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ED ECCO APPARIRE ALL'ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

ED ECCO APPARIRE ALL’ORIZZONTE DI APPRODO LA CAPITALE DEGLI ARBË PER QUANTI DILETTANO CRESCERE CODE IN ARCHIVIO (Duali edè Mesj i Katundëve Arbër)

Posted on 17 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le istituzioni, l’organizzazione e le curiose considerazioni sversate verso la Regione storica diffusa degli Arbër, ad oggi, perché poco conosciuta o per meglio dire maliziosamente velata, per meglio dare spazio e lustro a ignari osservatori stranieri, parlanti e non.

Questi che fug­gendo dalle miserie e le turbolenze delle loro contrade di provenienza, si sono illusi di trovare, altrove,  pace, sanità o quiete mentale; quella che sotto il nostro immenso tetto di accoglienza e rispetto per lo straniero, come disposto dalle consuetudini, le migliori che onorano l’umanità; per  ignari fosforescenti luminari, sono stati intesi come arretratezza culturale, traducendo le nostre fondamentali attività di rispetto dell’ospite vagante, in prostrazione, ignoranza o inadeguatezza di cogliere cose della storia che ci appartiene.

A ben vedere ciò che allo straniero, appena colto è sfuggito è il rispetto, o meglio, il decoro della, ingiustamente, malmenata patria, la quale, siccome storicamente non usa un libro di manuale ne usa stendere al sole pubblico le proprie intimità, o stato fisico delle cose, a quanti volessero deliziarsi di materiali curiosità, diventa impossibile per lo straniero errante trovare le notizie che rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole solo a un Arbër.

Questo è lo scopo che si vuole con­seguire col il presente lavoro e, chi volesse apprendere deve leggere così può conoscere cosa è la nostra regione storica per capire anche cosa è una capitale, e diventare giudice esterno pubblico e imparziale.

Nel comune conversare, pubblicare e diffondere le cose che dicono siano parte essenziale delle regioni, di quella lingua di terra che si insinua, fiera nel mediterraneo centrale, manca sempre il concetto di guida capitale.

Si riferisce per non seguire la scia incompiuta delle terre che segnano i contorni della Regione storia diffusa degli Arbër, qui accade spesso che quanto si fa la conta, dei centri abitanti di questo insieme diffuso, questa varia e si modifica, seconda del bimbo in età scolare che conta, e secondo dell’impegno e la volontà che in genere hanno gli scolaretti, la conta varia da ventisette a cinquanta, senza mai comunque contemplare mai capitale, per cui dovrebbero essere solo paesi senza una regola.

O meglio se volessimo essere severi, come avrebbero dovuto fare molti, anzi, troppi maestri della età scolare vissuta, si sarebbe dovuto iniziare prima indicando una capitale e, poi la variopinta conta, di Casali, Borghi o fossati con ponti levatoi in difesa.

Questi generalmente un elenco di sostantivi di aggregati urbani, senza tempo epoca e senso, in tutto una regione culturale priva di contenuti identitari, palesando, che l’insieme culturale al centro mediterraneo è resta ignoto agli attori, o meglio a quanti fanno il mestiere di comparse culturali.

Mai nessuno ha saputo contare e spiegare perché la regione storica è composta da 109 agglomerati edilizi paralleli edificati dagli Arbanon, a cui sia stata mai aggiunta aggiunge la capitale che dal IV° secolo, prima di Cristo, senza soluzione di continuità, si esprime con la metrica dell’idioma Arbër.

Nessuno espone mai i motivi perché siano stati edificati o quale esigenza ha intercettato proprio quei luoghi e chi li ha circoscritti in ventuno macro aree.

Ad oggi non vi è alcuna consapevolezza del dato fondamentale che Napoli sia la capitale di questa regione storica, irremovibile, o dei morivi che la determinarono e fecero scaturire il protocollo di accoglienza e integrazione di un numero rilevante di minoritari, i quali con educazione dei fatti della storia non si sono mai sovrapposti o insediati in luoghi appartenenti o dove vissero altri popoli ancora presenti.

Chiese, conventi edificato civile, luoghi di confronto, percorsi articolati, farmacie private, vicoli articolati e supportici completano il senso della capitale dald0le per diritto l’inclusivo numero di 110.

Vero è che proprio in questo luogo antico si evidenziano per la prima volta le forme Alessandrine, importate dalle regioni del Nilo bizantino, menzionato, immaginato e, mai smesso di formarsi, parlando solo ed esclusivamente la lingua antica, avendo come riferimento le tipiche disposizioni urbanistiche e architettoniche, mai compromesse e ancora presenti nella capitale così come nei restanti 109 Katundë.

Napoli per questo è il luogo dove storicamente, tutte le eccellenze dei paesi Arbër si sono formate, riverberando poi il loro sapere senza eguali in tutto il globo, luogo illuminato e illuminante, che senza soluzione di continuità da oltre un millennio è ritenuto porto sicuro per la formazione degli Arbër, provenienti da ogni parte della regione storica.

Un luogo dove il tempo non consuma la consuetudine, l’idioma, il genio, la religione, i costumi, le buone intenzioni sociali degli uomini, perché qui tutto viene opportunamente tutelato per il futuro delle generazioni a venire.

