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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

Arber

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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