Archive | febbraio, 2021

IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Protetto: IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Posted on 21 febbraio 2021 by admin

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GJITONIA

GJITONIA

Posted on 15 febbraio 2021 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per giustificare il non essere uguale agli altri e poter entrare di diritto, nella lista della legge 482 del 1999, si è voluto dare un titolo a una delle minoranze storiche Italiane, assegnando per questo l’identificativo: Gjitonia Arbëreshë.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un volgare e improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Europei possa vantare.

Comunemente tradotta come vicinato, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato senza spazio, senta tempo e senza uomini, che nel contempo conteneva, arbëreshë, in poche parole il tutto di un nulla.

Tra le più inopportune ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada oltre a un innumerevole quantità di temi di concetti copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, ancora senza pace.

Non ultimo quello di riportare il concetto di vicinato estrapolato per la vergogna sociale che avvolgeva i sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il teorema del vicinato mediterraneo, rielaborato in forma arbëreshë, da quanti della minoranza non sapevano di lingua, di consuetudini o possedere almeno rudimenti di storia moderna.

Che la gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo è una cosa, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale o immateriale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini e la storia della minoranza arbëreshë.

Quando per un arbëreshë la si nomina, gjitonia risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione,  una metrica possibile, essa insinua le sue radici nel protocollo Kanuniano, che sino al 1936 non era ancora stato scritto e per questo solo chi era arbëreshë poteva conoscere.

In altre parole, i principi etici, prescrizioni legali presenti ancor prima dal medioevo nelle terre dei Balcani, la cui compilazione scritta è tradizionalmente attribuita a Lekë  Dukagjini; si tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, formando per questo la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri statali o imposti da stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreshë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per la dimora, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati ad organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti sociali.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni del Kanun.

La famiglia allargata, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive proli, un gruppo che non minore di una dozzina di addetti tra maschi e femmine, ognuno dei quali e delle quali , erano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità .

Il modus operandi andò sempre più progredendo e integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, da ciò il modello di famiglia allargata dovette cedere il passo al modello di famiglia urbana.

È proprio questa famiglia che dal XVII secolo diventa il modello sostenibile, vera e propria resilienza dei legami familiari allargati di un tempo.

Passaggio epocale da gruppo familiare coeso, si assiste allo sgretolasi in forma numerica dei componenti che non è più numeroso, come un tempo per rispondere la sostenibilità economica vissuta, ma si restringe e costruisce i propri spazi privati.

Quando la famiglia da gruppo allargato diventa gruppo sociale urbano non più isolato come ai tempi del Kanun, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare e l’elemento che garantisca il riconoscimento di quegli antiche legami.

Notoriamente  intercettato nelle armonia condivise dei cinque sensi ed è qui che si avverte il senso di Gjitonia tatto, odori, sapori, suoni, e forme senza un confine circoscritto, condiviso,  come quando la famiglia allargata, aumentava per poi stringersi e riconfigurarsi in se stessi.

A tal proposito trova ragione l’enunciato: la Gjitonia dove vedo e dove sento; inteso come, il luogo della ricerca degli antiche legami familiari ai tempi della migrazione, a patto, che si avverta la sinfonia dei cinque sensi condivisi.

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SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

Posted on 13 febbraio 2021 by admin

PIsa1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando la tutela della diversità storica, culturale, civile e religiosa, palesemente mira all’apparire, coinvolgendo per questo testimonianze di secondo ordine è il segno che il diffuso interesse è complementare al singolo.

La metodica del gruppo ormai è palese in tutte le manifestazioni, per quanti conoscono e hanno consapevolezza dei ricorsi storici e di come vengono allestiti.

Alla luce di ciò ogni volta che si esprimono teoremi, concetti o divagazioni su cosa, siano gli elementi caratteristici e caratterizzanti i minoritari o i luoghi in forma di città aperte, si termina in ogni sorta di alchimia attribuita alla macro area d’interesse, utilizzando la solita metodica, che inizia, si svolge e termina, in un nulla di fatto.

Se poi si sostituisce l’inverno all’estate, generando, come di sovente avviene, uno stato che non esiste, si può affermare con estrema precisione che il vaso di pandora è pubblicamente aperto e il comunemente dilaga senza vergogna.

