Archive | luglio, 2023

LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

Posted on 25 luglio 2023 by admin

arcNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La verità che va subito svelata è il concetto Università in origine appellata “Scuola”, che nel corso dei secoli e dalla sua origine ha assunto una organizzazione gerarchica secondo cui non si riferisce di “Scuola” ma “Scuole”.

Infatti un maestro abbastanza bravo che aveva un seguito di allievi, inclini ad avere particolari attitudini a, seguire, studiare e conoscere, le vie del sapere, erano accolti a casa del maestro; cosi ha inizio la radice, dell’università sino ai giorni nostri, per quanti le frequentano con lo spirito antico di conoscenza. 

Nel caso in questione, di terra di Sofia, si può ipotizzare che il gruppo di studio locale era diretta da un prelato o più prelati a casa propria, dove svolgevano questa attività, anche fuori i canali prettamente clericali.

Per datare inizio all’avvenuto continuo, senza soluzione di continuità alla formazione di quanti vivevano questo luogo, si può ipotizza che tutto avvenne, dopo la costruzione del Palazzo Arcivescovile, il palazzo delegato alla residenza estiva degli allievi monastici del vescovato di Bisignano; siamo alla fine del XVI secolo esattamente il 1595.

Qui i rampolli delle famiglie che riuscirono a formare un proprio figlio, facendolo rientrare nei gruppi o “capannelli universitari privati” le stesse che in questi anfratti, senza soluzione di continuità, elevano figure in ogni epoca.

Le stesse che oggi rimangono come pietre miliari di una scuola all’interno della comunità albanofona, ancora senza pari, in numero e di elevata cultura e conoscenza della storia.

Nel corso dei secoli a seguire le case dei Bugliari, Baffi/a, Feriolo, Miracco, Becci di sopra e dei Pizzi, divennero veri e propri poli universitari, dove i figli delle famiglie, pieni di volontà di apprendere, ebbero modo di formarsi e divenire esempio irripetibile per tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreshë.

Non a caso, furono proprio questi, una volta inseritisi nella società di pensiero, a far brillare i “presidi universitari locali in terra di Sofia” alla luce dei fatti e, avendo modo di concertare l’allargamento il numero degli allievi del Collegio Corsini, trasferendolo in sant’Adriano, luogo ideale citeriore, per liberali prospettive sociali, caratterizzando la formazione in libero pensiero e difesa della propria radice identitaria, sociale, civile e religiosa.

Tuttavia dopo un medio periodo di lume, ha iniziato una china senza tempo e nonostante alcuni esempi siano sfuggiti alla deriva culturale verso il basso, il luogo di terra di Sofia, conserva tutti gli ingredienti e le cose per diventare cosa fu nel passato e, quanta spinta ha dato all’unita d’Italia e di tutte le sue cose più buone.

Purtroppo da ventotto febbraio del 1986, vige un comando una legge o meglio un gruppo di lavoro sotterraneo, ambiguo e senza scrupoli, che predilige far frequentare i “Presidi universitari locali in Terra di Sofia”, cercando a sottrarre braccia ai cunei agrari, scacciando dagli ambiti del centro antico quanti hanno cuore, mente e vedute larghe, per valorizzarla in senso assoluto.

Il risultato è steso, continuamente e senza ritegno, al sole “the kopshëti pà gardë” svelando il sudore in sangue, del genio, apponendo, elementi utili a distrarre,  le prospettive di ascolto e visone, verso altrui segni distintivi di luogo, ormai ripetuto affanno operare dei peggiori; tuttavia il luogo ameno, rimane e vanta d’essere nato e per lungo tempo, luogo di prima scuola universitaria Arbër in terra citeriore.

