Archive | ottobre, 2024

I REGIMI CULTURALI SENZA DOMANI E I SAGGI GOVERNI DELLE MADRI E DEI PADRI ARBËREŞË (Fiallja Gjitonishë e duertë i Tatesë)

I REGIMI CULTURALI SENZA DOMANI E I SAGGI GOVERNI DELLE MADRI E DEI PADRI ARBËREŞË (Fiallja Gjitonishë e duertë i Tatesë)

Posted on 14 ottobre 2024 by admin

img042NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono due regimi totalitari, che vorrebbero gestire le cose della Regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë:

  • il primo fatto di Campanili labili e per questo non contemplano l’uso o l’utilizzo di campane intonate, anzi vivono di stonature irripetibili;
  • il secondo è fatto di Minareti, dove gli urlatori, di turno, ti avvertono per segnare il tempo e, dove ti devi inginocchiare per rispettare l’inesorabile “luna crescente” da cui fuggimmo sei secoli orsono;

Ma noi che siamo sagge figure Arbëreşë, cresciute ascoltando le direttive del Governo delle donne, poi in età post adolescenziale, nelle botteghe dei saggi Padri, guardando le gesta intersecarsi con il parlato, per questo, non ci facciamo intimorire, adoperandoci a ripetere, le parlate del governo, dove sedeva nostra Madre e, le attività a impronta di nostro Padre.

Il resto delle cose le lasciamo fare ai comuni viandanti indigeni, che non potranno mai ascoltare e capire cosa vuole dire ed essere, una figura nato/a e cresciuto/a Thë Gjitonia Arbëreşë.

Per usare una frase storica riferita a Roma, da un saggio prelato Ullanese, ovvero: è inutile rimesciare aceto, perché l’aspirazione che diventi vino, non vedrà mai né il sole e ne la luna.

Come non è un bel gesto di garbo o saggezza, vedere adolescenti addobbati come fa la sposa o lo sposo, perché è bene sapere che la nostra cultura rispetta le generazioni e specie i piccoli, quando hanno bisogni di guide solide, che non le portano al mercato o frequentare i cattivi lavinai che in genere non sono Gjitonia.

Per gli Arbëreşë, ogni cosa ha un suo tempo e una sua dimensione sociale a cui avvicinarsi per  farne parte con ordine di tempo e di ruoli, il resto delle cose sono di altre civiltà più anomale e, per questo, le discipline citate, non rientrano nelle cose materiali ed il materiale o regola non scritta, ben impresse e memorizzare, sia del Governo delle donne e di quello degli Uomini.

Quando agli inizi degli anni sessanta venne richiesto a mia madre, una delle sagge sarte, capace di realizzare un vestito da sposa tipico o restaurarlo, di comporre un vestito completo per una bambina, che avrebbe fatto da figurante in chiesa, nel corso di un matrimonio, che avrebbe avuto luogo a Bergamo, con garbo e saggezza rispose, che per dovere di parentela lo avrebbe sicuramente fatto.

Tuttavia, certamente non per una ragazzina, infatti si recò al mercato e acquistò una bambola e, assieme a tutte le altre sarte del paese, compose dopo infinite e continuate riunioni; con dovizia di particolari quella bambolina, che divenne poi l’esempio, sommariamente imitato in seguito e, ripetuto, diffuso come emblema identitario della minoranza.

Questa piccola nota di avvenimenti del passato vuole risvegliare alle giovani generazioni, almeno il senso della vestizione, che non è da sposa, mezza sposa, festa, mezza festa, lutto e mezzo lutto, come se le cose e sensazioni della minoranza, che vive di parlato e consuetudine, si possono apprendere o comprare, di misura con la stadera nel mercato a, kili e mezzo kilo o a quarto di kilo.

Le cose degli Arbëreşë si apprendono ascoltando, nulla è immaginario comune per questo o le si conosce o si fa meglio rimanere a casa e pulire la polvere rubata e, magari dopo aver pulito recarsi da una madre, una nonna o una zia, almeno settantenne anche se in prestito, per farsi illuminare e rendere almeno partecipe al rigido protocollo che fa consuetudine, la stessa che distribuisce saggezza e credenza, preferita e più comoda, alla meno saggia globale.

Finalmente, da un po’ di tempo i campanili tacciono e i minareti si sono esaltati, immaginando che facendo matrimonio, si possa affrontare meglio, quanti si sono formati sotto l’attenzione del governo delle madri e poi frequentato le botteghe dei saggi padri, diventare il nocciolo duro della consuetudine, il parlato e il credere più profondo degli Arbëreşë.