È a Napoli che nasce la prima università che doveva tutelare l’idioma degli Arbër e non come avviene nell’enunciato della legge 482/99 dove si tutela la lingua moderna di quella terra abbandonata dalla metà dei residenti proprio per evitare le regole della su citata legge.

Oggi purtroppo e con rammarico duole affermarlo, con dati di certezza, l’essere forgiati a valorizzare gli ultimi, ovvero quelle figure, che hanno fatto danno in tutto l’ottocento, sino agli inizi del novecento, rimanendo perennemente scolaretti a cui venivano oltremodo corretti i compiti stilati in malo modo, perché capaci solo di accompagnare la mula che doveva far ruotare la macina ed essere inutili accompagnatori di quadrupedi da traino in luogo circoscritto.

Mentre ne contempo a Napoli educati e discreti esperti professori delle diplomatiche delinearono le linee guida della lingua degli Arbër, mai da nessuno comprese per essere arricchite, interpretate e divulgate, anzi utilizzati vilmente per attribuire colpe di una infamia senza precedenti.

La conferma che la metropoli partenopea sia Palepoli che Neapolis, non sia una cattedra a misura dei comunemente, lo racconta l’episodio qui citato per grandi linee, avvenuto poco tempo addietro, i cui protagonisti abituati a esporre argomenti e cose a platee di incultura o mediocre formazione, hanno dovuto correre ai ripari e cambiare titolo all’evento.

Questi mai approdati nella capitale nel trasferitisi, a presiedere un evento a dir poco inopportuno hanno dovuto piegare la loro debolezza culturale, “del discorso di tizio” poi rendendosi conto della presenza di una saggia platea, cambiare registro e seguire i consigli di chi sedeva nel fondo della sala, che con saggezza e garbo suggeriva di variare il tema e riferire “con il sottratto di tizio, a spese di sempronio” oltremodo quest’ultimo lasciato in pena ad essere ancora inforcato un’altra volta idealmente, perché di questo luogo resta a tutt’oggi resta figura illustre e complicata da comprendere per la mandria approdata nella capitale.

La figura rima della storia culturale degli Arbër, qui in questa nota su citata, oltretutto è la stessa che tracciò nel 1765 le prime trame dei sostantivi linguistici spiegati e grammaticalmente riportati, mai compresi capiti e saputi leggere da alcuna figura, o addetto preposto di questa storica e incompiuta grammaticale.

La stessa ripresa dal figlio di questi, con garbata educazione e fine riferimento, cercando di far emergere per essere diffuse, nel 1860, analizzando e diplomaticamente confrontando, documenti e attività, che doveva avere come risultato, quanto non era stato mai prestito, ma vere e proprie rapine di documenti, ricambiati con pene di studio, le stesse che restano, ancora accatastati, in chissà quale scaffale privato, preferiti lasciarli marcire, in quanto conferma scritta.

La capitale degli Arbër è il luogo ideale dove apprendere come vivere e apprendere atteggiamenti e principi, per dare solida continuità alla patto che gi Arbër hanno fatto con la terra di origine; la capitale è il luogo dove per fare abiti femminili di rappresentanza e da sposa, si tessevano, seta e cotone in egual misura; la prima per dare lucentezza e la seconda per imprimere memoria di piega; la capitale è il luogo dove la mente degli uomini produce cose buone e le strade portano il nome delle più antiche attività; la capitale ha le chiese orientate per rispettare la maggiore che indica l’origine di provenienza e di credenza degli storici abitanti.

La capitale è un luogo da vivere e non per appuntare gli episodi e le persone care del passato solcandone o sminuendone la memoria con fatica e pene fuori misura; la capitale non si disegna sui muri degli elevati della memoria, perché le cose vanno vissute e dare continuità agli uomini migliori che hanno saputo distinguersi.

La capitale non è uno sversatoio pubblico dove fare cumuli per galli che segnano il tempo, abbagliati dal sole; la capitale non è neanche un lavinaio dove indossare la parte meno nobile del vestito da donna e andare china e schiena agli ospiti, esaltandosi a ballare con la zòghà sollevata e senza vergogna dare il fiore quando si parte.

La capitale è il luogo dove se saggi con misura, avrai sempre un palco da dove esporre cose in apparenza contorte, perché chi ti è amico fraterno. Pronto ad aiutarti a estrapolare il meglio di luogo e cose.

La capitale ti accoglie anche al tempo della guerra, ti fa studiare per migliorarti e salvare gli altri, senza preferenze di genere o di ricchezza.

Va a questo punto sottolineato con forza, il dato secondo cui, è questa città ad aver dato i natali culturali alle figure più emblematiche della storia espressa in forma di puro genio, sono proprio questi ad aver seminato una realtà culturale che tutt’Europa dal XVII secolo al IXX secoli ci ha invidiato e corsi nella capitale a copiare o prendere appunti dai testi,

Cosi come hanno fatto i mediocri o meglio, gli eterni secondo, che per viltà correvano nei paesi di famiglia, a rifugiarsi per non assumersi tutolo di responsabilità o pene di carcere.