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UN’ANSA ARBËR MAI DIVULGATA  (Bhëndj: Ghjsh Ghindiatë thë gjegnë nè)

UN’ANSA ARBËR MAI DIVULGATA (Bhëndj: Ghjsh Ghindiatë thë gjegnë nè)

Posted on 19 luglio 2023 by admin

g_colosseo-333x250NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Nel mentre l’ANSA da ROMA, rilancia che, un altro turista, è stato denunciato dai Carabinieri del Comando di Piazza Venezia per aver deturpato il Colosseo, denunciando e sanzionando amministrativamente il turista sorpreso mentre grattava, deteriorando una parte del laterizio scalfendo le iniziali del suo nome; di contro succede che, in altri ambiti tutelati dalla legge 482 del 1999, si fa gran uso di pitture acriliche, pennellate, bombolette e chissà quali altri scalpelli e scalpellini, utilizzati a perimetrare, inconsuete attività e, deturpare porte, prospettive o monumenti di memoria storica dell’illuminismo, che se paragonata ai recenti attentati di concertazione illegale, parlerebbe la memoria alle stragi autostradali e  abitativi del secolo scorso e, per non coler esagerare, arrivare a parallelismi  in eccidi politici di eccellenza; bene immaginate se questi ambiti oggi venissero ricordati ad opera di comuni artisti senza alcuna formazione o nozione culturale, e i luoghi di appellino  Capaci, Via D’Amelio e ………, da riattare.

Dal punto di vista della tutela storica e urbanistica, alcuni luoghi non hanno bisogno di leggi specifiche, ma solo di buon senso civico è, rivolgere solo attenzioni, quando i luoghi sono memoria di centri antichi, centri storici o di storiche vie,  memoria di noi tutti, altrimenti  è segno che il termine non fa più da Limes.

Nell’Art. 9 della Costituzione Italiana è sancito, a norma di legge lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica e tecnica, per rispettare con dovizia di particolari le cose del passato.

Tutelare il paesaggio e il patrimonio storico/artistico, tutte le cose che fanno parte dei valori locali della Nazione.

In oltre, nella legge sono rivolte particolari attenzioni all’ambiente, la biodiversità gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni titolate a conoscere il senso del bene trasmesso.

La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela delle cose, l’ambiente naturale, quello costruito e gli ambiti di carattere identificativo e, gli animali.

Come tutelare il patrimonio storico? È una prerogativa basata sulla conoscenza e il rispetto che si ha per le cose al fine di conservare il patrimonio culturale, assicurando mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.

Per prevenzione si intende il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto.

Un Complesso di azioni intese a proteggere il patrimonio, impedendo che possa degradarsi nella sua struttura fisica e nel suo contenuto culturale, per questo prodigarsi a garantirne la conservazione per consegnarlo inalterato alla posterità.

In questo articolo si riporta la definizione di centro storico e centro antico, esprimendo quale possa essere una definizione “embrionale” di centro, spalleggiato tra la L. 1497/39, e la Legge ponte n. 765/67.

Diversamente dalle aree libere sono inedificabili fino all’approvazione del piano regolatore generale; L. 1497/39 art. 1 c.3: i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; Diciamo che la necessità di tutelare e diversificare la disciplina di queste zone si è affermata sempre più, diventando prioritaria a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando ormai si era praticamente conclusa quella stagione di trasformazione edilizia che non ha guardato in faccia a niente e nessuno.

Furono infatti emanate norme sempre più rivolte al recupero del patrimonio esistente, vedasi la L. 457/78 e la L. 179/1992.

Speculazione e abusivismo edilizio continuarono il loro corso, e fu così che per arginarne gli effetti si rese necessario emanare alcune leggi particolarmente rigide come la L. 431/85, meglio nota come Legge Galasso.

Nella stessa L. 431/1985 fu statuito espressamente che tale estensione del vincolo non si applicasse a: Comuni provvisti di PRG: nelle zone A e B e – limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione – alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del D.M. 1444/68; Comuni sprovvisti di tali strumenti: ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.

Il vero problema non nasce per i vincoli di natura paesaggistica (Parte III del Codice), bensì i vincoli di natura di beni culturali (Parte II del Codice).

Infatti secondo il D.Lgs. 42/2004 si devono considerare tutelati fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario, che spesso risulta compiuta in fase di redazione o variante generale di uno strumento urbanistico comunale (Piano Regolatore).