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EQUIPOLLENZA INDISPONSABILE PER ESSERE UN PAESE DI RADICE ARBËREŞË (Satë  mos thë jemj Skiptarë)

EQUIPOLLENZA INDISPONSABILE PER ESSERE UN PAESE DI RADICE ARBËREŞË (Satë mos thë jemj Skiptarë)

Posted on 13 ottobre 2024 by admin

Casco

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Bozza dei temi indispensabili per allestire progetti, sulla disponibilità di tutela secondo le leggi Regionali, Nazionali e le direttive Europee rivolte alla tutela delle minoranze storiche.

Il progetto da finanziare, vuole finalizzare quanto qui esposto per essere attuato secondo gli intenti di un gruppo, multidisciplinare, sulla base di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologiche, Storiche, Sociologiche, Psichiatriche, Architettonico e Urbanistico, includendo altre discipline per finalizzare il buon esito dell’opera, con ricerche e relazioni specifiche per le mire qui elencate:

 

  1. Giorgi Castriota chi era e, cosa ha rappresenta per la definizione della Regione Storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë;
  2. Tutelare la parlata arbëreshë di questo Katundë, avendo priorità rivolta alle nuove generazioni, tramite scuole o corsi di lingua extra scolastica, secondo le direttive europee che prediligono la lingua locale, della Nazione e la più diffusa Europea;
  3. Recupero di Kalljve, Case a Profferlo o Palazzotti seguendo i percorsi dell’economia e dell’integrazione, oltre i tipici percorsi viari di necessità della Iunctura familiare tipica, quali: Rruhat, Sottoportici, Vicoli Ciechi, Vallj e Orti Botanici del centro antico, da inserire in progetti di valorizzazione del centro antico;
  4. Manifestazioni culturali e, convegni rivolti alla cultura, definendo i temi specifici per i pannelli, per una mostra che esponga i percorsi storici salienti della storia arbëreşë in generale e, quella di questo Katundë e la sua macro area specifica, il tutto da apporre nel museo antropologico o in apposita struttura locale per fare accoglienza;
  5. Studio e ricerca storica dello sviluppo urbano del centro antico, nel corso dei secoli, con apposizione di sistema planimetrico G.I.S. che ne definisca epoca e sviluppo;
  6. Progetto di pannelli per le vie e indicazioni numeriche dei civici in caratteri Romani e Arabi e, per la toponomastica in lingua Arbëreşë, Italiano e Inglese, sia del centro antico, sia dei cunei agrari, silvicoli e pastorizia; in oltre ricercare gli storici itinerari della transumanza di questo Katundë, all’interno del suo agro;
  7. Ampliare il museo fornendo valore antropologico locale, con specifiche sezioni di tema di costumi e organizzazione di vita domestica, conserviera e la lavorazione, l’arte del genio locale;
  8. Comporre una postazione video e audio, di ascolto e visione del parlato con protagoniste le generazioni più anziane;
  9. Formare un gruppo di giovani/e residenti e rispondere alle richieste dei turisti per fare accoglienza, informazione specifica della minoranza, sia del centro antico, del territorio Agreste, della macro area di pertinenza Arbëreşë sino a tutta la regione storica sostenuta e diffusa in Arbëreşë;
  10. Realizzare percorsi pedonali con l’utilizzo di materiali autoctoni di antica necessità, estrattive e additive vernacolari, dovute al bisogno di epoca e storia;
  11. Tracciare i percorsi di credenze locali e, valorizzare le antiche icone del centro storico, dei cunei della sostenibilità agraria, che segnarono i percorsi dell’opera per lavorare e valorizzare territori e centro abitato;
  12. Studio degli effetti delle direttive Europee la legge 482/99, nazionale e quella regionale del 2003, n. 15.; ed eventuali annotazioni da sottoporre a politici e istituzioni, per mire non raggiunte della sua applicazione innescando nuovi processi ancora non contemplati;
  13. Studio del costume tipico, di: giovane donna; sposa; regina della casa; giornaliero; lutto e, vedova incerta; attestandone sin anche le varianti e le inesattezze nel corso dei secoli;
  14. Definizione dei sostantivi che identificano il centro abitato, i rioni, le Piazze, le vie, gli orti botanici e i valori di convivenza sociale largamente appellati a dir poco inopportuni;
  15. Progettare il percorso del costume all’interno del museo, secondo disposizione e temi museali, predisposti da titolati, fornendo la più giusta e idonea linfa espositiva;
  16. Ricerca storica delle figure di eccellenza Arbëreşë di questo Katundë, nelle discipline: Sociali, Economiche; Politiche, Scienza Esatta e del patire storico, sino all’unità d’Italia;
  17. Le Credenze locale e i fenomeni paralleli laici, la terminazione del rito Ortodosso, per il Latino e, gli atti che determinarono l’esigenza del Greco Bizantino;
  18. Valorizzare la giornata del Termine per gli Arbëreşë, il Carnevale gli appuntamenti storici della stagione lunga; l’Estate e di quella corta; l’Inverno
  19. La festa patronale e il significato storico locale dei Santi e le vie della devozione di questo Katundë;
  20. Definizione, di Paese, Gjitonia, Sheshë, Drjtësora, Ruitoj oltre i toponimi indigeni, arbëreşë, di insediamento ed integrazione in espansione;