Ancora oggi dopo una lunga stagione di leggi, provvedimenti e atti, allestiti rispettivamente sotto la falsa bandiera della tutelare, del tangibile e dell’intangibile, si dispongono le più variegate purpignere (vurvinë), avendo cura che siano ben distanti dalle latitudini di interesse, anzi addirittura non mediterranee.

Poi se si cerca di approfondire quale sia la ricetta, si entra in un mondo di paradossali favole; percorso di ricerca, in cui lo scrivere del favellare è sempre anomalo.

La compilazione dei temi è a dir poco elementare, volendo essere magnanimi, si potrebbe dire da scuola media di primo grado, questi in specie trattano divagazioni che spaziano dal comune idioma, alla trattazione senza titolo, di elementi urbanistici, architettonici, sociali e materici per terminare, nel luogo senza identificativo.

Oggi si fa un gran parlare dei temi di accoglienza, fratellanza, integrazione o non discriminare i generi, in pubblica piazza o sul palco per apparire, poi nel chiuso delle istituzioni, si lavora alacremente per trovare gli elementi che dividono, annotando cosa rende diversi gli uni dagli altri, sia essa una minoranza storica o maggioranza territoriale, terminando nell’intercettare addirittura cosa rende ogni individuo diverso dall’altro che gli sta accanto, con la frase:  noi  diciamo così.

Si parla senza consapevolezza della diversità culturale di macro area in ogni centro abitato, pubblicando addirittura adempimenti editoriali di parlata locale, con la nota di espressione d’area, in altre parole si va alla ricerca di cosa divide e non di cosa unisce.

Sarebbe più utile rilevare cosa caratterizza o cosa accomuna tutti i centonove agglomerati urbani della regione storica, specie le aree dove trovano espressione identica il costruito, sia dal punto di vista delle architetture e sia della disposizione urbanistica.

Non si è mai discusso di quali siano stati o sono gli elementi idiomatici che accomunano la regione storica e poi magari solo in seguito a consolidamento avvenuto, accennare le intimità che caratterizzano le varie discendenze attraverso le innumerevoli parlate.

Si esprimono pareri paradossali, che a tutt’oggi non danno ragione al fenomeno sociale, detta Gjitonia, associata comunemente a Quartiere, Rione, o parti distinte del centro, in senso generale, senza distinguere la parte antica da quella storica, tutti comunemente per poi terminare, nel concetto di vicinato; componimento estrapolato da ricerche risalenti al 1954 per altri temi minoritari.

Si esprimono teoremi sulla Valja ritenendola forma di ballo di macro area, senza riflettere sul dato che si tratta solo ed esclusivamente di un canto tra generi senza musica.

Così come non si ha consapevolezza dei Riti di Pasqua, l’inizio dell’estate, l’appuntamento storico del genere umano che lascia l’inverno alle spalle e da inizio alle attività produttive.

Un rito antichissimo importato dalle terre dell’Epiro, il modo antico di suggellare l’integrazione la convivenza tra modi di essere non uguali, unendo in leale convivenza minoranze e maggioritari, al ricordo dei defunti, che in quelle terre trovano perenne dimora, Vlamia.

Questa fa parte di quella manifestazione che ogni paese da luogo e che storicamente era appellata “Verà”: momento solenne dove i minori in costume e con il viso mascherato, accoglievano gli indigeni prima di recarsi in fraterno rispetto, verso i luoghi di sepoltura; e come segno di accoglienza, ironizzavano con canti in lingua diversa facendo apparire il ballo come manifestazione di giubilo, celando lo scherno.

Su questa rotta di adempimenti inopportuni, continuare per grandi e piccoli errori, senza mai terminare nel restituire valore alle cose, al più presto chi di dovere si assuma la responsabilità del tutto perso e nulla  tutelato.

Se si continua ad abbellire la propria meta, senza intuire che quando gli edifici collassano, trascino tutto ciò che lo compone senza preservare nulla.

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LA CHIESA DI SANTA SOFIA

LA CHIESA DI SANTA SOFIA

Posted on 11 febbraio 2021 by admin

Elio FormosaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Dal VII secolo, il territorio dell’odierna Italia, aveva terminato di essere un continuo territoriale di pertinenza geopolitica romana; e il confine a sud divenne il corso dei fiumi Crati e Savuto, dalle coste del Tirreno di Amantea sino a quella Joniche dalla Sibaritide (4).