Allo scopo si fa riferimento a spazi pubblici, quali vie, piazze, vicoli e le relative prospettive, dove prevale una sostanziale coerenza coi vincoli “tipici e paesaggistici”.

A quanto pare il Codice dei Beni Culturali D. Lgs. 42/2004 ha rinvigorito la valenza culturale di questi spazi pubblici, e lo ha fatto, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell’articolo 10 del Codice stesso.

Stiamo parlando della parte II del Codice, cioè quella impropriamente detta per gli immobili vincolati “alle Belle Arti”. Più correttamente si deve dire dei beni culturali, da tenere distinta dalla parte III dei vincoli paesaggistici.

Rinvio ad apposito approfondimento e consigli trattandosi di aree ad alto valore e pregio storico identitario, di bellezza e architettura irripetibile, diviene necessario verificare la presenza di vincoli di ogni tipo, su immobili situati in centro storico e assimilati da normative regionali o strumenti urbanistici comunali che ne tutelino anche il valore ambientale.

 P.S.  Ascoltate e se avete saggezza residua traducete, capirete il senso delle cose:

https://www.youtube.com/watch?v=kmggw1sM9rY

https://www.youtube.com/watch?v=dcjec7WZ41s

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L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

Posted on 17 luglio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le eccellenze nate in Terra di Sofia, storicamente, non hanno mai avuto il giusto riconoscimento in ogni dove, siano stati esempio per le generazioni a venire, specie in quella terra dove videro per la prima volta luce, per avere innestati i raffinati sentimenti vicino al cuore e alla mente.

E chiunque abbia guidato la comunità, in ogni aspetto civile e religioso, li ha sempre ignorati, preferendo quanti vivevano ai margini e del loro sapere perché niente e nessuno avrebbe potuto trarre, spunto per migliorarsi o rendere merito alla comunità di genio citeriore.

Questo è un dato di fatto che alcuna figura, con un minimo di senso ed educazione culturale, dovrebbe proferire parola o difforme parola, alla luce delle tappe storiche qui brevemente annotate.

Se oggi servisse definire i termini delle eccellenze, o l’evoluzione del costruito storico del violato centro antico in Terra di Sofia, non si commette errore nell’affermare che le maestranze, in campo edile, analizzando il costruito storico, non erano o non sono mai state locali, anche se le scelte specie dal XX secolo, erano una prerogativa, ben distintiva dei muratori che non erano altro che contadini in ferie.

Questa prerogativa ha da sempre caratterizzato le cose del costruito, con gusto e giusta causa storica, delle Terre di Sofia, a ben vedere e osservando con titoli i palazzi nobiliari costruiti dalla fine del decennio Francese.

Tutti seguono una impeccabile progettualità nei tratti e nei significati dell’architettura dell’epoca e, in questi anfratti tardarono di alcuni secoli prima di apparire, grazie all’economia in ascesa.

Vero è che il centro antico prende forma e sino a qualche decennio addietro, poteva essere facilmente letto e interpretato sin anche di comunemente, oggi per opera di un esperto locale e basta.

Tuttavia la necessità risorte degli anni sessanta del secolo scorso hanno penalizzato numerosi edifici del centro antico, per la quantità di risorge che arrivavano dal duro lavoro degli emigrati economici di quell’epoca e, mancando ingegneri architetti e manovalanze specializzate, seguirono numerose imprese allestite per rispondere al mercato, ma non certo a quello che faceva testo nella Carta di Venezia, che in queste latitudini resta ancora ignota.

Per dare una misura di cosa tratta, è la stessa che in questi giorni si ode nei telegiornali, degli ignari che segano le loro iniziali nel Colosseo o nei monumenti storici Italiani, scalfendo le minimali superfici.

Bisogna attende il sorgere del sole ad est, precisamente a Serra di Zhòtë, per vedere un imprenditore edile, il quale con forza d’animo, fatta di umiltà e buoni propositi inizia ad edificare con senso e meglio, le cose nuove di questo antico luogo.