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LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

Posted on 11 ottobre 2024 by admin

00020NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Ricordo di non aver voluto seguire gli studi nel complesso di San Demetrio, preferendo San Domenico di Acri e poi come riferirò più innanzi mi sono dovuto ricredere.

Ho comunque iniziato a frequentare gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza, egualmente tutelati come pervenuti.

Sono contattato ripetutamente da figure locali che mirano a ricevere conforto culturale dalla mia professionalità, per poi riferire cose inedite e, le stesse poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto, la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 ad applicarmi e trovare agio per un nuovo stato di fatto, indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo di appartenenza e rispetto.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a diffondere i processi o percorsi storici di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre, come si faceva un tempo nelle scuole medie, anche se all’epoca il rimando realizzava la promozione, quelli di oggi promuovono negazione e nulla più.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento, distribuendo attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune e senza alcuna notorietà per editi o fatti di memoria e cultura.

È stato proposto di formare giovani figure di genere locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari di memoria e operosità.

Tuttavia si è preferito dare agio a liberi interpreti, di episodi e storie mai avvenute, che stimolano la curiosità di turisti nel centro o luogo di movimento, ovvero Katundì, secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcuna fondatezza storica, se non il comune campanilismo locale che tritura e rende polvere al vento ogni cosa.

A tal proposito va sottolineato il protocollo, secondo il quale sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi che non hanno in alcun modo avuto luogo nel corso della storia dell’architettura, la stessa che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, Borghi con Katundë; Gjitonie con Vicinato; Sheshi con Piazzette, e mattoni in laterizio, con di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, quando per necessità è stata il frequentare assiduamente le botteghe storiche dei maestri partenopei, in stretta collaborazione con dipartimenti e istituzioni, senza eguali, per addivenire al protocollo che ti rende unico e completo professionista, e non è per caso, coronato nella chiesa di San Demetrio nella zona dei Banchi nuovi, proprio un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire, dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia, oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali/estetici degli edifici storici.

Tutto questo ha reso possibile realizzare, ancor prima del titolo di laurea, di poter essere consulente e collaboratore primo, per il recupero di archivi, biblioteche, cattedrali giardini storici o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di Stabia, il suo Parco e le fontane storiche, la Casa Rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline acquisite e, che consentono di dialogare o trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico, inquadrando le sue genti come giullari che non sanno leggere editi, alfabetari o vocabolari disposti a Capo Sotto.

Il mio Grido di allerta è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, per questo riecheggia nei corridoi, con la speranza di ottenere il comporre gruppi di “giovani guide locali” che con il garbo tipico dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti o turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati e protagonisti a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione, del genio locale e, di Iunctura familiare Kanuniana, sostenuta dalla dieta mediterranea, il tutto per poter vivere o avvertire il luogo dei cinque sensi che solo qui ancora vive.

In altre parole, riproporre il seme antico dell’ospitalità, che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un mondo, una sensazione, un privilegio che ti conduce a vivere fraternamente, senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che sono solo la Regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

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"IL VALORE CULTURALE DI VESTIZIONE ARBËRESHË E LA RESILIENZA DEL COSTUME” (Satë mosë i birmi stòlljtë)

“IL VALORE CULTURALE DI VESTIZIONE ARBËRESHË E LA RESILIENZA DEL COSTUME” (Satë mosë i birmi stòlljtë)

Posted on 08 ottobre 2024 by admin

AtoNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il costume arbëreşë è la testimonianza visiva della storia, della cultura, della fede e delle tradizioni, in tutto la rappresentazione della perseveranza indissolubile con la quale segnare identicamente lo scorrere dei secoli.

Per questo il passaggio di testimone da una generazione all’altra è un rito fondamentale, che consolida il proseguimento della propria identità nel corso della storia, con l’ausilio delle consuetudini e tutte le tradizionali credenze solidamente radicate.

Se questo poi avviene per popolazioni che tramandano esclusivamente attraverso la forma di gesta e parlato, avendo quale prioritaria la metrica del canto, l’evento diventa codice delicatissimo al pari di un’oggetto di cristallo lavorato e, mal riposto nella “credenza “quando fa terremoto.

