NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Non t’importa dove porta il tracciato della cinta Sanseverinense, fondamentale è seguirla per addentrarsi nel fantastico mondo consuetudinario di gesta, parole, canti e segni della cultura arbëri; indelebile modello tramandato oralmente senza soluzione di continuità sin dalla notte dei tempi.
L’arberia combatte, senza tregua, per la sua sopravvivenza, contro le avversità del tempo e degli uomini che per fare salvaguardia e conservazione si sono scambiati ruoli, arti, mestieri, professioni, divenendo fautori di tradizioni mai poste in essere; per questo è opportuno ricordare che:
Il mio paese mi apparteneva quando le stagioni avevano suoni, sapori, odori, colori, che riconoscevi; armonia di sensi che sbocciavano, s’intensificavano e poi scomparivano, per ripetersi identicamente gli anni a venire.
Il mio paese mi apparteneva quando il pane si produceva in casa, durava un mese e si faceva con farina autoctona, acqua delle fontane naturali, sale di cava, il lievito, quello del XV secolo rigenerato secondo antichi dettami .
Il mio paese mi apparteneva quando le strade non erano utilizzate per collegare un posto con un altro, perché quel segno del tempo, rappresentava la fratellanza e il bene condiviso.
Il mio paese mi apparteneva quando i rapporti del vivere arbëreshë rendeva tutti protagonisti nell’indimenticabile palcoscenico del proprio rione.
Il mio paese mi apparteneva quando Francesco Fusaro, portava il lavoro a casa perché i suoi attrezzi (Ascia, Mazza e tre cunei di ferro) li poteva perdere recandosi a tagliare la legna a casa d’altri, per questo con la sua carriola, trasportava prima davanti a casa sua le grosse quantità di legna(30-60 quintali), per poi consegnarle tagliate.
Il mio paese mi apparteneva quando fare fritùmetë era dovere di ogni gjiton e tutti erano fieri di partecipare per i dodici giorni che precedevano il Natale.
Il paese mi apparteneva quando alle ore 11.00 del Sabato Santo, alla fine della Santa Messa, le campane suonavano a festa e tutti si davano gli Auguri della Santa Pasqua.
Il paese incomincio a destarmi perplessità quando alle ore 11.00 del Sabato Santo di quest’anno, alla fine della Santa Messa, è stato vietato i suonare le campane a festa e dare gli Auguri della Santa Pasqua, perche si doveva cambiare la consuetudine da Greco Bizantina a Latina.
Il mio paese mi apparteneva quando le strade erano praticabili a piedi e a dorso di mulo e quelle più instabili erano lastricate con le pietre provenienti rigorosamente dalla cava thë pontìth i madh.
Il mio paese mi apparteneva quando i passi del vicino, ritmavano il tempo del mutuo soccorso, conferma vitale dell’antica ricerca parentale.
Il mio paese mi apparteneva quando lavina Shicshònes scorreva tutto l’anno.
Il mio paese mi apparteneva quando le notizie erano diffuse dalle campane; ore, festa, dipartita, allarme e inizio delle novene, battiti noti che riempivano le operose giornate.
Il mio paese mi apparteneva quando nelle sere d’estate i ragazzi riempivano di vita ogni anfratto del centro storico, mentre gli anziani guardavano divertiti.
Il mio paese mi apparteneva quando per pudore s’immaginava che Udha Kassanes, era la via che conduceva a Cassano Ionio.
Il mio paese mi apparteneva quando Tonino aspettava Marino thë Scigata, e lungo la mulattiera, ognuno su un lato della via in silenzio senza conversare si recava al Collegio, con la speranza che acculturarsi li avrebbe resi entrambi migliori.
Il mio paese mi apparteneva quando le donne con le tipiche vesti, nei giorni di festa, portavano in dote al Santo lo splendore delle stolit e Llambadhòr.
Il mio paese mi apparteneva quando B. Michele, B. Ottavio, F. Elio, C. Raffaele, P. Vito, B.S. Domenico, E. Francesco, L. Enzo, facevano le corse me Karozzet lungo Via Ascensione e la piazza, sin dove terminava la chiesa.
Il mio paese mi apparteneva quando i segni della storia su, udha madhe, udha stangoìt e udha ipeshpëk, scaturivano dalle radici e non da acculturazioni anomale e senza alcun senso storico.
Il mio paese mi apparteneva quando ad agosto, nei rioni si depositava la legna per i fuochi di settembre e senza soluzione di continuità il rito si prolungava per realizzare il falò alla vigilia di Natale con il fine di confermare, prima la vitalità , d’ambito e in seguito quella condivisa di tutto il paese.
Il mio paese cominciava a non appartenermi più da quando i fuochi si preparano poche ore prima dell’evento utilizzando autocarri e trattori che hanno tolto il senso e il sacrificio legato all’evento.