Una mente di eccellenza imprenditoriale in periodo è l’insostituibile E. Azzinnari ,che per il suo spiccato spirito di onestà, organizzava nei minimi dettagli i suoi diffusi cantieri in Terra di Sofia, disponendo specifiche professionalità nei settori strutturali, edili, impiantistici e delle rifiniture, dovendosi a suo giudizio, porre in essere, senza lacuna di sorta.

L’Azzionnaro, per questo si dedicò a progetti di interesse sociale e privato seguendo i suoi elevati e raramente qualche esempio persone a lui vicine.

Le cose private, per questo, terminarono nelle disponibilità di numerosi addetti, che incisero pesantemente nella consistenza di Solai, Architravi, opere Fondali e Coperture, per il fine di superfetare e volumizzare.

In seguito definite le misure delle nove case private, ebbe inizio la stagione del veicolare ogni anfratto ameno, storico o memoria locale, smantellando, sedili, porte, piani inclinati e ogni sorta di caratteristica che rendeva la terra di Sofia un Katundë Arbër parallela, proprio per le sue eccellenze di luogo.

L’ennesima trasformazione venne cosi allestita e, il Katundë, abbagliò sin anche il monte Mula, con i colori pompeiani e di chissà quale altra radice indigena, immaginata gratuitamente, nel mentre all’interno del centro antico uhda. dera e rrugat, per opera dei rinnovati amministrati, privati, pubblici e clericali, vide stendersi il centro storico, fuori dalla misura e le memorie locali, da allora silenziose, umiliate e lasciate inlacrime.

Negli anni sessanta e settanta i solai, i muri, le coperture e le fondazioni; negli anni ottanta e novanta, porte finestre; e dal duemila senza soluzione di continuità sono mira dei veicolatori seriali e come se non bastasse si continua imperterriti a seguire la regola del non rispetto dell’insieme comune.

Le stese che pur apparendo al pubblico inattaccabili nella intimità costruttiva, si utilizza violarne le patine esterne, come fa l’acqua quanto deve sfondare o bucare i duri lapilli.

Notoriamente tutti conosciamo la prassi che inizia goccia a goccia e cadere sugli strati lapidei, il tempo nel frattempo fa da testimone, fino a vedere passare l’acqua, senza frontiera, dall’altra parte, in tutto, piccoli strati di muro violato, per entrare in casa d’altri e fare il padrone non invitato.

Ma questa è un’altra storia, il cui approfondimento, ha bisogno di verifiche, come dicevamo prima il tempo, per questo, aspettiamo, per scardinare goccia a goccia i Scoroni che ballano, suonano e cantano in pubblica piazza senza merito.

Per concludere sottolineare un dato storico senza precedenti, non è male, don Carlo chiese a chi affidare il realizzare la recinzione del suo palazzo; gli fu risposto, anche se dovesse costare il doppio Pjgionitë, ormai sta chiudendo, almeno rimane un pezzo del lavorare il ferro, in terra di Sofia e cosi fece.

P.S. In memoria di Han van Meegeren: il falsario del XX secolo

P:S: corse in piazza con il bastone in mano e disse: chi di voi tocca la porta o il quadro dell’altare, deve discutere con il muso del mio bastone… poi voltò le spalle e torno nella sua seggiola a immaginare la recinzione da farsi.

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VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI TRASCORSI CALABRESI LOCALI DEGLI ARBËR

Posted on 15 luglio 2023 by admin

10380838_867214309955501_7137936416165119763_oNAPOLI (di Atanasio pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolare “Arbëria” per riferire dei luoghi dove la comunità Arbër, ha disteso il proprio bagaglio consuetudinari di genio, ambiente mai inteso come Stato geopolitico, ma esclusivamente come gioiello territoriale, perché Regione Storica, esperimento  di accoglienza e integrazione irripetibile, perché senza alcun cenno di prevaricazioni di genere e di conquista.

Il rispolverare il senso del lavoro fatto a seguito del pellegrinare locale, pubblicato a suo tempo in diverse località, è un compendio di annotazioni disegnate, a giudizio dell’artista, di una credenza smarrita, senza avere consapevolezza dell’epoca dei fatti avvenuti e trascorsi.