Napoli è la capitale poco dopo l’insediamento del Re Carlo III, dopo la compilazione della sua guardia privata, denominata Real Macedone, viene preferito un prete Arbër, per la guida spirituale dei suoi fidi militari, una scelta non casuale, infatti il prete venne chiamato dal piccolo Katundë di Calabria Citeriore nelle colline della Sila greca.

Nella Capitale partenopea e in particolare nel fianco ad ovest della “Cala di Chino” aveva luogo il presidio storico culturale Europeo, dove furono preparate le strategie portarono il collegio di San Benedetto Ullano a Sant’Adriano.

L’opera irripetibile, o meglio scissa oltre un secolo dopo, venne sostenuta e proposta caparbiamente ad opera del Baffi, i Bugliari e del Bellusci, con il vile a remare contro e pensare terminazioni dei liberi pensatoi, gli stessi che con la loro opera consentirono a Garibaldi il passaggio senza confronto, nelle terre in Calabria citeriore e non solo.

E sempre nella capitale che venne pensato, progettato e poi realizzato il primo ponte al mondo, su catenarie e pilastri singoli, che lasciò senza respiro la migliore ingegneria europea dell’epoca, che sperava di vedere il re cadere nel fiume e bagnarsi le vesti dal pubblico corso solo per questo risultato, che come ben sanno gli autori, l’opera ancora oggi resite alle innumerevoli battaglie degli uomini e del tempo.

Sempre nella capitale della Regione storica diffusa degli Arbër nacquero i primi giornali e settimanali con gli inserti di cultura, avvenimenti e costume, al fine di rendere merito alla cultura diffusa iniziando dal basso, o porre le basi canore delle manifestazioni oggi ritenute a torto memorie di battaglie e guerre cruenti.

Le vicende che confermano che la capitale degli Arbër, che tutelano il nostro patrimonio identitario in esilio perenne è “NAPOLI”.

Se alcuno, avesse dubbio o ripensamento, è solo da considerare al pari di quelle figure estranee segnalate in premessa, se poi la loro caparbietà vuole ragione, venite a Napoli: ma questa volta non come ospiti, ma allievi con il ricamo a contorno del collo, come quello appeso al muro, mi raccomando non dimenticate di apporvi il fiocchetto blu sopra il grembiulino.

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VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

VALIJE” ABRACCI DI UNA INTEGRAZUINE A BUON FINE O FESTA DI SANGUINARIA BATTAGLIA VINTA? (Mëma thòi ezënj Vale Vale)

Posted on 13 aprile 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nelle trattazioni pubblicate e oralmente diffuse, relative all’argomento Valije, non si producono altro che strappi lungo il Lavinaio e, quando trascinati dalla corrente assieme ei tronchi infruttuosi, degenera ogni cosa in banalità senza futuro, come non faceva la consuetudine tramandata per valori indelebili Arbër.

L’argomento, ormai ha superato tutti i limiti della decenza, dirsi voglia, spaziando oltremodo dal ballo, a battaglie e ogni sorta di attività, che vorrebbe la storia colma esclusivamente di attività negative, dimenticando oltre modo i tempi che furono Kalabanon, Arbanon, Arbër, questi ultimi in particolar modo, inclini a dare sé stessi per le giuste cause di amore e fratellanza.

Qui non si tratta di Pasqua, Pasquetta o giorni non comandati, non si tratta del calendario Bizantino, Giuliano, Gregoriano, Romano, del Popolo Napoletano Marmoreo o di qualsiasi odine cavalleresco in voga o alla moda del momento passato, ma a ben vedere si confondono, Cruente battaglie di sangue, con una festa, un momento di giubilare incontro, tra esuli Arbër e indigeni delle colline del mediterraneo peninsulare, per confermare lo storico patto di integrazione tra popoli con diversi e distinti attività di credenza, mai più avvenuto e concordato nelle colline o di un qualsiasi anfratto del mediterraneo.

Tuttavia a ben vedere e dare senso forte e completo a questa manifestazione è opportuno riportare quanto scriveva Pasquale Baffi nel 1775, pubblicato dall’editore anonimo nel 1835 in terza edizione, del discorso sugli albanesi, senza citare la fonte illustre che forniva quelle antichissime nozioni tradotte dal geco antico e trovate, non nella casa di Salita Sansebastiano 16, ma nello “studio al 61” della medesima cala”.

Testualmente qui riportato: “primo pensiero de’ bugliaart d’Albania che sul cadere del secolo XV esularono in Italia, quello di fondare una patria che salvasse contra al tempo, ei figli, e la propria memoria che lasciavano a loro. Non che ponessero in libri alcuna legge, ma ad imitazione di Licurgo piantavano gli statuti ne’costumi e nella disciplina per l’eternità. Essi nelle chiese su’ cui altari i più distinti impressero i loro stemmi, separarono per ogni famiglia i luoghi, e i sepolcri; e come nella patria antica, qui ancora si reputò degradato chi avesse contratte nozze co ‘ forestieri. Essi anche designarono un mese a primavera durante il quale i villaggi degli Esuli ereditari fossero aperti ad ospitare le mutue rusalles, quei grandi cori mascherati che celebravano l’antico paese e gli alti fatti che vi si erano compiuti. “

Se a queste aggiungiamo le note delle eccellenze del XIX secolo, dell’Arbër, critico musicale, Vincenzo Torelli di Maschito, del Magistrato scura Vaccarizzo e del Civitese Serafino Basta.