Il mio paese ha incominciato a non appartenermi più quando si è deciso di intraprendere la strada dell’accanimento terapeutico per l’affiancamento di una forma scritta, che ha spogliato il continuo storico di molte generazioni.
Il mio paese mi apparteneva quando le favole le raccontavano le nonne ai bambini; piccoli racconti dal grande valore.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le favole le hanno raccontare i futurologi alle nonne; inutili dialoghi privi di radici.
Il mio paese mi ha dato l’impressione che mi appartenesse quel maggio dell’otta, ma è durato il tempo di un battito di ciglia, cosi anche in quello dell’anno scorso quando sollevando il coperchio della pentola dei contenuti culturali, sono rimasto oltremodo sconcertato.
Il mio paese iniziava a non appartenermi quando i costumi furono raccolti nelle “cristalliere pubbliche/private” e il vestire femminile è diventato farsa, utilizzato impropriamente per rievocare sin anche la leggenda della Nusia o per brillare nelle manifestazioni carnevalesche senza regola e significato.
Il mio paese mi piaceva quando la strada nuova è stata fatta lì dove esisteva un antico limite che divideva la parte alta dalla parte bassa del centro storico.
Il mio paese mi apparteneva quando gli abitanti nati a Ovest del paese, attingevano acqua a Moroìti e quelli nati a Est rigorosamente Stangùa.
Il paese era mio kur grath ndreqëjn murxjielin me bukë è pështier, për burrëth çë veijn e shërbejn asximes.
Il mio paese mi apparteneva quando i ragazzi per stare vicini alle loro ragazze andavano di notte nelle colonie estive creando sconcerto e panico, nonostante depositassero corone di ginestra fiorita.
Il mio paese mi apparteneva quando a Natale il presepe in chiesa lo facevano i giovani del paese e l’albero lo donavamo gli orerai dell’Opera Sila, ed era un pino naturale.
Il mio paese mi apparteneva quando mia nonna per non dirmi di no! Mi diceva :egni, biri nàneh.
Il mio paese mi apparteneva quando nella gjitonia riecheggiavano le frasi: Ndriculà Adolì ke brumìn?; – Menat veme vjelmì!; – Më ndihën sàt scalismi?; – Menatë vemi e cuermi!; – Mhë ndighen sat mbiedmi a tà di ulignë?; – Thë sola gnë lagane!; – Menatë hesht hënëz?; Më huen gnë kravele?
Il mio paese mi apparteneva quando luce, spazio e ordine, erano le cose di cui gli abitanti avevano bisogno, nella stessa misura cin cui avevano necessità di acqua, di pane e di una casa utile a vitalizzare gjitonin.
Il mio paese mi apparteneva quando il cantare era la musica dell’anima e del cuore, così come la vecchia consuetudine albanofona aveva insegnato.
Il mio paese mi apparteneva quando il palcoscenico del canto serviva per alimentare amore e lavoro, con le storiche melodie, diversamente a quanto avviene oggi con le mille comparse che del canto non conoscono il valore, il significato e la pronuncia, divenendo per questo apparati stridenti.
Il mio paese non mi apparteneva più quando a emulare la trafila tradizionale del matrimonio, sono stati i discendenti dalla famiglia che ha menomato una delle più belle storie d’amore arbëreshë e la ragazza rimasta in vita per tutta la sua misera esistenza era abitudine salutare: “malin tim më vran!”.
Il mio paese mi apparteneva quando la vestizione delle preziose stolit e Llambadhòr avveniva secondo le rigide regole conservate da Maria Teresa Baffa, Adelina Basile, Marchianò Rosaria, Erminia Miracco, Carmela Monaco.
Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando la regia delle preziose stolit e Llambadhòr grazie alle disposizioni della politica fu affidata alla percezione delle tarantellare silanitide.
Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando si è dato spazio alle “tarantellare silanitide” e ai fautori delle “cristalliere pubbliche/private” invece di realizzare una solida e capace mnemoteca molto più utile a conservare la naturale capacità arbëreshë.
Il mio paese mi apparteneva quando la vendemmia terminava con i muli caricati con le capienti sporte.
Il mio paese non mi apparteneva quando la vendemmia era l’occasione per invadere il paese con trattori, e motozappe trainanti i rimorchi che lasciavano segni sui paramenti delle strette vie.
Il mio paese mi apparteneva quando Vicèu Abramith faceva l’orto Moròith nelle terre dei Caccuri/Baffa e l’acqua che non veniva attinta, dalla storica fontana, era raccolta nella Gibia.
