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L’AQUILA A DUE TESTE SEGUE IL SOLE E IGNORA PER CREDEMZA LA LUNA (Architetto Arbëreşë è colui che si adopera per dare forma ai sogni immaginati nei pascoli infiniti) (Iatròi i thë bënurvàtë Arbëreşë, hëştë kuşë shiurbènë sant bëgnë thë hëndurvàtë thë haretë pà mòtë)

L’AQUILA A DUE TESTE SEGUE IL SOLE E IGNORA PER CREDEMZA LA LUNA (Architetto Arbëreşë è colui che si adopera per dare forma ai sogni immaginati nei pascoli infiniti) (Iatròi i thë bënurvàtë Arbëreşë, hëştë kuşë shiurbènë sant bëgnë thë hëndurvàtë thë haretë pà mòtë)

Posted on 11 novembre 2024 by admin

Mamma e FrancaNAPOLI (di Atanasio Architetto Pizzi Basile) – Stati, Regni, Imperi e Ambiti di Credenza, tutti, hanno utilizzato quale emblema identificativo, “l’aquila bicipite”, per inviare messaggio di luce costante e indivisibile, irraggiamenti che davano l’orientamento per lavia seguita anche dagli arbëreşë dal XIII secolo, non volendo seguire gli impositori di credenza altra con lumi e apparati notturni con lo sfondo annerito.

A tal proposito si vogliono evidenziare le attività che abbracciano nuovi stati di fatto, avuto inizio nel breve come studente, poi in veste di tirocinante e, da oltre due decenni, professionista ricercatore di ambiti costruiti per essere vissuti dagli arbëreşë quale unico e solo ricercatore.

Queste attività, per una combinazione di fatti e concatenamenti di cose della vita, sono avvenute sotto il rigido e vigile controllo dell’aquila bicipite che a Napoli è apposta in diverse forme, dimensioni e luoghi.

Due per tutte, sono quelle apposte per vigilare sul centro antico di Napoli:

  • la prima a Castel Capuano che mira ad est;
  • la seconda a Castel Sant’Elmo che guarda a ovest;

Entrambe avvolgono con il loro sguardo il costruito storico della Napoli, Greca, Romana, Bizantina, Araba, Alessandrina, Ispanica, Francofona e tutte le comunità che qui approdarono con l’intento di valorizzare cultura e credenze, in fraterna convivenza, scolpita nelle righe che formavano i due semestri del Calendario Marmoreo del popolo che faceva la credenza partenopea.  

I fatti che si articolano in un arco temporale di oltre quattro decenni, dì lettura e visione dei luoghi, hanno avvio, non per volontà, ma per una combinazione di fortuiti fatti che analizzati ad oggi danno una prospettiva non casuale alle tappe perseguite.

Tutto ha inizio, il “17 Gennaio del 1977”, giorno della partenza per Napoli per intraprendere gli studi universitari, trasferitomi all’università di Napoli, Federico II da quella di Reggio Calabria, nelle discipline sempre dell’architettura.

La sera del diciassette gennaio quando giunsi a Napoli mi insediai, in Via Tribunali al numero 247 al primo piano.

La mia stanza aveva un duplice affaccio, una sulla via tribunali, un tempo detta del Sole e della Luna e, l’altro su Piazzetta Sedil Capuano, contornato da una lunga balconata, che affacciava sui due toponimi citati.

Lo spigolo i ruitojtë, mirava ad ovest e centrava l’ingresso di Castel Capuano, che celebra l’imperatore Carlo V d’Asburgo vittorioso a Tunisi nel1535 e, una grande “aquila bicipite” di pietra è apposta a memoria e mira della vastità del regno, dove il sole non tramontava mai.

Ed è qui che iniziarono le mie ricerche da studente, parlante e uditore Arbëreşë, avendo avuto come incarico dalle genti del mio luogo natio, di tornare un di e riferire, del costruito storico alle nuove leve, onde evitare le incertezze di orientamento, civile e religioso avute qui luogo nel corso della storia.

A tal fine, sono state svolete indagini documentali poi rilette sul campo il loco, evitando di allestire incertezze similia quelle della storia di Romani che nel XVIII secolo videro nascere le “diplomatiche della storia”, o più comunemente “la diplomatica”; la disciplina che si occupa dello studio critico dei documenti storici, specie gli ufficiali o legali, per verificarne autenticità, datazione, contenuto, origine e contesto.

Un campo della storia che si sviluppa all’interno della paleografia e della filologia, con l’obiettivo di comprendere meglio le funzioni delle istituzioni tutte, oltre il maneggiamento del potere nel tempo.

