NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le cose e gli elementi caratteristici che uniscono luogo e i suoi abitanti, non vanno raffigurati sugli edificati storici e non, scambiati come mera pubblicità corrente o diffusa, addirittura, attraverso i media senza alcun fine di tutela di luogo o consuetudini di radice.
Le cose e il ricordo dell’identità culturale, se sono veramente parte di quanti vivono e promuovono, un ben identificato territorio, devono avere un posto in prima fila, nei cinque sensi di quanti sentono il dovere di rispettarli; promuove e divulgare le cose del passato senza l’ausilio di apparati e manifestazioni correlate, si termina nell’atto di infangare i preziosi costumi del luogo senza nulla ottenere.
I personaggi della nostra storia, ci appaiono nelle prospettive, della cultura vera, come indicatori in luce solo dove la storia ha avuto luogo e non come di solito avviene, in ambiti che non possono contenerla, facendola riverberare o riflettere come fastidioso abbaglio rivolto al viandante, che li accoglie come fastidiosa distrazione e nulla più.
Un grande condottiero raffigurato sul suo storico destriero con gli emblemi di Zeus e non quelli dell’ordine cui era legato e garantirono la prosecuzione della sua specie è un errore storico a cui non vi è misura di vergogna.
Certo che facendo apparire lo storico destriero, a modo di mulo, in procinto di trasportare sul basto, espedienti di luce naturale in forma di finestre e lucernari, tatuato con toponomastica di Santi moderni e avere briglie di cavi elettrici, non è certo un bel vedere, per promuovere storia e territorio di un’ipotetica fratellanza con il terminale di sostantivo in “ria”, noto nel linguaggio non scritto, come espressione dispregiativa di refluo, di cose e persone, non contribuisce positivamente a tramandare la storia non scritta.
Non si possono più tollerare figure curricolari, che dicono di sapere cose e finiscono per parlare di altro, ne titolati che dopo il traguardo di non sacrifici, si inventano a casa i titoli immaturi, ingannando sin anche i propri parenti, di essere quello che non si è, e no lo sarà mai, per la ristrettezza o la totale mancanza dei cinque sensi.
Ormai dilagano suonatori seriali in tamburiate che non sanno dell’esistenza di Vincenzo Torelli, storico critico musicare di origine Arbër e della differenza che passa tra canto musica e ballo, ignorando addirittura gli appellativi storici scambiati per insalata di cose senza condimenti.
E come non si può essere d’accorso con Pasquale Baffi quando nel 1787 scriveva e dopo in uno dei “Prestiti del 1807” ripetevano:
“L’esame dei costumi fa conoscere l’uomo; la somiglianza dei barbari, la differenza dei popoli colti, i lenti progressi del sapere umano,l’influenza della indole sulla morale e sulla politica, la facilitazione o l’ostacolo dei costumi alla cultura e al benessere di un paese, questi sono gli oggetti più grandi che possa avere in mira il sensato filosofo.
Un Paese una Nazione quanto famosa altrettanto poco conosciuta, che per secoli e secoli non ha alterato, né la sua indole, né i suoi costumi e sempre in mezzo ai popoli colti ha ritenute e tuttavia ritiene le usanze barbariche, merita certamente l’attenzione dell’uomo di lettere”.