Quanti utilizzano la storia, quale mezzo per confermare messaggi senza alcuna fondatezza di luogo, di tempo e persone, produce danno, specie quando si vogliono piegare i ricorsi per il mero fine di apparire, con atti notarili o editi cattivamente interpretati.

Storicamente sono molteplici i casi che per glorificare private falsità, usano satinare miti, eroi e avvenimenti, senza luogo e tempo.

Il sistema si può raffigurare come una frana che nella sua greve corsa verso il basso, amalgama ogni cosa e, il ricordo a questo punto, diventa il protagonista grazie alle figure più inesperte, giovani in tutto le meno adatte per riferire memoria di tempo.

Questi atteggiamenti sono il frutto di una cattiva morale culturale e, già nel passato remoto, era uso formulare specifiche richieste (a degenerati scrittori) che tramandavano avvenimenti ereditati da memorie false, costruite a misura, con l’ausilio di documenti apocrifi creati ad arte.

Allo scopo si ritiene adoperarsi per realizzare la “diplomatica” adatta che si analizza e studia i documenti ufficiali, in particolare dei documenti storici prodotti, e il nostro compito rimane quello di analizzare la forma, la struttura e il contenuto di tali documenti verificandone l’autenticità, interpretarne il significato e studiarne il contesto di produzione.

Certamente concentrandoci sui documenti scritti in epoca medievale e moderna, come pergamene, lettere, privilegi, diplomi, e contratti.

Questo dato consente alla minoranza arbëreşë di riconoscere i trattati storici originali e differirli dalla “isola felice”, dove ogni cosa appare esclusivamente candida, meravigliosa e sempre positiva.

Tuttavia a devastare ogni cosa, non sono le menzogne prodotte dai falsi finanziatori, giacché il danno reale è prodotto dalla mancanza di volontà dei dotti, o preposti, i quali sanno e scientemente non separano i falsi dai veri avvenimenti, anzi assistito divertiti alla riproposizione degli ottimi prodotti taroccati on puro fatuo.

Sono proprio queste narrazioni, addirittura poste in stampa, che contribuiscono a rendere celebri, per cattiva conoscenza/coscienza, gli annali della storia, dove la rotta punta a ottenere un’icona di rilievo e non garantire la logica narrazione di fatti, persone e cose.

Come affermava Michele Baffi, figlio del più noto Pasquale originario di Santa Sofia d’Epiro in una sua diplomatica riferita a quanto pubblicato della storia dei romani: “mescolavano le divine con le umane cose, per rendere più augusti i cominciamenti e tanto andò avanti questa confusione, che nessuno fu in grado di comprendere cosa fosse vero e cosa era mescolanza di fatti mai avvenuti”.

Furono gli stessi storici che in seguito ebbero a trarre la conclusione che: in questo modo nacquero gli annali delle prime nazioni, usciti dalle tenebre dell’antichità e dalla stoltezza delle malfondate tradizioni.

Dopo questa breve introduzione gli scenari che si presentano vanno e devono essere analizzati avendo consapevolezza di cosa si potrebbe produrre se attratti dai frutti di pura e più conveniente stoltezza.

La ricerca storica quindi va fatta comparando costantemente gli elementi finiti con quelli indefiniti e la propria capacità di interpretare e affiancare fatti, uomini e cose, avendo capacità di comprendere cosa è storia possibili e cosa no!

Un esempio che qui riporto valga per tutte le cose che banalmente si raccontano: come l’esser giunti  i Kalabanon nelle rive dell’adriatico e dello jonio, allocandosi nelle colline del meridione con i loro bauli colmi di costumi, trascinati dalle colline dell’antica illiria, sino ai porti delle rive adriatiche ad est, caricate nelle navi, scaricati poi nei porti pugliesi a ovest e in seguito trascinati per la Puglia, la Basilicata e la Calabria; un gesto a cui sicuramente agli arbëreşë va dato merito della loro proverbiale caparbietà, ma, pare così a dir poco di esagerato e palese ritenerla una storia senza alcun senso.

Se a ciò si aggiunge il dato che questi bauli spariscono nel XV secolo, dato che il Rodotà li descrive nudi al papa a cui si rivalse per trovare soluzione cristiana.

Nasce spontanea la domanda, a meno che non si tratti di un miracolo come fanno ad apparire nel XVII secolo e, in quale località climatizzata con tecnologie ultra moderne di quell’epoca sono stati custoditi?

