrimenti si persegue la via della perdita dell’antica identità.
Non meritate di conoscere dove sono depositate le povere resta del Baffi, se il suo paese, non rispecchia il senso del suo sacrificio; quale nesso avrebbe illuminare un luogo che è lo specchio di una società malata e priva di ogni senso culturale, lo stesso che promuove abbellimenti ed eleva il buon nome di quegli avversari che furono causa della sua dipartita.
Solo una tutela mirata degli ambiti violentati, ormai da molti decenni, potrà restituire senso storico, ma ciò va fatto affidandosi a chi si adopera per restituire la continuità storica più aderente alla realtà, solo così il piccolo borgo avrà modo di acquisire quella veste idonea per accogliere le resta dell’illustre letterato.
La storia non si fa con gli episodi, non si fa con le favole, non si fa con i venti nuovi, non si fa con i discorsi nuovi; il vento come la storia arbëreshë è una sola e non servono personalismi locali a divulgarla, ma occorre impegno, dedizione, professionalità, serietà morale e culturale, quella che manca da oltre due secoli ed è stata in grado di rendere la capitale d’arberia ad un ammasso di episodi senza ne testa e ne coda, allo stesso modo delle province turche da cui sfuggimmo cinque secoli orsono.
Una è la madre E non va mai confusa con altra cosa! Essa va rispettata sempre nel bene e nel male, tuttavia, quand’anche la disperazione l’allontanasse dai suoi doveri, non dobbiamo avere dubbi sulla sua integrità di madre, in quanto i punti di vista dell’inesperienza modificano le immagini che percepiamo, specialmente se alimentate dalla luce del denaro e di tutte le belle cose materiali che ci sono offerte con lo scopo di distrarci persino dal malaffare paterno; un giorno capiremo, ma sarà troppo tardi!