I di cui aspetti chiave sono qui riportati:

  • Analisi della forma e del contenuto: La diplomatistica esamina come i documenti sono strutturati e redatti, valutando aspetti come la calligrafia, i sigilli, le formule utilizzate, e il linguaggio formale per riconoscerne autenticità e originalità.
  • Datazione e autenticità: Stabilire la datazione esatta dei documenti è essenziale per capire il contesto storico, studiando eventuali falsificazioni e alterazioni.
  • Contesto di creazione: La diplomatica considera il contesto in cui i documenti sono stati prodotti, i soggetti coinvolti, il pubblico destinatario, e lo scopo che potevano servire.
  • Evoluzione delle pratiche documentarie: Analizzare i cambiamenti nei formati e nelle convenzioni dei documenti è utile per comprendere le trasformazioni delle istituzioni politiche, giuridiche e sociali.

Essa per questo ò stata fondamentale, quando ho assunto il ruolo di storico, utilizzando i documenti come fonti non univoche per ricostruire eventi, pratiche giuridiche, rapporti di potere e dinamiche economiche, sociali e soprattutto del suo costruito di luogo.

Allo scopo è diventato fondamentale l’analisi visiva dei luoghi e la definizione di un modello di ricostruzione per i centri abbandonati, secondo le disposizioni e gli usi delle genti che si affidavano al modello consuetudinario di Famiglia allargata Kanuniano, o meglio architettura del bisogno, nota come vernacolare.

Ovvero ritrovare quanto in comune accordo con le genti indigene, i nuovi arrivati prima bizantini, poi francofoni di radice cistercense e poi Arbëreşë di radice Ortodossa, svilupparono il modello urbano policentrico, oggi noto come “Città Metropolitana”.

In tutto quattro rioni tipici, a cui erano associate le pertinenze o meglio cunei agrari della produzione e della trasformazione agro, silvicola e pastorale, l’industria dell’epoca.

Per questo nel corso della ricerca sono state intercettate le esigenze della ai tempi della Sibari Fannullona e dei relativi cunei agrari, la terminazione della diocesi di Thurio e la spartizione dei demani a cui faceva seguito, l’istituzione di della diocesi di Bisignano e delle sue pertinenze di confine con quella di Rossano, dove si legge per la prima volta del Casale Terra di Bisignano, che poi ne IX secolo, diventa di Sofia Bizantina.

Seguendo un itinerario storico della macro area di Terra Giordana poi di Calabria Citeriore, intercettando le dinamiche di spartizione e utilizzo, dei relativi sistemi insediativi e di credenza.

Una volta acquisiti questi dati generali si è passati all’analisi dei casali oggi Katundë di radice Arbëreşë, anche se l’analisi sia dei sistemi urbani che degli elementi modulari in continua evoluzione, intrecciati con i rotacismi linguistici della toponomastica restituiscono il percorso evolutivo che non lasci emergere né ombre né dubbi o velatura di genere.

Un percorso urbano fatto in continuo affiancare e mai sovrapporre, necessita consuetudinarie e di credenza, le une alle altre, ma contribuendo alle necessità delle genti qui giunte per secoli, in tutto luoghi e modelli di vita sociale, oggi, solidi esempi di integrazione mediterranea, tra i più solidi dell’antico continente Europeo.

Tutto questo oggi consente, seguendo un protocollo di indagine che tiene conto degli intervalli storici, seguendo le necessità degli uomini, in tutto eventi naturali o indotti dagli uomini.

Prima di tutti il permesso di costruire e tramandare discendenza, poi gli eventi naturali, come carestie, pestilenze e terremoti, senza tralasciare carenze geologiche innescate e poste in essere per la trascuratezza degli uomini.

Il susseguirsi di quanto accennato, ha prodotto abitazioni di tipo estrattivo o deperibile in prima istanza, a cui seguirono residenze additive, con l‘uso di adobe a cui seguirono quelle più solide di materiali locali non più deperibili, in tutto architettura del bisogno vernacolare.

Va in oltre rilevato che sino al XVII secolo la statica di questi moduli abitativi lasciava molto a desiderare, e quando si manifestavano eventi tellurici le carenze strutturali emergevano tutte, solo dopo il terremoto del 1783 si ebbe una svolta che dava risposte più certe alla metodologia di assemblare e coprire i moduli denominati Kallive, Moticellje e Katoj.

Gli stessi che garantivano abitabilità in forma monocellulari un solo livello terreno, incastonati nei declivi naturali, poi elevati e, frazionati con i profferli, a cui seguirono le tipologie edilizie dei palazzi nobiliari, gli stessi che divennero  esempio da riprodurre come linee e contenuti architettonici nei prospetti principali, specie, per le medio famiglie in crescita economica che, palesavano la loro scalata economica, esponendo i noti ingressi contornate dalle due finestre, con elementi in pietra e architrave ad arco la cui chiave esprimeva gli emblemi distintivi della famiglia e, con la porta di accesso in  legno pregiato.