In questo mio breve, per questo si vuole affrontare la disanima del contenuto di questi bauli mai esistiti, il cui contenuto teoricamente nasce all’inizio dell’era industriale europea, quando gli esuli posero in essere, ovvero, realizzarono la bandiera identificativa di macro area della cinta Sanseverinese, ovvero, “il Costume Arbëreşë”, memoria riassuntiva laica e clericale di un’identità forte e mai dismessa nella provincia citeriore presilana.

Va a tal proposito sottolineato che il costume arbëreşë, completo, che identifica area e luogo; scaturisce da una solida e coerente narrazione storica, allocata nelle sub aree della Pre Sila arbëreşë.

Rappresenta il Componimento unico, solo, primo ad essere considerato narrazione storica e, da cui sono stati poi estratti frammenti, della macro area delle Miniere e del Pollino.

Questi costumi dal primo che ha come emblema la Sposa, all’ultimo di Vedova Incerta, vanno perdendo il senso originario cosi come i cerchi concentrici di una pietra buttata nell’acqua, si attenuano quando si allontana dal centro di caduta.

I costumi identificati come: da Sposa, moglie e Regina della casa, Giornaliero o del fuoco, di Vedova e Vedova Incerta, sono i fondamentali, gli altri, seguono una rotta che è affine più alle genti autoctone che al consuetudinario arbëreşë di radice e credenza.

Alla raffinatezza del costume si accosta la dualità dell’impegno storico, sociale e clericale degli arbëreşë; ciò nonostante serve un’attenta analisi per comprendere movenze e significato, il che restituisce uno scenario artistico che aumenta, in quei centri in cui la valorizzazione, la tutela identitaria, l’idioma, la consuetudine, la metrica e la religione Bizantina, rendendo il legame tra casa e chiesa, ovvero, il valore civile e religioso forte, solido e completo.

Tutti gli altri centri dove uno di questi elementi o componenti, che compongono il costume, dovessero variare o mancare, restando il costume sintesi o addirittura segno per altra identità, se non addirittura tradizione popolare indigena o llitirë dirsi voglia.

Alla luce degli avvenimenti cadenzati dall’ultima decade del secolo appena terminato, dove a segnare il passo della vestizione dei preziosi componimenti sartoriali, sono inesperte/i giovinette/i, i quali, pericolosamente tralasciano il senso non scritto, custodito nel ricordo di donne adulte, che vengono e sono perentoriamente ignorate se non rinnegate.

Va in oltre marcato il concetto secondo il quale il costume è un testamento, un trattato non scritto; e per questo deve essere letto o interpretato da artigiani/artisti in grado di avvertire vibrazioni molto profonde e colme di significato, nei colori nei ricami, nelle pieghe clericali e di laica credenza.

Coprire il corpo il giorno della nascita, durante la crescita, quando si diventa donne, il giorno del matrimonio, durante l’invecchiamento e al termine della propria esistenza, fa sentire il genere femminile protagonista del mondo arbëreshë, dal primo vagito sino all’ultimo sospiro della vita e, simboleggiano tutto ciò i colori qui in elenco:

Il bianco: associato alla luce alla purezza;

il rosso: associato al sangue e alla fedeltà;

il giallo: associato al sole;

il verde: associato alla vegetazione il lavoro nei campi;

il blu: associato al cielo alla ricerca del termine;

l’oro e l’argento: associato alla ricchezza;

il porpora: associato alla luce del fuoco sempre acceso;

Il raso: associato alla luce della credenza;

il marrone: associato alla terra;

Il nero: associato alla negazione assoluta, come la notte, o buio di termine;

Tutto questo va difeso con forza ed energia culturale solidamente radicato nelle cose del trapasso generazionale, affinché non termini tutto per continuare ad essere inculturazione e trasmette, riproducendo le proprie “tradizioni” all’interno di tutte le macro aree; evitando l’acculturazione ovvero l’invasione dei tratti culturali provenienti dall’esterno, da altre aree geografiche-culturali che possono terminare con il modificare i valori del manuale sartoriale indivisibili.

L’analisi per questo inizia naturalmente citando il significato di ogni singolo colore: la pigmentazione delle stoffe che non è casuale ma mira mai casuale, anzi ognuno di essi e il relativo accostamento inviano messaggi chiari, univoci, il cui fine e legato a un messaggio di onestà, prosperità dell’unione e la relativa discendenza.

Il costume, è il sunto dei travagli di operosità onesta sociale, etnica, religiosa e di credenza all’interno della Regione storica diffusa, sostenuta in parlato e movenze Arbëreşë; esso racchiude antiche gesta e messaggi, codice identitario, rappresenta l’unica forma figurata in senso generale di un’etnia che si è avvalsa per secoli della sola forma del parlato.