I dipinti, ritraggono i Katundë Arbër, con grande finezza di monito da parte dell’artista rivolto agli Arbër, una linea che assume la forza di una frustata, per ricordare cose che lui stesso non conosce e a cui non sa dare valore di tempo e di luogo per la luce di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato come struttura edile antica fatta di ingredienti, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, esse rendono la misura dell’abbraccio delle genti che secondo, l’artista a torto, avrebbero dovuto seguire la piega di credenza di quanti rimasero a guardia dei confini.

Il grande maestro, di formazione occidentale, testimone e interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, ha saputo coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio identitari, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, restituendo il senso materiale e immateriale delle comunità Arbër, quella unica e irripetibile, la storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli arbëreshë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere che non sono urla diffuse dai minareti, che poi modellarono, la tempra in terra madre.

Un itinerario artistico, che diventa, atto d’amore verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio storico condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto diffondere minareti inesistenti.

Il sangue non mente e per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore, dal monte mula che guarda verso il tirreno, dove l’antica Acqua Bella scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Raganello, a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, qui conosce le pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie, ha terminato per essere inteso come favella di abusi antropomorfi civili e religiosi in contino favellare cose strane.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della carmina convivalja, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove si osserva la piana di Sibari, dal Crati al Trionto, la terra che dette i natali nel vate Arber son faro, o pietra su cui si erge maestosamente, l’intimità culturale senza più vesti di minima decenza.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità sta tutta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco ancora lungo il suo viaggio nella nuova religione Bizantina, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità albanofona d’Italia, la più esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da ricordare in minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivjali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta dei propri eroi.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché  modello aperto….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno il doppio……

P.S. Lo Shashi non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è lo SHESHI

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Catturaii

RIFINITURA DEI PALINSESTI STORICI CULTURALI NELLA REGIONE STORICA ARBËR/N

Posted on 12 luglio 2023 by admin

   Catturaii

 

“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “

“La Regione Storico degli Arbër”

(radici di Ieri, certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)

Per un più completo palinsesto storico culturale dell’estate in corso, in attività che promuovono e rilevano la storia, le cose, il genio, i costumi, le chiese, le case l’ambiente naturale dei Katundë Arbër/n, onde evitare divulgazioni, prime, seconde, terze, ecc., ecc., ecc., si propone secondo studi e analisi comprovate, i temi seguenti univocamente, solidamente definiti e comprovati all’ausilio multi dipartimentali di antica radice:

 

  1. Paese “Borgo”, o in Arbër/n, è Katundë;
  2. Rione e Quartiere, o in Arbër/n, Sheshi;
  3. Centro Antico dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  4. Piazzetta in Arbër/n, Sheshë;
  5. Vicinato, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  6. Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  7. Il valore storico dei sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  8. Municipio, Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  9. Il costume da sposa, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  10. Prospettive violate e porte vituperate in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  11. Sheshi Passionatit, memoria di cuori violati Arbër/n;
  12. Tutela dell’idioma principi e progetti sostenibili;
  13. Urbanistica e percorsi evolutivi dell’abitare secondo regole le regole Kanuniane;
  14. Chiese Bizantine, Cistercensi e del sorgere de tardo medio evo;
  15. Il collegio Corsini e le tappe degli ecclesiasti Arbër/n;
  16. La primavera degli Arber/n e la sua battaglia evolutiva;
  17. Gli uomini Primi, Secondi e ultimi dell’illuminismo Arbër/n;
  18. In Arbër/n, Gjitonia in Italiano luogo dei cinque sensi;
  19. Se un Katundë non ha: Kishën, Bregunë, Sheshin e Ka Rrin Rellëth, è Borgo con murazioni fossati e moschee;
  20. Ori addobbi e titolati alla vestizione e all’esposizione quale sposa e regina della casa;
  21. I Nascituri, Infante, Fanciulli, Donne, Spose e Madri;
  22. Giuochi, Innamoramenti, Fidanzamenti, Matrimoni e Famiglia: i tempi della Vestizione;

