NAPOLI; Atanasio Architetto Pizzi Basile – La caparbia volontà di aprire un nuovo stato di fatto, per consolidare i trascorsi storici e culturali della regione arbëreshë, non trova favori nella scia spenta della cometa le cui ceneri ingrigiscono ogni cosa.
Continuare imperterriti a ritenere quale unica fonte, possa essere l’oasi che stagionalmente irriga metrica, consuetudini, costumi e religione, non fa presagire futuri longevi.
Non è concepibile immaginare che una scialuppa mal ridotta, poco capiente, di legno antico, possa adempiere a ruolo di cisterna per mantenere a galla, genio locale e i parallelismi di ambiente, è puro idealismo e quanti immaginano ciò, sono e restano in malafede o non hanno elementi culturali sufficienti per comprendere una diplomatica così complessa.
Nonostante siano stati innumerevoli i protocolli del passato e sino al secolo scorso, ad affiancare diverse discipline per la sostenibilità di questi modelli antichi, l’ arbëreshë, figlia delle prediche domenicali, resta materia per prescelti, in quanto, le linee di tutela sono immaginate “esclusivamente” nel numero dei parlati e a null’altro.
Si persegue, con ostinazione, la via degli archivi, biblioteche e depositi fascicolati comunalclericali, dove si conservano molte cose, delle quali poche utili, elevandole a regola indiscussa della storia di una non meglio identificata macro area.
Purtroppo, queste ostinazioni irreali, non vedono i solchi della storia incisi sul territorio, arte degli uomini, che vi hanno vissuto in comune accordo con la natura.
L’uomo è l’artefice, attinge la punta del suo aratro, nel calamaio dell’ambiente naturale, suggella così il patto “irripetibile”, spetta poi agli uomini che verranno sostenere con parsimonia misurato il patrimonio.
Quanti hanno immaginato di lasciare il Genio Locale, al libero arbitrio dei comunemente, fuori dalle aule per le discussioni di sostenibilità, non facevano progetti sostenibili per il futuro.
Quanti si sono resi protagonisti di questo vetusto stato di fatto, si assumano, oggi, la responsabilità storica della deriva prodotta e ancora in atto pericolosa.
Sono i colpevoli morali delle vicissitudini anomale che vivono gli elevati, le vie della storia, in nome delle esigenze moderne si preferisce coprire e cancella le forme della storia; in altre parole debilitare se non addirittura rimodellare il senso armonico dell’involucro protettivo la metrica arbëreshë.
Sino a pochi decenni addietro, emergevano con forza la vitalità di questi ambiti nel mentre si percorrevano le vie un tempo arbër; palesi erano le tante case con intonachi consumati, culle fondamentali per nuove generazioni, sulla scia di antiche consuetudini oggi non più tali.
Involucri costruiti in cui si parla, si piangeva e si gridava in antica inflessione; strati invernali di fumo, ricoperti calce, come i fogli di un calendario della vita, ormai ferma di scuro perenne.
Sono questi i segni attraverso i quali si percepisce l’insieme di case e di cose, unite idealmente da quel ponte di canto, patti di mutuo soccorso in valje di genere.
Solo pochi decenni addietro, quando camminando tra sheshi, rrhugat e hudat, i luoghi ameni di primavera, conferma di gjitonia sostenibile, si faceva spogliatura agreste, tessendo legami familiari, mentre felici bambini crescevano giocando in lingua materna; poco più in la, case silenziose, sedie vuote vivevano di memoria, mentre si preparavano semine di abbondanza per il futuro.
Oggi la memoria altrui si dipinge sui muri, quella locale cancellata e i luoghi che segnarono la storia, diventano una lavagna irriverente, per quanti offrirono la propria vita in giusta causa.
Ritenere che sia ininfluente il “genio locale degli arbëreshë”, quando tutto e facilmente rilevabile nei segni incontaminati sul territorio, da la misura di quanta cultura sia stata messa in campo.
Se nei secoli XV e XVII poco si sia attinto, per lo scontro e il confronto tra indigeni e minoritari, tollerato nel secolo XVIII, perché iniziava il processo di formazione, oggi non si può immaginare tutela, in forma monoclonale in dormienza, in epoca multimediale.
In base ai frammenti fisici e di memoria ancora vivi nelle macro aree che compongono la regione storica, non si concepisce perché si continua a porre nelle disponibilità di singoli o associati, la possibilità di tracciare percorsi inesistenti, nel mentre forme di cartografia statica, sono peculiarità in attesa per circoscrivere e tracciare percorsi di minoranza.
Di tutte le civiltà della storia, cui sono state attribuite attività di sviluppo, è del genio che le ha contraddistinte, lasciando tracce indelebili di epoca e luogo, quelle arbëreshë non sono ancora presenti in elenco.
Le minoranze storiche generalmente, emergono dal piano generale di una nazione, per le forme idiomatiche, tuttavia, questa singolarità identificativa non può e non deve essere come il modello risolutore, giacché, per disegnare una forma completa riferibile a un gruppo minoritario, vanno rilevati gli elementi fondanti e riverberanti l’espressione parlata.
A tal proposito valga di esempio cosa è successo quando si è dovuti operare per trasferire o meglio delocalizzare un paese minoritario del meridione.
Avendo per decenni i divulgatori ufficiali, tradotto erroneamente, il modello di mutuo soccorso o meglio, luogo pulsante dei cinque sensi: la “Gjitonia”, come “Vicinato” è avvenuto quanto qui di seguito s’informa e si racconta come monito per il futuro.