L’atto della vestizione, diviene codice di arte, massaggi figurati e di comportamento, discipline o protocollo figurativi tramandato oralmente e con gesta di segni; esso rappresenta e valorizza credenze e pratiche condivise da generazioni, in tutto, il codice che diventa arte.

Esso rappresenta l’anello che lega l’apparire femminile con il territorio, mille pieghe di rinforzo calettate su un basamento dorato, la radice fondale e, ogni piega difende solidamente le cose più intime del genere Arbëreşë, in senso generale e generazionale.

Quattro strati inferiori di vestizioni in colore diverso, la prima indica la natalità, quella più a contatto con il corpo, la seconda la purezza e la fede, la genuinità giovanile e la terza il padre, per arrivare a quella più estrema o pubblica che rappresenta il marito, per generare specie, ovvero il sacrificio.

Fede e sacrificio sono sostenute e regolate dalle rotondità della vita, ma nella connessione con il gallone dorato del basamento assumono andamento rettilineo come segno di rispetto verso il territorio in ogni direzione.

Il costume rappresenta la sintesi dei rituali condivisi, in sintonia con la vita e i rapporti che essi hanno avuto con gli indigeni.

Tutto questo qui riassunto diventa espressione delle diverse macro aree, insiemi di usanze e, in certi casi vere e proprie tradizioni, tramandate attraverso i trattati liturgici come ad esempio le pergamene a doppia faccia, lette dal clericale nella parte rivolta a esso e nelle immagini riferite al Vangelo, volte ai credenti.

Oggi indossare un costume Arbëreşë non deve essere solo occasione per esaltarsi a gesti e referenze senza avere cognizione culturale e linguistica del ruolo che si assume, né bisogna indossarlo sinteticamente, sciattamente o addirittura volgarmente, in quanto, il costume rappresenta un simbolo che deve inviare messaggi dell’appartenenza di un popolo e del suo territorio.

Indossare il costume vuol dire avere rispetto di ogni suo elemento e caratteristica estetica perché quando è esposto, diventa vessillo di un popolo ben identificato.

Come lo sono le dorature del Xhipùni che non deve essere sintesi del generare prole, ma vestizione coerente con il senso del matrimonio che genera prole, imbibendosi prima nella fontana della vita e poi in quella dell’intellighenzia matriarcale, del governo delle donne

Il rito ha inizio con la pettinatura këshètë, messa in atto della tipica forma, entro cui raccogliere i capelli saldamente avvolti dalla candida fettuccia bianca.

Per poi essere il supporto della corona dogale del matrimonio solidamente invalicabile dalla vista delle intimità femminili più esposte.

La stiratura del ricco merletto, linjë che va impostato prima dell’uso, con la giusta rigidezza dosando acqua e amido e, fornire solidità alla preziosa trama che genera la fonte della vita.

A questo punto si dà avvio al rito dell’apposizione xhipùntëi i còha e sotto còha, dal cassetto appositamente attrezzato, seguita la rimozione dei lacci che garantiscono la postura di riposo e la svelatura degli altri elementi conservati e avvolti dalle apposite stoffe di cotone.

Ogni cosa in seguito va prima indossata, calibrata e in fine fissata con raffinata perizia, manualità e dedizione; il costume richiede regole precise, per questo indossate le vestizioni intime e la linjë si continua con sutànini, poi sutàna me raset e in fine la còha, tutte queste una volta indossate vanno calibrate al fine di raggiungere la vestizione che deve essere un’armonia di linee che sul davanti è lineare da sotto il seno fino all’estremità inferiore della còha; sui fianchi e il di dietro, deve essere arrotondata nella parte iniziale per poi allinearsi subito con andamento verticale dettato dalla parte rinforzata da cui partono le bretelle; il contorno inferiore, Gagluni deve risultare perfettamente livellato e il davanti sfiorare la punta delle scarpe, la cui regola è garantita dall’altezza del tacco.

La parte superiore dalla base del collo sino al seno, deve descrivere un piano inclinato che poi s’innesta con la linea curva della prominenza sulla linea verticale su citata.

Xhipùni, deve aderire perfettamente sulle spalle e allinearsi alle rotondità del seno cui deve rimanere aderente persino nei piccoli movimenti delle braccia sollevate.

A seguito di tutto ciò e dopo continue verifiche si fanno gli ultimi rintocchi rivolti alla vestizione degli ori (orecchini e collana con diadema) con l’apposizione della kesa che copre këshètë, rappresentazione dogale della corona della regina del fuoco e della casa.

Poi segue il tocco finale con l’apposizione sul capo o piegata ordinatamente sul braccio del velo dorato da sposa o di quello porporati di regina della casa e del fuoco domestico sempre acceso e diretto.