Il mio paese mi apparteneva mentre si riempiva la Gibia, per irrigare l’orto e il vecchio saggio realizzava nella storica capanna gli zoccoli per i più poveri del paese, proto industria delle calzature ortopediche.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando per dar spazio all’inventiva, figlia dei fumi del vino, si ammodernò la storica fontana, posta ai piedi thë campanarith, dismettendo sin anche il magico canale di displuvio che sfidava i principi della gravità.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando lungo l’antico percorso “thë stangoit”, costruirono un manufatto abitativo, espressione del più anemico periodo politico.
Il mio paese non mi apparteneva quando udha e ree partiva dalla piazza e arrivava sino al casale dei Fasanella.
Il mio paese non mi apparteneva più quando gervaso per costruire il sentiero veicolare, dovettero piegarsi al volere dell’ignoranza, della prepotenza e della bestialità.
Il mio paese mi apparteneva quando per costruire la strada nuova, (udha e ree) che attraversava il centro storico, furono realizzate le colmate: del vallone del duca, Ka Prati, Thë arra dhën Vicenzith; thë Shèshi Kuaravògnen, thë Màxhit, Për para Marìtit, thë tedera nenit, Prapa Klishësh, thë gabina e thë kstegnet i paulitanit; divenuti i luoghi moderni di aggregazione.
Il mio paese mi apparteneva quando per molti decenni le autovetture arrivate in piazza terminavano la loro corsa.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con lentezza, prima Klishësha e Vieter, poi Trapësa, Udha Epiro con Udha Shicshònes, ha aperto il transito ai veicoli, violentando oltremodo vecchie consuetudini.
Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando all’università dicevano che la gjitonia era funzione dell’uscio e dei paramenti murari o di aspetti ancor più elementari.
Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando la sua storia fu scritta immaginando l’agglomerato e i suoi abitanti estranei al territorio e i contesti geografici di macroarea, estrapolandoli e per questo immaginando scenari secondo il principio dello studio ideale.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando la demenziale preparazione storica degli amministratori ha sventrato fischien thë sheshit i caravonit.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando il compianto Padre Giovanni C., ammalato, lasciò lo svolgimento della processione del 2 maggio, che divenne evento da stadio.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le manomissioni hanno dato avvio alla dismissione di un antico modo di vivere, per consentire alle autovetture di riverberare all’interno del centro storico, sonorità che coprivano le antiche gesta, fatte, di lavoro, voci e canti.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando è stato beolizzato, coprendo e devastando le funzioni e i significati storico religiosi di ogni strada, ogni angolo e ogni piazza.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando morto zio Kosta si è dato avvio alla realizzazione della villa comunale, la centrale telefonica e una strada inutile, violentando il senso di quel luogo ameno.
Il mio paese mi ha sempre destato perplessità giacché un numero considerevole delle eccellenze o martiri che qui ebbero i natali, rimangono addirittura sconosciuti, mentre i pochi a cui è stata dedicata una strada o un struttura pubblica non hanno coerenza con le dinamiche che li ha resi famosi.
Il mio paese mi lascia ulteriormente perplesso per i tanti edifici che hanno partecipato alla storia dell’unità d’Itali sono rimasti nelle disponibilità e nella direttive di ignari privati.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando via lëmi letirith e stata veicolata per coprire il valore storico a una delle più belle gjitonie della consuetudine arbëreshë.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con un colpo di spregiudicatezza politica sono state rimosse tutte le fontane del paese.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando Thë Trapësa hanno unificato le quinte, replicando una metrica priva delle più elementari proporzioni architettoniche e il bel palazzo che fu la scuola media, Pasquale Baffi, fatto di mattoni venne intonacato, in tempi recenti persino replicato l’errore.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’amministrazione ha ritenuto inutile mantenere vivo il senso di kroin e Stàngoitë.
Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’economia nelle disposizioni degli anemici della cultura, ha deturpato la splendida orografia dell’area a nord della storica Pedalati, dove è stata emulata Bisignano.
Il mio paese mi apparteneva quando nei pomeriggi di primavera le donne si riunivano per cucire rammendare, fare lavori a maglia, esaltando o minimizzando le gesta e gli atteggiamenti di amici e nemici.
Il mio paese non mi appartiene più da quando sono, stati tolti gli antichi riferimenti dell’infanzia, offeso oltremodo la ricerca, la professione e la voglia di tracciare la storia del paese.
Il mio paese non sarà più, in quanto, sono stati distrutti i cardini cui collegare i filamenti per riprendere la trama negata che giorno dopo giorno è stata disfatta.
Tuttavia avverto che il compito più utile da portare a termine sia di radunare il gregge all’interno dell’ovile, per chiudere l’uscio e custodire sotto lo stesso tetto quanto ancora nelle nostre disposizioni e che un domani, speriamo prossimo, vedrà protagonisti coloro che meglio di noi, sapranno vitalizzare e dare senso alle rigide metriche della magica consuetudine arbëreshë.