Questi sono alcune citazioni che chiudono solidamente l’interpretazione della Valije e, non consente in alcun modo a gratuite interpretazioni, senza fondamento storico e consuetudinario, di fare parte, con forme a dir poco inopportune del motivo di questo appuntamento, sigillo di un’integrazione solidamente portata a buon fine.

Torelli/Scura:” Nei Villaggi vivono dei ricordi delle cose gloriose della patria cantano le gesta di Miloscino, Costantino e del Castriota, cantano melodie mai accompagnate da strumenti musicali e le loro giaculatorie sono insieme di tonalità, femminili e maschili adeguatamente e ritmicamente eseguite a voce o gruppi di voci, queste attività prevalentemente erano svolte in maniera maniacale ogni giorno nel andare a svolgere le attività agro, silvicole e pastorali, durante l’esecuzione e al ritorno a sera sviliti dal lavoro.

Se a queste brevi note rilevate dal critico musicale e poi pubblicate dal noto Vaccarizioto, aggiungiamo le note storiche del “Basta”; il quadro di cosa siano e cosa sono alcune Valije e completo; vero è che non lasciando vie di interpretazione inopportune o addirittura gratuite.

Nel Volume XI Calabria Citeriore Fase I; dal titolo” Il Regno delle due Sicilie Descritto e illustrato – opera dedicata alla Maestà di FERDINANDO II: Seconda Edizione, Alla fine della Pagina 84 e l’inizio della successiva nel paragrafo: Etimologia è trascritto quanto segue: “E’ tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano di Magazzino, e nell’estremità superiore del paese ci persuadono a favore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diverse famiglie condizionate entrambe di cognome [……….]; dominate dallo spirito di ostilità, l’influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pasqua, quando solennizzavano i Piekisit (Vecchi), per venire a fatti d’arme, e sfogare i loro rancori. Le cause produttrici dei loro rancori dell’odio dei [……….], che indusse la colonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere valevoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano. Nella platea della Curia Arcivescovile con Porcile nel 1469 e San Basile nel 1510 Vien ricordato il nostro paese col nome di Castrum Sancti Salvatoris, la denominazione che apparteneva a piano di Magazzino”

A questo punto è doveroso trare conclusioni e delineare una nuova è più appropriata strategia di studio interpretativo, dell’evento Vallija, le stesse divulgate senza ragione di essere storia o atti reali che appartengono a tutta la Regione storica, la stessa che così facendo, nel breve tempo non avrà più ragione di essere annoverato e riproposto con queste inadatte divulgazioni orali.

Notoriamente il sostantivo Vale, sta ad indicare il conviviale accompagnarsi e non essere mai soli, ezënj valè-valè, raccomandavano che le nostre madri dicevano al fratello che accompagnava la sorella adulta, o un fratello più piccolo, nell’andare da un posto ad un altro, in onore e sicurezza.

Ma era anche il recarsi ogni giorno nei campi a lavorare, che era semplice da attuare soli o senza un momento canoro conviviale, ironica e stimolante canzone, di genere, specie se diretta alla propria amata o amato.

Erano proprio questo modo di procedere a rendere piacevole il duro lavoro agreste; con canti di genere come annotava Scura su indicazione dei principi del canto di Torelli, in genere ad iniziare, erano le donne a cui rispondevano gli uomini, aprendo un suggestivo e stimolante susseguirsi di ironiche e sotto intese affermazioni.

Tutto avveniva con suggestivi e cavallereschi atteggiamenti, in forma malinconica alcune volte, ma sostanzialmente ironia di genere, dove ad essere poste in evidenza, erano le gesta di uomini o donne per la particolare attitudine, non solo fisica, ma questa, pur se piacevole sempre presentata e coperta da solide velature o similitudini ambientali.

Malinconiche sì, ma la maggior parte delle volte erano abbracci ideali o dichiarazioni d’amore, nei confronti del genere amato o ambito ad essere corrisposto.

Oggi tutto è tradotto e confuso in atti di guerra gli abbracci ideali in forma di ballo sono scambiati in atti di accerchiamento e pene di o ricatti da infliggere, ma non è cosi, infatti i conduttori generalmente due maschi per lato del semicerchio, rappresentano l’uomo, ovvero l’operosità o la forza, di contro  le ragazze o donne che lo completano, rappresentano la parte gentile, ovvero il corpo che genera, da difendere equando ti avvolge tutto diventa magia e genera specie, identità: la vita di quel popolo.

Le Valie non sono una festa di un popolo bellicoso, violento e bellicoso, pronto a presidiati e ricattarti, in quanto esse rappresentano la lucentezza e contengono tutte le cose migliori di ogni Arbër, in forma di generi, costui, credenza; i colori migliori che il genio degli Arbër ha saputo selezionare per riverberare a conferma dell’integrazione e il buon fine a cui si è addivenuti per la conservazione della identità del popolo più longevo del bacino mediterraneo.