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LA TUTELA DISARMATA

PERSO GLI ATTREZZI, LA MEDICINA FU AFFIDATA AL PICCOLO DI FAMIGLIA (u bë jatrùa thëarbërvet i birj më i vìkèrë)

Posted on 11 luglio 2023 by admin

LA TUTELA DISARMATA

Questa lettura è consigliata a quanti vivono vicino al cuore…………….. gli altri misurino distanza, tanto, altro non fanno

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La vera storia degli Arbër/n, emergerà solo quando tutte le figure buone, siederanno attorno ad un tavolo e daranno  il meglio di sé, senza utilizzare balconi, piazze con in pugno attrezzi da lavoro per cambiare cose; il solco è stato già tracciato dai nostri avi, esso è solido leggibile e diritto, va solo seguito interpretando gli scenari che attraversa per comprendere e diffondere storia lucente.

I trascorsi degli Arbër/n sono una terapia di guarigione per un malato terminale, per questo diventa medicina, motivo per il quali chi deve prescriverla, chi deve somministrarla e chi deve seguire l’andamento migliorativo del paziente abbisogna dei fondamentali principi nel saper riconoscerne, per tempo, distinguendo nel corso della terapia, gli effetti benefici di rinvigorimento, dai collaterali appariscenti, o eventuali malevoli terminali.

Sono ormai trascorsi abbondantemente due decenni nell’ascoltare cose, teoremi e divagazioni a dir poco inopportune, attribuite agli Arbër e, per onorare le persone che diventassi architetto, al fine di risolvere i numerosi interrogativi, del confusionario modo di intendere la regione storica degli Arber, fuori dall’esperimento linguistico, ho dato seguito a questo componimento primo.

Era il sette luglio del 2003, e lì in via Epiro, uno strano sempre più crescente vociferare, attirò l’attenzione e, mescolati alla platea che seguiva, nella sala consiliare del non più paese, una divagazione relativa al principio di Gjitonia era esposta a modo di giaculatoria alta.

Visto e considerato, il riferito del tema interessava dei luoghi natii, a un certo punto nell’ascolto, non si sapeva se ridere o piangere per le cose del passato, in quel contesto storico colmo di storia sino a quel momento incontaminato dalla vergogna.

Qui in questo medio breve, saranno per questo, analizzati con senso di semina per le generazioni future, essendo le acerbe da allora in voga, mai scese dalla cresta dell’onda, inadatte, inopportune o a dir poco ironiche, nel distinguere grano e fatuo, (in Arbër/n; Grùrë e Hellëph thë égher) foraggiando ogni cosa con espedienti senza arte, perché il risultato voleva, l’entusiastica massa distratta, essere presente per mormorare e null’altro.

D’altro canto  tracciare storia secondo studi specifici supportati dl estesi curriculum, ogni genere di cose materiali immateriali, consuetudini, costumi e attività tipiche delle genti che vivono, perché hanno costruito, meritando la regione storica diffusa degli Arbër/n, prima o poi deve emergere e se così  è trascorso troppo tempo.

Pur essendo stata difesa la distruzione di un Katundë in solitaria attività, grazie ai diffusi enunciato solidi, del costruito storico, del sociale e le figure che hanno reso famosa la minoranza in tutto il mondo.

Nonostante ciò ancora oggi esistono figure che dall’alto dei balconi, impongono manchevolezze culturali,  con argomenti Arbër/n, in parlato tipico della storica questione Albanese; a ben vedere i  titoli menano verso discipline, marginali senza completezza,  in altre parole emblema di chi con ironia compose, minareti mussulmani, sostituendoli ai campanili delle chiese greco bizantine e, quanti non capirono, li appellarono case che parlano alla luna crescente.