Per la difesa trovarono dimora numerosi distaccamenti di soldati: Longobardi nel versante nord, a sud i Bizantini, in specie lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.

I soldati preposti al controllo in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento Rossano Cosenza, risalendo i greti degli affluenti storici del Crati, da sud.

Questi per difendersi anche dagli avversari naturali invisibili,  giunsero in quei promontorio altimetrici, che nel caso di Santa Sofia, divide la depressione dove scorre il torrente Galatrella e il vallone del Duca.

Lungo lo storico camminamento, iniziarono a costruire i presidi abitativo e  religiosi monocellulari, per questo il camminamento da Rossano a Cosenza fu interessato dal fenomeno d’insediamento; prova ne è altri il costruito nei pressi della via “Caminora” a Sant’Adriano, anch’esso di credenza bizantina, orientata verso la Grande Madre Chiesa di Costantinopoli.

Tra le diocesi di Cosenza, Rossano e della Calabria in maniera diffusa; non si commette errore, nel citare la Chiesa di Bisignano, di S. Sofia e altre in Acri, Luzzi, Rose, San Demetrio e San Cosmo.

Ciò è confermato oltre che dalla credenza ancora viva, in queste località, anche dal commercio tra i Greci di Costantinopoli, e la diocesi di Bisignano, le cui testimonianze oltre che nelle chiese, si collocano nell’abbondanza dei prestiti idiomatici ancora in uso nella macro area.

Tornando alla Chiesa elevata in Santa Sofia Terra, essa caratterizza il toponimo locale dalla sua edificazione, riportando a riferimenti religiosi della capitale Costantinopoli e dal IX secolo in avanti, il luogo da Casale Terra di Bisignano assunse l’appellativo di “Santa Sofia Casale di Bisignano”.

I suoi abitanti professarono quindi il rito bizantino dalla fondazione e la chiesa compare in un documento censuale, tra i possedimenti, citato come “tenimentum ecclesiae Sanctae Sophiae.” (2)

Nota, come Chiesa Vecchia di Santa Sofia d’Epiro (Kisja Vieter in arbëreshë; essa, si sviluppa su pianta rettangolare con l’area dell’altare a una quota rialzata rispetto la navata; i lati corti: a est l’abside e il coro; a ovest l’ingresso principale, (la porta degli uomini) e a sud la piccola porta definita l’accesso alle donne.

Gli apparati murari realizzati con pietre di fiume alettati su malta di calce sabbia torrentizia e argilla, la stessa che ordinava anche il continuo murario come intonaco.

Il tetto composto nella parte strutturale da rudimentali capriate, sosteneva la travatura secondaria di collegamento su cui era depositata la lamia di copertura (3).

Se la campana è rimasta la stessa, diversamente lo è per il campanile e la consistenza della fabbrica che ha mutato nel corso dei secoli la forma, disposizione e l’allocamento del campanile; in origine si elevava con un corpo addossato alla parete nord, all’esterno e nella linea che divide altare con la navata.

Il fronte opposto, a ovest più sicuro per quanto attiene all’aspetto geologico, a seguito di numerosi eventi tellurici, consentì, di aggiungere al volume uno novo; senza ricostruire la parete crollata per la qualità del paramento murario, furono realizzati archi e colonne per consentire il continuo murario e l’accesso alla nuova navata al resto della chiesa; innalzando alla testa di questa sul fronte ovest il nuovo campanile  (Foto 01).

L’ingresso principale, immette direttamente nella navata (5-6), mentre quella laterale conteneva rispettivamente, il fonte battesimale, la porta delle donne e gli altari dedicati alla Santa Madre e alla Madonna del Carmine; sul fronte nord della navata erano allocate piccole nicchie per altre devozioni, la cui consistenza e caratteristiche di rifinitura sono andate perse nel corso dei continui lavori di manomissione.

L’’interno, si presentava scarsamente illuminato, a tal proposito va rilevato che la finestra, sopra l’ingresso, quando illuminava la navata, segnava il termine della divina liturgia, cosi come quella alla testa dell’absidale indicava l’inizio.

Superato il varco di accesso, a mano destra era il fonte battesimale, l’elemento lapideo, scampato a diversi crolli, in fine fortemente danneggiato è stato utilizzato come materiale di spoglio.

