NAPOLI (di Atanasio pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolare “Arbëria” per riferire dei luoghi dove la comunità Arbër, ha disteso il proprio bagaglio consuetudinari di genio, ambiente mai inteso come Stato geopolitico, ma esclusivamente come gioiello territoriale, perché Regione Storica, esperimento di accoglienza e integrazione irripetibile, perché senza alcun cenno di prevaricazioni di genere e di conquista.
Il rispolverare il senso del lavoro fatto a seguito del pellegrinare locale, pubblicato a suo tempo in diverse località, è un compendio di annotazioni disegnate, a giudizio dell’artista, di una credenza smarrita, senza avere consapevolezza dell’epoca dei fatti avvenuti e trascorsi.
I dipinti, ritraggono i Katundë Arbër, con grande finezza di monito da parte dell’artista rivolto agli Arbër, una linea che assume la forza di una frustata, per ricordare cose che lui stesso non conosce e a cui non sa dare valore di tempo e di luogo per la luce di credenza.
Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato come struttura edile antica fatta di ingredienti, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna.
Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, esse rendono la misura dell’abbraccio delle genti che secondo, l’artista a torto, avrebbero dovuto seguire la piega di credenza di quanti rimasero a guardia dei confini.
Il grande maestro, di formazione occidentale, testimone e interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, ha saputo coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica.
I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio identitari, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.
L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, restituendo il senso materiale e immateriale delle comunità Arbër, quella unica e irripetibile, la storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.
Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli arbëreshë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere che non sono urla diffuse dai minareti, che poi modellarono, la tempra in terra madre.
Un itinerario artistico, che diventa, atto d’amore verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio storico condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto diffondere minareti inesistenti.
Il sangue non mente e per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria.
Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore, dal monte mula che guarda verso il tirreno, dove l’antica Acqua Bella scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.
Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Raganello, a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, qui conosce le pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.
Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie, ha terminato per essere inteso come favella di abusi antropomorfi civili e religiosi in contino favellare cose strane.
Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della carmina convivalja, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.
L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove si osserva la piana di Sibari, dal Crati al Trionto, la terra che dette i natali nel vate Arber son faro, o pietra su cui si erge maestosamente, l’intimità culturale senza più vesti di minima decenza.
Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità sta tutta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.
Ecco ancora lungo il suo viaggio nella nuova religione Bizantina, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.
Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità albanofona d’Italia, la più esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.
Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da ricordare in minareto.
Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.
Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.
Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.
P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivjali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta dei propri eroi.
P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello aperto….
P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno il doppio……
P.S. Lo Shashi non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….
P.S. Il Rione è lo SHESHI