Oltre duecento famiglie hanno subito l’incubo, percorso il calvario ancora non terminato, pagando pegno, per colpa di quanto condussero ricerche identificative senza alcuna formazione specifica in seno alla minoranza.
La storia ricorderà per molto tempo a venire, in quanto, la mera forma orale erroneamente tradotta, anzi si dice sia stata estrapolata da ambienti indigeni e altre diaspore sociali, ha indotto i progettisti del nuovo sito in grave errore, segnando la vita dei malcapitati de locati, molti dei quali hanno preferito migrare, altri adire le vie legali e le figure più anziane passare a miglior vita.
Essendo questa vicenda largamente documentata con carte originali di prima mano, ancora non archiviate, si può affermare senza commettere errori di sorta, che la frase comunemente divulgata, più devastante e pericolosa in senso di smarrimento e soppressione dell’identità minoritaria, “sia stata”, dagli anni settanta del secolo scorso e sino a oggi senza ravvedimento o soluzione di continuità:
” La gjitonia, come il vicinato, il rione o il quartiere, disposta su uno slargo circolare”
Come un concetto così intimo e profondo sia stato lasciato alla libera interpretazione, non è dato a sapersi, eppure le avvisaglie disarmoniche erano palesi o facilmente deducibili, visto i sostantivi noti, per ogni genere capace di sfogliare un banalissimo dizionario.
La Gjitonia estrapolata dal consuetudinario linguistico doveva caratterizzare la minoranza non certo per banalizzarla, doveva risvegliare titoli di lettura, capitoli, specie in campo sociale urbanistico e architettonico, innescando processi di pensiero univoco sotto i quali riconoscersi.
Ciò nonostante si è fatta una confusione, a dir poco paradossale, tra: Gjitonia, Vicinato, Rione, Quartiere, Shesho, e Medina immaginandoli tutti come ingredienti da utilizzare secondo le salse che si ritenevano più gradite.
Se poi a queste volessimo aprire la penosa vicenda che associa gli agglomerati arbëreshë al modello urbano denominato Borgo, è segno che il fondo della botte e stata talmente raschiato da dover utilizzare lo storico caratello di buon sangue, come legna da ardere.
La malgama di riferimenti pur avendo un sostantivo definitivo e preciso, illustrata in maniera poco attenta, poi offerta e distribuita ricoprendola da veli di melassa, ha consentito ai liberi pensatori, di utilizzare la radice a proprio piacimento e le dinamiche storiche di Katundë, Medina e Gjitonia, furono un banale componimento numerico o semplice certificato di estratto catastale.
Il dato ha così, sintetizzato il senso storico del modello urbano e sociale più antico del mediterraneo, determinato dalla numerazione di particella storica di vicinanza, del catasto edilizio e dei terreni.
La leggerezza con cui si declinano le forme sociali della minoranza storica, più longeva del mediterraneo, devono da oggi in poi far riflettere, certamente vanno saggiamente, ponderate con ragione, da gruppi di lavoro multidisciplinare debitamente e preventivamente formati.
Non è più concepibile che singoli ricercatori, possano disporre della storia di tutti noi minoritari; l’atto della divulgazione deve essere condiviso, prima di esporre in pubblico, in conferenze divulgative o qualsiasi forma scritta, giacché, producono danno inestimabile alla consuetudine sociale se inesatte e quello che più fa danno lasciano un tempo peggiore di quello trovato.
Se a questo associamo il dato che parliamo di popolazioni, come gli arbëreshë, notoriamente privi di qualsiasi forma scritta, se non casi tumultuosi che allontanano e non rende solidale la regione storica, si deve avere un rispetto maniacale delle cose dette fatte per conto e per nome degli arbëreshë.
Questo è uno solo degli argomenti, liberamente interpretati e lasciati nelle trattative dell’arbitrio di tutela ancora privo di un indirizzo condiviso, cui dovrebbero dare seguito alle attività, che con risorse istituzionali dovrebbero valorizzare con determinazione, le cose e i trascorsi delle minoranze.
Si sarebbe da trattare il costume tipico, ritenuto emblema unico, quanto invece non va oltre le macro aree.
Si dovrebbe creare un archivio degli illustri che hanno portato la regione storica arbëreshë in auge a brillare e alcune volte in ombra a penare.
Si dovrebbe realizzare la scala delle priorità, dove distinguere, pionieri della regione storica arbëreshë quali protagonisti incontrastati, nel campo dell’editoria, della scienza esatta, della cultura e nella ricerca di soluzioni sociali, come quella poi non più intrapresa e ancora sospesa della questione meridionale.
Qui pero entriamo troppo nei dettagli della politica e della storia che conta, forse e meglio rimandare ad altra sede gli argomenti, per adesso cerchiamo di focalizzare, gjitonia, costume e calendario arbëreshë, quello che prevede: il tempo grande e il piccolo, definiti da Aristotele, l’Estate per confrontarsi e l’Inverno per isolarsi.
Questi e molti altri ancora sono gli argomenti che dovrebbero rientrare nei trattati da focalizzare per rispettare gli articoli 3, 6 e 9 della Costituzione, senza voler entrare nei meriti Europei, che renderebbero troppo complicato e arduo l’argomento di tema diffuso, ma sin quando si ritiene che questo sia materia mono cellula e non per gruppi di ricerca e definizione, tutto si risolve in una coltre di cenere, la stessa che dal secolo scorso, strato dopo strato appiattisce ogni cosa, come prevede il disciplinare imperterrito della globalizzazione.