Poi arriva il tempo dello sfilare o l’apparire, momenti in cui, chi si assume la responsabilità di rappresentare con il raro vessillo un gruppo ben identificato, deve saper trasmettere secoli di storia riassunti in quei preziosi filamenti di porpora e oro; l’atto di apparire e attirare con quei movimenti di grazia e coerenza, deve ricordare che una favela diversa nel sud dell’Italia ancora vive nella più completa sana e onorata integrazione.

Va in fine sottolineato che i tempi e le modalità di mettersi in mostra a casa, negli ambiti di Gjitonia e, negli ambiti diffusi del Katundë, sono momenti in cui, la ruota, la coda e ogni sorta di pendaglio o elemento indossato o portato per essere esposti, ha un luogo, un tempo e un momento di riverbero per essere reso pubblico, altrimenti si perde il senso della vestizione, che non ha né segreti e né tasche, dove celare o nascondere sgradevolezze di unione e condivisione familiare.

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IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

IL MIO LUOGO DEI CINQUE SENSI O GOVERNO DELLE DONNE NON È UN PIANORO DI CAMPAGNA (Gjitonia imè nënhghë hëshëtë si ghë ràshë llitirë)

Posted on 06 ottobre 2024 by admin

Generazioni

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi nasce nel mentre la madre si adopera a tenere vivo il fuoco dell’antico camino di casa, educando parimente i suoi figli e quelli della Gjitonia, crescerà avendo nel suo cuore, nel suo animo e nella sua mente, impresse indelebilmente le consuetudini storiche del governo delle donne, in ascolto e gesta Arbëreşë.

Diversamente dagli indigeni o “llitirë”, dirsi voglia, che sono allevati in recinti alloctoni secondo i percorsi gestiti da “fattori e massaie” e non dal governo delle donne Arbëreshë, qui comparati in breve:

  • Persistenza delle identità indigena: Le comunità storicamente strutturate nei Katundë, si sviluppa seguendo costantemente il perenne senso di appartenenza, imbrigliati al concetto di “genio femminile della Gjitonia” connessione spirituale e culturale in linea con il riportato dal territorio parallelo ritrovato, ed è esso che rafforza le tradizioni specifiche di ogni singola figura; diversamente avviene per quanti nascono e vivono l’agro, isolati e lontani dal governo delle donne o luogo dei cinque sensi in Arbëreshë.
  • Isolamento storico e geografico: La dislocazione dei centri Arbëreshë, generalmente allocati in aree collinari, si presenta relativamente isolate, il dato di fatto favorì l’autosufficienza e la preservazione delle proprie tradizioni all’interno della solida iunctura della Gjitonia, limitando la comunicazione; diversamente da chi cresce e vive nei luoghi isolati dell’agro o di altre realtà indigene, dove si rafforzava la mentalità “llitirë”, in favore dei campanilismi senza radice, come quelli disposti e fortificati nel cuore e nella mente in lingua e movenze Arbëreshë.
  • Diversità interna: Gli Arbëreshë condividevano radici comuni, sviluppando e incernierando le proprie sfumature consuetudinarie, tradizioni e costumi, solidamente uniti e unite, dal senso del parlato in ogni forma di pronunzia o gesticolare per una buona comprensione del riferito, simbolismi di un’identità senza confine di temine. Questo ha condotto alla storica frammentazione del senso di appartenenza di radice, poiché ogni Gjitonia tende a enfatizzare le proprie particolarità, senza mai perdere il senso della luna e del sole Arbëreshë.
  • Dinamiche sociali e politiche: Nel corso dei secoli, i contatti con le autorità indigene o llitirë di altre popolazioni rafforzarono il comportamento per gestire risorse all’interno di un contesto più ampio (spesso dominato da identità nazionali altre) questo dato ha portato a una certa competizione tra la terra di origine e quella degli esuli in terra parallela e ritrovata.
  • Mancanza di una narrazione storica unificante: Sebbene la storia degli Arbëreshë sia ricca e affascinante, la mancanza di una narrazione unica e indivisibile, che parta dalle origini e secondo lo scorrere del tempo illuminare e promuover con priorità le eccellenze e le cose prime, seconde, terze e così via della propria storia ancora incerta.

Invece si è preferito esaltare campanili, limitando il valore per il fine di elemosinare merito, alle tradizioni locali più immediate, banali e senza una radice unitaria.

La combinazione di questi fattori ha probabilmente portato ad allestire identità frammentate, della stessa comunità che tende a concentrarsi sui singoli campanili, piuttosto che rafforzare una storia condivisa, ampia e unitaria.