Dal settembre (1471 la chiesa diventa il luogo di approdo anche degli esuli Arbanon, (oggi Arbëreshë) proveniente dalle terre sparse dell’Epiro secondo le divisioni dell’impero con capitale Costantinopoli (1). 

Questi rispettosi dei principi religiosi, si insediarono nelle prossimità della chiesa realizzando i tipici rioni in consistenza di capanne, secondo il protocollo d’insediamento importato dalla terre citate; e furono proprio gli arbëreshë da quel tempo ad integrare al malandato presidio religioso, quanto citato sopra.

Da ciò si deduce che la Chiesa dagli inizi del XV e sino alla meta del XVII secolo, ospitò anche il patrono Sant’Atanasio l’Alessandrino (7).

Giunti gli Arbëreshë nel Casale, sotto la guida dell’effige Alessandrina, trovato l’antico manufatto, intitolato alla Grande Madre di Costantinopoli, considerarono come un segno divino l’emblema religioso,  ritenendo il luogo como la terra promessa.

La chiesa nel passato era anche nota per il suo ipogeo, dove la popolazione trovava sepoltura nella chiesa, mentre nel terreno posto nel lato nord, trovavano cristiana sepoltura, forestieri, persone uccise,  suicida, adulteri,  ladri e pagani, tutto ciò sino nell’Agosto del 1726, quando alla, ecclesiae Sanctae Sophiae, venne sostituita da uno più moderno intitolato a S. Atanasio, al centro del paese.

La chiesa dalla metà del XVIII secolo, fu lasciata al suo lento e inesorabile destino, ormai fuori dal centro urbano, usata solo nel periodo di settembre, poco più di quindici giorni l’anno, per i festeggiamenti della Madre Santa.

In oltre, dal 1839, impedita la funzione di storico ipogeo, per disposizioni regie, che venne allestito, proprio in quel pianoro dove i soldati Bizantini giunsero nel IX secolo.

In fine, il 23 Febbraio del 1957 avviata la procedura di recupero, visto il suo precario stato strutturale, fu unificando tutta la superficie interna sotto una impropria carena rovesciata cementizia (5-6)

Alla luce di ciò nella chiesa di Santa Sofia, da oltre un millennio è celebrata la divina liturgia di S. Giovanni Crisostomo in greco.

Prima dai soldati Bizantini per difendere il confine storico, poi dagli Arbëreshë a seguito della caduta di Costantinopoli, un percorso identitario che senza soluzione di continuità utilizza la stessa chiesa e lo stesso rito greco.

Per dare merito di ciò, dal 17 al 20 settembre 2019, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con la Sua storica visita nella Diocesi di Lungro, ha voluto premiare l’amore degli Arbëreshë verso la Madre Chiesa di Costantinopoli.

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LA NON TUTELA DEL COSTRUITO STORICO ARBËRESHË; ORA È  EMIGRATA IN ALBANIA

LA NON TUTELA DEL COSTRUITO STORICO ARBËRESHË; ORA È EMIGRATA IN ALBANIA

Posted on 02 febbraio 2021 by admin

143506608_10222969880608993_518664806994492522_oNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – In Italia, precisamente all’interno delle sedici macro aree che formano la regione storica arbëreshë, i temi comunemente valorizzati, quale caratteristica e caratterizzante questa, sono stati gli aspetti idiomatici, metrici, consuetudinari, religiosi tralasciando sistematicamente le dinamiche scaturite dal genius loci.

La metodica così condotta hanno lasciato campo libero per la valorizzazione e la tutela degli elementi costruiti clericali, pubblici, privati, escludendo solo pochi esempi del patrimonio storico ancora intatti.

Ragioni per le quali nulla è stato predisposto dalle istituzioni tutte, per la tutela del costruito  e degli spazi ad essi pertinenti.

Una leggerezza il cui inizio ha avuto luogo dagli anni sessanta del secolo scorso e senza soluzione di continuità, ancora oggi mette a repentaglio, con la stessa inadeguatezza, il costruito, senza mai palesare ombra di dubbio sulla metodologia adottata.

Chiese, Palazzi Religiosi e Civili, Case di ogni strato sociale, Strade, Piazze, Fontane, in tutto, il genius loci, espressione dell’identità è irreparabilmente violato, per coprire incoscientemente lo scorrere del tempo, ritenuto, a loro  dire, vergogna.