Lo studio dello sviluppo urbano ha reso possibile unificare e uniformare la radice distintiva degli arbëreşë che giunsero nel meridione Italiano grazia a un accordo preventivi tra i facenti parte l’odine del drago.

E quanti fanno uso del “dicta delle migrazioni numerate” come si fa con le cose che possono apparire simili commette un grave errore.

La migrazione per necessità e tutela della propria radice identitaria è una sola, inizia nel 1470 e finisce nel 1535, le altre, non sono altro che impegno di necessitò di regia locale o accomodamento di esigenze e finalità altre.

Infatti analizzando le varie epoche attraverso “la diplomatica” si intercettano ragioni ed esigenze, che non sono le stesse per le quali gli arbëreşë, approdarono nelle rive dell’Adriatico e dello Jonio, alla ricerca della sospirata terra parallela a loro suggerita.

 

 

P.S.

Oggi il pensiero va al solo unico e completo letterato; il primo della cultura arbëreşë, P. Baffi, trucidato, derubato  per il suo ingegno e ad A. Pizzi, mai nata per impedirle di fare cose buone.

Míestëri Ndonj, Geleu Saturë, Zoti Janarë i geshiurë e Giuanj Sakëstanj pá truë, con le loro magare infedeli  e discepoli  di secondo ordine, un giorno dovranno rispondere a nostro signore, in perenne attesa, per il male fatto alla piccola Regina, mai nata.

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IL GRAND TOUR LUNGO LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA DAGLI ARBËREŞË (Vemi Shìomj e Ghieghëmj)

IL GRAND TOUR LUNGO LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA DAGLI ARBËREŞË (Vemi Shìomj e Ghieghëmj)

Posted on 08 novembre 2024 by admin

faro03NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente il “Grand Tour” nel sud Italia, attirava viaggiatori europei che dovevano allargare le proprie frontiere culturali, artistiche, intellettuali, in tutto, un’esperienza di vita vissuta unica e irripetibile, rispetto al resto del continente, che non aveva avuto tanti scenari aperti nel corso della storia.

L’Italia meridionale, per le sue bellezze naturali, i benefici di accoglienza e ospitalità, era ed è considerata la destinazione più ambita per i viaggiatori che vogliono migliorare e conoscere le cose che hanno reso dato agio positivo all’uomo e all’ambiente naturale.

E come molti studiosi affermavano, l’aver letto libri, documenti ed ogni genere di edito, pubblico o privato, non avrebbe mai dato completezza di una presa visione, al pari di ritrovarsi immerso fisicamente nelle prospettive e nei luoghi dove la storia aveva avuto luogo, senza essere appresa come racconto altrui.

Ed è per questo che i rampolli delle famiglie più nobili, e gli intellettuali più evoluti di tutta Europa, qui si recavano per vivere ed essere presenti, non per un racconto fatto da altri, ma partecipare al personale punto di vista o indagine, in tutto, prendere atto di cose che nessuna descrizione fatta da altri, avrebbe potuto sodisfare come l’essere protagonisti o attori nei luoghi, dove era stata la storia degli uomini.

Sicuramente come in passato, numerosi viaggiatori hanno fatto, avrebbe sodisfatto sotto ogni punto di vista lo svolgersi dei fatti, magari rivedendo, proprio in quei luoghi le annotazioni fatte da altri.

Alla luce delle esperienze dei numerosi viaggiatori che in tutto il settecento e sino ad oggi qui, si recavano a indagare e leggere, per cogliere verità stese al sole.

Personalmente ho vissuto, ormai da un ventennio, il “Grand Tour” attraverso i luoghi della regione storica degli Arbëreşë e, siccome sono parlante e ascoltatore di questa antica lingua, nulla può essermi sfuggito per essere interpretato senza ragione o non essere compreso compiutamente, come nella storia è accaduto agli altri viaggiatori che confondevano le minoranze storiche del meridione, accumunando e appellando tutti come Grecanici.

Vero rimane il dato che recarsi fisicamente in un luogo, offre una comprensione più profonda rispetto alla mera lettura, poiché permette di immergersi direttamente negli aspetti materiali, visivi e sensoriali, gli stessi che sarebbero sfuggiti alla sola esposizione per mezzo di editi o atti notarili.

La metodologia del “Grand Tour” consente di cogliere dettagli sull’architettura, i colori, i profumi e i suoni locali, che contribuiscono a una visione più completa e autentica del contesto, dove si va per partecipare.

Inoltre, l’interazione con le persone del posto, offre prospettive inedite, aneddoti e sfumature che non trovano luogo nei testi dove si espongono visioni e prospettive altre.

D’altra parte, leggere in anticipo le nozioni di un luogo può fornire una base storica e culturale, utile per apprezzare meglio quello che si vede, collegando elementi della realtà con la loro evoluzione e il significato certificato in loco.