A tal fine e senza perdere l’orientamento originario, la mia Gjitonia da adulto è diventata Napoli e gli ambiti degli antichi Olivetari dove Bizantini, Arabi, Alessandrini e Longobardi, hanno seminato e fatto crescere la cultura Arbëreşë, un vero e proprio banco si scuola con numerosi editi da apprendere, come abituato da piccolo a fare, nel governo delle donne. dove ho avuto il mio natalizio.

Questo mi consente di affermare che nessuno, dico nessuno! si deve permettere o azzardare a venire in Napoli, per fare affermazioni incaute o inopportune, specie se proviene delle torbide acque del torrente Cupo e, poi formatosi nell’agro del Surdo e del Settimo, secondo le direttive della moderna Albania dei Beg.

La meno cauta discendenza Albanofona, in tutto l’inesorabile deriva verso l’infero della cultura, allestita negli anni settanta del secolo scorso, per fare danno al parlato, alla consuetudine, al costume e alla credenza, del “Governo delle donne Arbëreşë”.

Leggo con interesse, tesi di laurea, editi e ogni sorta di scoperta archivistico e bibliotecario riversate e ritrite, che hanno come scenario i luoghi e le vicende degli esuli della diaspora, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota.

Le tematiche in genere servono a delineare il progetto di accoglienza, unico e indivisibile, predisposto dal su citato eroe dopo la sua morte 1468 sino al 1506, distinguendo questo intervallo dalle altre migrazioni, sia concentrate e siano esse diffuse, a partire dalla nascita di Cristo, sino ai giorni nostri; ma questa è un’altra storia che non parla e gesticola in Arbëreshë.

Dagli Stradioti, sino alla diaspora degli Arbëreshë, non sono tutte figure storiche con identiche mire e volontà o interessi di dialogo pacifico, anche se la storia preferisce unificarli, onde evitare di dare spazio a temi militari, politiche, sociali e religiosi preferendo così di, uniformare ogni cosa e fine di provenienza, tutte caparbiamente disposte ad est del mare Adriatico, sino dove finisce lo Jonio.

Tuttavia quello che manca è il valore rivolto alle necessità di questa popolazione in continuo inchinarsi e rendersi disponibili ed allestiti in luoghi di continuo fermento sociale e di credenza.

Queste popolazioni, infatti, hanno saputo rispondere, nel corso dei millenni alle esigenze di Romani, Veneziani, Mussulmani, Papati, Francofoni, Ispanici e, solo dopo la morte dello stratega buono, quando era nuovamente Giorgio Castriota, “il suo popolo” fu protagonista primo, del modello di integrazione più solido e duraturo tra popoli con differenti identità e credenza, oggi denominati Arbëreşë, senza in alcun modo colpo ferire.

Per questo definire tutti con lo stesso identificativo, si perde il tempo, il momento sociale in fermento e la necessità degli Arbëreşë di salvare la propria identità.

Confondere e fare di tutte queste genti un fascio, non da merito al periodo storico in cui gli eventi sono avvenuti, oltre gli scopi per i quali, questi furono indirizzati ad emigrare e insediarsi, secondo la nota diaspora balcanica.

Tutto questo è avvenuto con il fine di rendere un giusto supporto all’identità, che altrimenti sarebbe stata compromessa, come e successo a quanti hanno preferito seminare quelle terre e, non seguire agli Arbëreşë che si trasferirono nelle terre parallele ritrovate, oggi noti per le vicende storiche vissute come i fondamenti o riferimento antropologico del vecchio continente denominato Europa.

Questi fondamentali trascorsi storici, riassumerli in banalissime migrazioni, cavalleresche, militari, di bottega, per allevare e dissodare terre è la più grande offesa, che si possa fare al genere umano, specialmente quando si confondono le necessità dei richiedenti e quelli degli arbëreşë, pronti ad essere sottomessi e resi schiavi non solo del proprio fisico ma del loro pensiero e delle future generazioni, quelle che oggi restano e sono i più evoluti di quelle terre antiche e colme di consuetudini inarrivabili, nonostante il perpetuo ideologismo islamico imperante e mai in quiete.

Questo fa capire quanta responsabilità, hanno oggi quanti sono nati negli ambiti illuminati dal camino gestito dal ministro della casa, una dei componenti del Governo delle donne Arbëreşë, che allevano i propri figli con gli ingredienti dei cinque sensi con misura e garbo.

Quindi, quando sentite parlare, disquisire, pubblicare o editare di questo popolo, bisogna essere molto attenti nell’ascoltare cosa viene riferito, sulla base di quale esperienza del bisogno di tutelare e sostenere un antico protocollo, che nessuno è riuscito a scrivere, disegnare su fogli, muri e terra, perché fatto di movenze e parlato armonico tipico del Governo delle Donne e, compreso dalla sola discendenza a cui viene o è indirizzato. 

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