Premesso quanto, si vuole dare senso di tempo, luogo, uomini e genio specifico, nell’utilizzo comune di sostantivi, almeno i basilari, o meglio i fondamentali al fine di fornire certezze al comunemente diffuso, per fini turistici e televisivi, tra i quali:

  • Paese definito “Borgo”, in Arbër/n, è Katundë;
  • Rione equipollente a Quartiere, in Arbër/n, Sheshi;
  • Centro Storico e l’ignoto Centro Antico germogli dei Katundë, ovvero Ka Rrin Rellëth;
  • Piazzetta che non è, in Arbër/n, Sheshë;
  • Vicinato che, in Arbër/n, non è Gjitonia;
  • Comignoli solitari di un luogo e gli antri Arbër/n a fare fuoco in mezzo alle case;
  • Battaglie vinte a Pasqua, ballando la vittoria; in Vallja;
  • Restituire senso e valore storico ai sette giorni di agosto in Terra di Sofia
  • Comune, ovvero Bashkia in Albanese, in Arbër/n, Kushëtë;
  • Il costume da sposa, non per infanti, in Arbër/n, il Raso dei due filamenti di Casa e di Chiesa;
  • Case Parlanti, in Arbër/n, thë ngruitura pà trù;
  • Sheshi zìesh Clementinesë, memoria di un amore proibito Arbër/n;

Questi chiaramente sono solo alcuni, o meglio i più vergognosi, da correggere nel breve termine e, dei quali si fa uso gratuito, privandoli dei minimali adempimenti di rispetto, dal punto di vista storico, sociale, consuetudinario, senso e rispetto del passato, vera e propria devastante deriva che termina anche le alte cose.

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LA MACINA IN PIETRA DI CORONE E MOREA TRITURA IMPERTERRITA LE COSE ARBËR Burràthë cë nenghë nderognën me motinë

Posted on 08 luglio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando si leggono le variegate disertazioni che compongono la legge 482/99, la mente torna nelle vicende di memoria enunciate come “Questione Albanese”, le stesse che dalla fine de XIX agli inizi del XX secolo non trovano solidità.

Tuttavia a ben vedere, quelle anomalie sociali sono contemplate nel 1999 come esigenza da tutelare Albanese, disertando così volutamente, l’emergenza della Regione storica diffusa degli Arbër/n, i quali perché Italiani, sono stati lasciati scientemente fuori dalla tutela dei legislatori del 99 che non riportavano in alcun modo l’appellativo della Minoranza.

L’indistruttibile modello sociale, denominato Arbër/n, il codice fatto di cose materiali ed immateriali, unitariamente legate con un ben identificato lugo naturale, è stata preferita una mera Questione linguistica Albanese moderna.

Per conferma pregnante e definitiva non servono luminari o addetti specificamente preparati, in quanto tutto appare chiaro appena si darà seguito all’inerpicarsi della Salita della Sapienza, per recuperare e valorizzare, finalmente, l’irripetibile scrigno di cose uniche e preziose che non sono certo depositate in Albania.

Non è da Corone o da Morea che essi provenivano, come di solito si ode cantare. Perché, non sono altro che i natii delle colline dove passa la via“Egnatia”, semplici e durevoli generazioni che affidano la forza nei valori all’accoglienza e il conforto nei riguardi di quanti lì transitassero per recarsi nel palcoscenico delle Ragioni di Credenza.

La minoranza storica degli Arbër/n non è “Arberia” sinonimo di stato, per questo, l’appellativo che si addice esclusivamente a quanti oggi vivono la Nazione moderna dell’Albania, quella eretta e istituita dopo l’aver affrontato l’annosa Questione Albanese tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che solo da qualche tempo si è deciso di valorizzare a scapito degli Arbër/n.

Sono gli attori della “Regione storica diffusa Arbër/n”, la penisola più accogliente del mediterraneo perché italiani e, quindi liberi pensatori, che avrebbero dovuto essere tutelati e citati nella legge detta, perché sono essi gli unici a conservare valori antichi rispettosi delle terre e le genti della discendenza.

L’ Arbër/n non è un Albanese italianizzato, essi sono i portatori sani di un modello antico; sono in pochi ad avere la fortuna di ereditare, comprendere, proteggere, per poi riverberarlo i cinque sensi alle nuove generazioni con la stessa radice pura di sei secoli orsono senza che nessuno li piegasse ad altrui mire.