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USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

Posted on 06 aprile 2023 by admin

Colore

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Gli istituti e le istituzioni preposte alla salvaguardia della regione storica, perché poco attente alla conoscenza utile per le minimali cose da valorizzare, maliziosamente, hanno taciuto dando valore con men­daci ed ingrate osservazioni, di alcuni stranieri non parlanti, non potendo sfug­gire dalle nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade, non hanno avuto, per questo, modi di trovare altrove agio, sanità e quiete, sotto questo amenissimo clima proposto con la pro­tezione delle maliziose regole, nate per valorizzare le cose migliori che avrebbero dovuto onorarci con tutta l’umanità.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

Purtroppo così non avviene, perché siccome i preposti, furono scelti tutti di piccola statura, una volta saliti in cattedra hanno scambiato il loro ruolo immaginandolo campanile.

A rivendicare dunque il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria, rendeva necessario un sito come Scesci i Passionatit che in  forma di manuale, ne met­tesse con chiara  parsimonia lo stato fisico e morale di ogni cosa e figura, in modo che anche uno svagato lettore che vo­glia solo deliziarsi di materiali, curiosità e avvenimenti, sia co­stretto suo malgrado, a conoscere la parte morale, e trovi  nello stesso tempo quelle notizie che possano avere un posto sicuro, rendendo facile l’acquisire di tutte le comodità dilettevoli della storia e le cose Arbër.

Tale scopo si vuole giunge col presente lavoro e siate voi tutti giudici, o pubblico imparziale.

Se si esamina la storia degli interventi urbanistici nei “Centri Antichi IN Regione Storica”, si ha la misura di come in queste latitudini, le basi del restauro siano stati argomento mai approdato, così come l’analisi delle “tipologie edilizie” e ancor meno le direttive dei piani del colore, tutti indispensabili, per difendere questi ambiti irripetibili della storia del Mediterraneo.

Vero è che ha preso scena l’interesse del colore, non per valorizzare ripristinando lo stato storico dei fondamentali identificativi per valorizzare li luogo, ma si persegue il mero raffigurato, oltremodo, in contrasto con le leggi del buon senso, ignoto sin anche ai preposti d’ambito.

È palese constatare che nell’immagine comune, gli edifici del centro antico devono rinnovarsi, grave diventa non tener conto della radicata tradizione costruttiva e formale, che in passato ha caratterizzato l’ambiente e lo scenario urbano.

II gusto si evolve ma, soprattutto, mutano i processi produttivi in edilizia, mirando sempre più alla riduzione dei tempi di lavorazioni c dci costi, ormai uniformati ogni cosa e soprattutto luogo.

Tale esigenza va in contrasto con l’istanza di conservazione dell’immagine tradizionale e consolidata locale, di un ben identificato centro antico e, come ormai, diventata consuetudine, tendere a semplificare ulteriormente il linguaggio storico delle facciate, trasfigurando completamente il volto del costruito.

Ad esempio, in pochi anni molti edifici ottocenteschi riccamente decorati e colorati con tre differenti tinte di coronamento, allo scopo di esaltarne i valori plastici, sono stati oggetto di pittura, come gli stessi balconi e finestre, concepite per l’affaccio sulla strada e l’esposizione all’aperto di piante ornamentali, sono stati manomessi perdendo ogni valore di filtro tra l’interno dell’abitazione privata e lo spazio pubblico.

Molti altri esempi di alterazione delle caratteristiche architettoniche e decorative delle facciate potrebbero essere citati, ma è sotto lo sguardo di tutti la metamorfosi esteriore del centro abitato a causa di iniziative molto spesso di carattere individuale,

Tuttavia, addentrandoci nel nocciolo della questione e osservando il clima culturale odierno, ci si rende conto, che questo tema non ha mai raggiunto la maturità teorico-disciplinare, che potesse, dopo tante esperienze negative di varia natura, dar luogo almeno un barlume di ragione utile a sollecitare le oscure menti preposte, che preferiscono, prospettive diseducative di blasfemia se non addirittura mussulmana credenza.

La realtà dei fatti resta stesa alla luce del sole, in prospettiva storta, con le inopportune esibizioni di “non arte”; violenza gratuita verso, gli inanimati elevati, in altre parole gli inermi e statici paramenti pronti ad accogliere, o meglio subire questi messaggi a dir poco inutili.

Infatti sono gli stessi cittadini e proprietari utenti, a cui vanno aggiunti i turisti della breve sosta, che restano confusi alla vista dei concetti raffigurati di finitura, senza testa, corpo, ma dell’apparire di una coda che stridula o meglio raglia arte in strada quando è troppo tardi per tornare a casa.

Ancora oggi, infatti, la redazione di un Piano del Colore, a queste latitudini apparentemente mediterranee è un argomento ignoto, specie per gli innumerevoli dissacratori di pareti, che qui corrono scellerati, poi se il consenso arriva con il mutismo è anche degli uffici preposti, spinti dal comune disinteresse verso la tutela della storia, l’argomento assume le sembianze di emergenza sociale, a cui porre rimedio e rispondere con energico disappunto.

Ciò che ad oggi sfugge è il dato che l’abuso artistico cosi realizzato, sia dal punto di vista burocratico per le prassi edilizie private violate, potrebbe diventare un balzello civile e penale non irrilevante.