Per chi ha interesse a cogliere i molteplici aspetti particolari, come dettagli storici, culturali degli Arbëreşë, combinando entrambe le esperienze risulta essere ideale, infatti: la lettura prepara e arricchisce, mentre la visita permette di vivere e validare la conoscenza dei sensi più ricchi.

La sola lettura consente una comprensione velata, soprattutto per un luogo storico, in quanto i testi, per quanto dettagliati, non riescono sempre, a trasmettere l’atmosfera autentica, le sfumature del paesaggio, o la sensazione tattile di certi aspetti materiali ed immateriali li avuti luogo.

Gli scritti possono fornire un quadro d’insieme, una guida che orienta e prepara la comprensione, ma è solo con la visita e l’ascolto sul campo, la conoscenza si anima e viene impressa nel cuore e nella mente.

Nei luoghi storici, l’esperienza diretta è particolarmente importante, in quanto lascia cogliere, sul campo, ingredienti che sfuggono alla narrazione scritta, che non da agio ai cinque sensi.

Nel caso di centri storici o complessi culturali come quelli degli Arbëreşë, per esempio, l’urbanistica, la disposizione dei rioni e persino i dettagli del “genio locale” si apprezzano a pieno solo vedendoli e vivendo sul posto, con la mente che porta al passato.

Ogni luogo ha una dimensione immateriale, fatta di piccoli dettagli, che si percepiscono solo con la presenza fisica e non con l’immaginario espresso da altri.

Come per tutta la popolazione oggi identificata come Arbëreşë, nessuno e, a tal proposito sfido istituti, istitutori e istituzioni a dimostrare il contrario, secondo cui chi nasce negli ambiti della Gjitonie o governo delle donne, abbia mai letto libri e avuto agio nel parlare questa lingua antica.

Nessuno mai ha partecipato per millenni a lezioni dove venivano editati con gesso o carbonella, in superfici verticali, lettere o alfabeti da pronunziare per apprendere l’Arbëreşë.

Il “Grand Tour” per questo, rappresenta un metodo antichissimo, lo stesso che le nostre madri unite nel governo delle donne, applicavano da secoli, e quanti oggi provano a fare il contrario, imponendo libri, letteratura in vocabolari riversi e alfabeti con numerazioni variabili commettono peccato, allo stesso modo di chi si reca in loco religioso o sacro e prega voltando le spalle all’altare in tutto, verso la direzione per il rispetto della credenza.

Oggi chi parla questa lingua e comprende il senso di ogni cosa, non lo fa leggendo, ma partecipando attivamente in presenza e, solo in questo modo chi parla e chi capisce l’Arbëreşë, invia, trasmette e dall’altra parte si colgono inflessioni e movimenti dell’interlocutore che non può mentire, “alla promessa parlata”.

Un “Grand Tour” tra i paesi Arbëreşë, è sostenuto dai seguenti motivi principali:

  • Riscoperta del parlato: La regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë offre l’opportunità di visitare una sorta di “santuario” dell’antichità classica, secondo un ideale tra i più antichi racconti d’Europa.
  • Paesaggi unici e suggestivi: I viaggiatori attenti, saranno affascinati dal contrasto tra i paesaggi montuosi, le coste e la vegetazione lussureggiante del Meridione che, apparivano come luoghi quasi mitologici, capaci di ispirare artisti che diverranno attori della storia.
  • Interesse per la “selvaggia di luoghi e cose”: l’idea di esplorare i Katundë viene percepito come “fare cose nuove” rispetto a quelli industrializzate, le stesse che poi sono ispirati da questi piccoli luoghi di confronto e movimento; essi rappresentano una vista esotica europea, dove i costumi, la musica e le tradizioni popolari sono ancora autentici e incontaminati, in un certo senso ” ancora primitivi” agli occhi dei visitatori e, se non si pone la giusta resilienza a breve termineranno di esistere e non avranno più nulla per dare.
  • Influenza delle accademie e delle opere scritte: a iniziare dal XV ad oggi, opere letterarie contribuiscono a creare un immaginario che nel Meridione non ha mai avuto luogo e, molte volte anzi sempre di più influenzano, quanti intraprendono il viaggio in presenza.
  • Clima e atmosfera: Il clima mite e la natura ospitale della popolazione Arbëreşë, rende la regione storica una meta piacevole anche per soggiorni prolungati, trascorrere qui, l’Estate nella Gjitonia e l’Inverno davanti al camino gestito dalla regina del fuoco, ti rende partecipe al piacere di una nuova cultura, in tutto, un crocevia tra passato e presente, natura selvaggia e archeologia classica, facendovi partecipare alle stagioni più suggestive della vostra esistenza.

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