Si è iniziato con il numerare le migrazioni con bauli libri e costumi come se nelle emergenze più estreme le cose di valore non è la propria vita, ma, vestizioni femminili al cospetto degli altri,

Personalmente ritengo che chi fugge perché in pericolo, non porta altro, che il proprio corpo, il cuore vivo, la mente pieno di amore e ricordi; null’altro.

Chi fugge dalla disperazione non va per mari e per monti per disperdersi o nascondere la sua ragione, ma segue strade, sia per mare che per terra, solo qui poteva diffondere e segnare il tempo con la propria ragionevole esperienza, affinché non si ripetesse e coinvolgesse altri.

Gli Arbër/n, sono stati, per la loro posizione storica e geografica un popolo, sempre sottomesso e diretti da altri, infatti: Romani con l’Impero d’Oriente, Normanni, Serbi, Veneziani e Turchi senza respiro sono stati l’eterna fucina senza incudine e martello.

L’epopea di Giorgio Castriota fu uno sprazzo di vivida luce, che interruppe solo per breve tempo il ciclo uniforme della tradizionale sottomissione, tuttavia, grazie al solco da lui tracciato, gli Arbër/n ebbero modo di conservare le dritte cose.

Infatti il dominio straniero non ebbe efficacia di assimilazione o attecchito cose agli antichi abitanti delle terre oltre adriatico poste ad est, segnando la parte più esteriore dell’anima e del corpo, che senza soluzione di continuò allora come oggi, proteggere i sensi il cuore e della mente, denotando negli albanesi un valore figurativo esterno che denota la piega di fucina.

Diversante dalla completa fierezza esterna e interna, materiale e immateriale che contraddistingue degli irriducibili Arbër/n del modello Kanuniano, che costringevano i conquistatori a limitarsi alla semplice custodia, delle vie di transito e non certo diffusamente all’interno.

Storicamente, la supremazia straniera non si estese dunque all’intera Albania, che rimase, in massima parte, come una regione isolata nell’ordine politico e nell’ordine sociale.

In particolare, poi, il dominio ottomano ebbe molti riguardi per queste caparbie dinastie diversamente dalle altre genti balcaniche con atti di oppressione e repressione.

Entro l’Impero della mezzaluna Arbër/n non erano né grandi né ricchi, tuttavia il popolo, relativamente uniforme rimaneva permanentemente suddiviso da discordie interne, difendendosi con ogni avverso con l’uso dei codici identitari mai svelati.

Carattere, costumi, linguaggio, credenze, culto fiero dell’indipendenza, si presentavano come prerogative albanese, immutate e prolungate attraverso secoli.

Nondimeno, il consolidarsi di nazionalità spiccate e fortemente assimilatrici non poteva rimanere immune rispetto allo sviluppo politico e sociale soggetta al Turco più per dominio formale che effettivo.

Così, a nord l’orbita serba attirava misure montanare dei Gheghi, in parte stanziati anche nel Montenegro, Mirditi e Dibrani; a sud dal fiume Skumbi o Skumbini l’orbita ellenica, poté assicurarsi la supremazia dei Toschi alimentando divergenza di interessi tra i due poli e l’Albania centrale.

Una sorta di regione neutra tra due stirpi e, nel contempo debolezza diffusa per l’intero paese, protetta marginalmente da una cintura di ostacoli natura verso l’esterno.

Il Castriota fondò la sua opera politica grazie alla posizioni di Kruja , di Elbasan e di Berat, dalle quali tenne a soggezione l’alta Albania, Musakia, Acroceraunia, Tepeleni ed Argirocastro e grazie a questa posizione poté realizzare quel solco politico che oggi sfugge alle attenzioni delle istituzioni, nonostante il presidente Mattarello lo metteva in evidenza nel suo discorso a San Demetrio, appellando la regione storica diffusa degli Arbër/n il modello più longevo di accoglienza e integrazione mediterraneo.

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