Se a questo sommiamo il dato inconfutabile che ostinandosi a compromettere superfici di muratura e imbrattare manufatti lignei, come infissi, porte finestre e lucernai, difficilmente le attività di recupero o restauro moderno, poco potranno fare se non compromettere ancora di più, con il pigmento anomalo sparso sulle superfici lignee e gli elevati storici del costruito.

Ma non è nemmeno raro imbattersi in atteggiamenti opposti, laddove il cittadino avverte che qualcosa non va, per questo riassume il disagio con una sentenza sbrigativa, rivolta a questo o quell’imbrattamento, dicendo per esempio che “è come un pugno in un occhio”, ma non basta, come sono inutili azioni di ribellione popolare, come parole indirizzate al vento che porta via, specie se rivolti alle istituzioni che nel contempo immaginano cose, di lumi d’ignoto a venire.

La radice di colore dei centri storici del meridione e specie dei paesi elevati dal XIII secolo, nasce dai rudimentali elevati, di primo insediamento, per questo, fare un’analisi specifica di luogo ed elementi naturali tipici, fornisce un quadro d’insieme pittorico, secondo il quale l’esigenza primaria degli abitanti di queste colline fu di mimetizzarsi, il più possibile, realizzando parallelismi cromatici con l’ambiente naturale e, per lo scopo assunse il ruolo di murazione ideale prima, per quanti trovarono luogo in queste colline boschive, agli albori del Età Moderna.

Paesi che si affacciano con discrezione sulla valle del Crati, offrendo gradevoli prospettive, attraverso le quali si poteva assistere al miracolo dell’apparizione notturna e della sparizione diurna.

Montuosità che per la forma dei suoi antichi canaloni, assumeva le sembianze di elefanti mastodontici, che voltavano le spalle al Crati per andare sulle rive del Tirreno.

Lo stesso fenomeno si verificava nel declivio della preSila Greca, un sistema di paesi o meglio Katundë, disposti a quote ragguardevoli e sicure, che per incanto sparivano alla visione diurna e apparivano con le fioche e tremolanti luci rossastre al calar del sole.

Oggi tutto questo non esiste più e se si va per panorami tra le colline a destra o a sinistra del fiume Crati, si possono individuare e riconoscere paesi ad oltre venti chilometri, a vista d’occhio, e pure senza occhiali, per le inopportune pigmentazioni, per non aprire pena verso le inadatte coperture.

Le pigmentazioni del nuovo costruito, per così dire, di radice pompeiana o addirittura a impronta d’arlecchino, priva di senso e di colore, va oltre i limiti della riservata decenza, che nel secolo scorso era ancora cultura, anzi oserei dire, un modello di convivenza e rispetto dell’ambiente naturale.

Tutto ciò che un tempo rappresentava la fioritura naturale di un ben identificato costruito, nel corso delle stagioni, nei Paesi, Katundë, o Frazione ha perso ogni sia connotazione per le finalità di convivenza ambientali e naturali.

Il genio degli abitanti che vivevano questi luoghi, ha ispirato sin anche il sancito dell’articolo nove della Costituzione Italiana, sono stati proprio questi ambiti ad ispirare chi dispose le basi e colse i germogli indispensabili a questo fondamentale pezzo della Costituzione del bel paese Italia.

Il colore dei numerosi centri antichi detti minori, è un esperimento naturale, che nasce dalle esigenze degli abitanti, sin dalla notte di tempi.

A ben vedere, mentre chi si insediava nelle isole o nella terra ferma a ridosso delle vie del mare, rendeva visibili il luogo abitativo, con colori forti ed appariscenti, una sorta di faro diurno per tornare a casa.

Diversamente da quanti si insediavano tra le colline e costruivano le case, cercando un compromesso tra gli elevati composti di elementi naturali locali di pigmentazione, realizzando una sorta di parallelo con lo stato agreste di fioritura d’aree.

Questo dà ragione ai numerosi elevati di pietra locale alettate e rifinite con impasto di calce, sabia torrentizia calcarea e argilla, utilizzata poi anche per dare continuità e coloritura muraria all’esterno.

Cosi come i coppi di copertura a doppia regola, realizzate con argille rossastre locali e poi infornate con scarse temperature, il fenomeno serviva a far germogliare in estate particolari muschi, che germogliavano il parallelismo cromatici della lamia di displuvio, con il contesto arboreo circostante.

Questo spiega anche il fenomeno di poca visibilità a distanza dei centri abitati di giorno e poi di notte, con le luminarie, apparire come miraggio collinare.

Per questo sostituire tetti con inadatti apparati moderno lamellari, dipingere momenti di vita e corredi, sulle superfici dei riservati elevati di luogo, diventa un esperimento senza senso e rispetto della storica consuetudine locale, ma quello che più duole si interrompe una volontà antica, la stessa che oggi potrebbero essere il vanto identificativo che magari, “i Borghi medioevali non hanno e ne avranno mai per costituzione formale”.

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Ma questa appena accennata è un’altra storia, ancor più amara, che tratta di Case favellanti, Minareti, Camini, Gjitonia, Scesci, o suonatori la Baglama seduti sulle resta delle colonne greche, uno scenario anomalo e ben lontano “thè mesi” materno, preferito dalle giovani leve al pitturarsi di Arberia.

 

 

P.S. non si dice Qendër, ma Mesë o Mesj chi non lo sa, si informi prima di scriverlo e mettersi al centro della tavola, sopra il ricamato a uncinetto, che non è un palco e ne una cattedra, ma solo un componimento casalingo per quando arrivano ospiti a ubriacarsi di vino.

Commenti disabilitati su USANO COME LAVAGNE PER SCARABOCCHIARE LE CORTINE EDILIZIE DEI CENTRI ANTICHI E DICONO SIA CULTURA (Quando nella Gjitonia si esagerava con le cose e i giochi, dietro i fiori di una finestra si udiva dire: Ezi e bëni porcaritë ka Gjitonia juei, ndësè e kini, gnë mosë ezni ndë pistë e digjiani)

GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

Posted on 02 aprile 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Questa giaculatoria storica nasce per le figure meno utili per la ricostruzione degli eventi solidi della Regione storica diffusa degli Arbër.

Essa rappresenta una preghiera povera indirizzata al popolo dei comuni, per questo fatta di contenuti semplici, tale che, possa essere fondamenta, anche di quanti credono di avere titoli e mai distaccatosi dell’età prescolare, gli analfabeti o illetterati diffusi, in altre parole, da ogni abitante che vive e non sa di essere parte della minoranza storica, più longeva e solida del vecchio continente.

L’esigenza nasce a seguito degli appuntamenti culturali svoltisi in assenza, nel corso del tempo che hanno visto arrivare, vivere e terminare la pandemia 19.

Questa, invece di essere utilizzata come monito e riflettere sulle innumerevoli pene culturali degli ultimi due decenni, è stata una parentesi delle pagine più pietose e irriverenti che la storia ricordi, con finalità di tutela delle cose materiali ed immateriali della regione storica diffusa, tra le più devastanti.

Iniziando a riflettere immaginando che la minoranza fosse viva per l’esclusiva eredità parlata; qualche figura a dir poco, formata, ha furbescamente ritenuto, potersi inventare storia, alfabetari e cavalieri senza cavallo a sostegno di Don Chisciotte in perenne discussione, qui non con i mulini a vento, qui trasferitosi a per colloquiare con l’architettura, l’urbanistica e addirittura le solide case, che come tutti sanno non parlano perché sono episodi unici della storia.

Sopportare che figure deboli della storia, saltino la fila e si dispongano in mostra, più dei geni è storicamente comprovato, per questo lasciano sempre il tempo che trovano, tanto gli ultimi saranno sempre in ombra, mentre i primi brillano per luce propria anche se lo spazio per loro è in fondo alla piazza gremita che comunque ascolta e apprende nozioni.

Quello che oggi è diventata indecenza sono le attività di tutela indecenti, dei fatti culturali e le attività di valorizzazione degli elevati storici, continuamente violentati perché, muri inermi, senza braccia, gambe e piedi per scalciare o “sucuzzare”, verso quanti le impropriamente colora con irriverenza, le cose e gli elevati d vivere per portarli in auge.

Nonostante la storia di questi edificati che hanno dato i natali ad eccellenze del mondo della cultura, della scienza esatta, delle lettere, della politica e la conservazione e tutela delle cose che oggi ci indicano con luce la nostra radice, si preferisce deturpare, spruzzando per ribellione ogni sorta di componimento in colore senza la ben che minima vergogna.

Tutto questo nella più demenziale inconsapevolezza degli atti commessi contro i saggi, i quali, stanchi e abbandonati dalla plebe, che evita pure di rimborsare trenta tre danari e fare opera gratuita di rimedio del violato senza riguardo.

Affinché questa elevazione di giaculatoria smuova le coscienze di tutti è bene precisare di cosa parliamo:

Il salto di quota che caratterizza le colline della regione storica e ogni Katundë, dalla zona bassa a quella più alta individuato sia classificato o rientri in un unico tema così come segue; individuato un elevato di credenza, si articola nei suoi pressi un pennino, identificabile quale pettine di nascenti di elevati abitativi che disegnano vichi, rampe, supportici, case e spazi o slarghi, utilizzati per realizzare elevati; il pennino mira a definire quattro rioni che strategicamente legano tutti gli oltre cento paesi riedificati dal 1479 al 1563 secondo lo stesso impianto di cui è composta la capitale, in epoca ducale dalle stesse genti provenienti dal mediterraneo del sud est.

I pennini restituiscono «strette vie a gomito, gradinate, in parte coperte da portici o supportici con volta con copertura piana e sin anche voltata, per superare il dislivello, cis’ come avviene nella città ducale partenopea che darà qualche secolo dopo la metrica per fare Katundë.

È dunque caratterizza questo fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto di vicoli», senza edifici pubblici di rappresentanza né grandi complessi religiosi di rilievo, in altre parole un apparente carattere caotico di chiara ispirazione orientale, bizantina o islamica, dovuto alle influenze dirette di giungevano dall’Oriente.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura (legame) ducale, i vicoli ciechi diventano occasione, ideale per ‘privatizzare’ o ‘semi privatizzazione’ in un contesto di famiglie legate da vincoli di parentela. residenti in contiguità; i fondaci,

invece, sono comparti abitativo-commerciali che derivano direttamente dalla tipologia di luogo di apparente confusione, ma dove elemento ha compiti e ruoli ben identificati, perché proprietà intrinseca di ogni facente parte di quel luogo.

Specie lungo i pennini sorgono case con orti, giardini e spiazzi terrazzati che riproducono una tipologia rurale e persino tuguri scavati nelle pareti tufacee o di estrazione più morbida secondo una tipologia rupestre molto diffusa, come sappiamo, in tutta l’area di espansione dei paesi collinari.

Questa qui esposta è una breve trattazione di quello che poi divengono i veri presidi per la valorizzazione di un antico consuetudinario tra i più solidi del bacino mediterraneo.

VincenzoTorelliUn sistema abitativo che oggi è la radice di numerosi centri antichi del meridione italiano, lo stesso posto nelle disposizioni di numerose amministrazioni e il più delle colte non ne comprendono o non sanno misurarne il valore.

Vero è un dato inconfutabile, il quale statisticamente non promette nulla di buono specie dalla emanazione della legge 482/99 che invece di attivarsi verso il costruito e le attività di Genio locale posto in essere mena a voler sottolineare il modo in cui si deve scrivere una lingua; e siccome questa è antica la si vuole santificare sgrammaticando con caratteri latini e greci, immaginando che solo questi nel globo terreno erano gli unici alfabetari.

Le consuetudini e le attività proto industriali e la definizione dei cunei agrari per il sostentamento e quelli della trasformazione, erano definiti pensati ed organizzati in questi luoghi di raccolta e accoglienza delle genti Arbanon.

Vere e proprie culle della tradizione, sono esse a riverberare le cose della storia, recarsi ancora oggi in questi luoghi, che vivono senza tempo, se educati ad ascoltare, accogliere e fare proprie quale fosse l’operosità in lamenti della fatica del passato, si potrebbe partire e parlare con la lingua giusta il racconto delle cose Arbër.

Noi siamo la generazione allevata dalle nostre madri, le nonne e le vicine di casa che per abituarti ad ascoltare ti dicevano; figlio benedetto siediti qui e ascolta (Nga e ulu këtu, paçurat); atto che nella stagione lunga (l’estate) aveva luogo di fianco la porta e seduti nel sedile di controllo e in inverno (la stagione breve) davanti al camino, raccontando gesta e avvenimenti dolci e sin anche cruenti per in passaggio generazionale del parlato Arbër.

fratelliLa trattazione dei sostantivi che trattano del corpo umano e gli elementi naturali primi, per il sostentamento della specie, in tutto, lo storico protocollo divulgato ai quattro venti, ancora oggi ignorato dai preposti, nonostante i fratelli Grimm lo abbiano diffuso e urlato ai quattro venti.

Per concludere questo breve, si vuole aggiungere un dato fondamentale, monito per quanti fanno e cercano di scrivere una delle storiche forme di vita basate su base di confronto orale.

Codice di appartenenza compreso solo dal più grande, l’unica, eccellenza in campo di analisi e comparazione linguistica scritta che l’Europa e il globo intere riconosce agli Arbër: Pasquale Baffi il dolce e fantastico lettore e scrittore di Greco e Latino, l’eccellenza più alta, che compreso il valore dell’idioma Arbër, la sua radice comparata con quanti per la via Egnazia transitassero per raggiungere la gloria dell’anima; lui il Baffi non ha segnato mai un punto, una virgola o una parentesi, pur avendo titoli ed argomenti elevati per farlo, in Arbër.

Vita Mons Giuseppe BugliariSe egli non ha preso penna e scagliato calamai a chi ragliava, ha compreso il valore per non esporre il patrimonio identitario al libero e indemoniato ballo tondo che si sarebbe spezzato, come è stato, irreparabilmente.

Vero è che promuovere vicende di comunemente per eccellenza, senza avere consapevolezza di chi siano stati e cosa abbiano fatto: il prelato Bugliaro Giuseppe, Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Mons. Domenico Bellusci, Vincenzo Torelli, Luigi Giura, Pasquale Scura, Mons. Giuseppe Bugliari, Terenzio Tocci, Giorgio Ferriolo, Giuseppe Albanese e tanti altri, che nei casi più banali hanno dato lustro agli Arbër nel mondo per i loro lumi, oltre a mettere in gioco il loro fisico per ideali comuni; è una grave mancanza di rispetto delle cose che fanno grande la Regione storica diffusa degli Arbër.

photo_2023-04-02_13-36-02Se nei giorni scorsi un Artista Albanese, ha riunito alla Piazza Mercato di Napoli più persone di quante si è abituate a vedere nelle manifestazioni di lettura o scrittura degli ultimi decenni, un numero di partecipanti che mancava dal 10 maggio del 1831, sempre realizzato da un Arbër lungo il corso del Volturno, è il segno evidente che gli Albanesi come gli Arber uniscono più genti con eventi di radice, da quanti si ostinano a imporre alfabetari.

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