Vige ormai da troppo tempo la regola dell’abbellimento, non prevedendo  rispetto verso il valore storco di quelle caparbie murature, a cui è stata affidato l’inopportuno carico di strutture moderne con nuove pretese di equilibrio strutturale.

Il risultato sta steso al sole delle piazze oltre all’ombra di vicoli e strade, quinte modificate piani di calpestio resi veicolabili che hanno restituito prospettive disarmoniche e cromatismi a dir poco esasperati, mentre sotto questa patina di abbellimento le caparbie mura sofferenti attendono l’eventuale verifica dei valori statici ignorati.

L’atteggiamento a dir poco irresponsabile, senza la guida di una regia responsabile ha prodotto un danno inestimabile i cui effetti li vedremo negli anni a venire sperando sempre che non accada.

In conformità a numerosi sopraluoghi e presa visione documentale, di un numero rilevante di progetti depositati o conservati nelle case comunali, emerge che nella maggioranza dei casi il libero arbitrio ha fatto da padrone e non solo al dato puramente dell’espressione architettonica, preferita e prodotta secondo il gusto dei proprietari committenti.

Ciò che più terrorizza covare dietro la quinta dello strato di malta dell’intonaco esterno e di quello pittorico, sono le scelte strutturali in senso di solai, piattabande, chiusura e apertura di nuovi varchi oltre ai noti solai di copertura, che tutti assieme producono un carico non alla portata di quelle antiche murature che pur se fortemente caparbie erano di spogliatura e calce malamente idratata.

Un pacchetto di esperimenti architettonici e strutturali che non trova luogo in nessun dove,  cui vanno aggiunti quanti sono intervenuti solo sostituendo infissi balaustre e ogni tipo di coronamento scenico delle quinte, che pur se marginali, comunque producono danno e violentano le prospettive di quei luoghi ameni che non torneranno più a ripetere gli echi antichi di un tempo.

Il 26 novembre 2019 alle 3:54, con epicentro a circa 12 km da Mamurras, un evento sismico di magnitudo 6,5  ha colpito l’Albania e dopo una prima fase emergenziale, per dare sostegno alle persone colpite, si è passati alla conta dei danni, avendo particolare attenzione verso il restauro e il recupero funzionale i degli elementi storici caratteristici Albanesi che anche se in maniera puramente ideale appartengono anche agli Arbëreshë.

In questi ultimi tempi sono numerose le illustrazioni di luoghi e di architetture storiche che sono poste in mostra perché devono essere restaurate o rese funzionali, tuttavia ciò che lascia perplessi è il volersi mettere in mostra, attraverso le notorietà dell’architettura spettacolo, che se può andare bene nelle aree petrolifere o ed esse pertinenti, non lo possono essere per la “Nostra Albania Storica”.

Comprese quelle realizzate dagli anni venti, che pur se contestabili per ovvi motivi, rappresentano uno dei momenti di rinascita della storia moderna Albanese; queste comunemente sono affiancate a soluzioni di quanti si ostinano realizzare boschi verticali o diavolerie alternative, che non sono proprio proprio affini a i temi dell’ambiente naturale, ricerca perenne di questo popolo.

Agli Arbëreshë, come gli Albanesi, con la natura conservano un patto storico mai violato; l’elemento naturale per gli Arbëri, Kalabanon Arbanon e Arbëreshë, è stato sempre fondamentale, vero è che pur lasciando le loro terre natie, si fermavano, dove esistevano gli equilibri paralleli della terra di origine.

Sula base di ciò quando bisogna, per necessità Strutturale/Architettonica a seguito di un sisma o vetustà, intervenire in un dato elemento costruito, specie se appartiene alla storia è indispensabile adoperarsi prima di ogni altra cosa a formare un gruppo di lavoro Albanese e Arbëreshë, gli osservatori d’ufficio, affinché tua sia svolga in conformità alle consuetudini storiche.

Oggi in Albania non si sente parlare di gruppi di lavoro multi disciplinari, comitati tecnico scientifici Albanesi/Arbëreshë, ma di sovente attraverso i social si appare in bella mostra con interventi già terminati dai quali emergono palesemente errori di valutazione a prima vista estetico, ma poi dietro le quinte quanti patimenti strutturali vivono?

Sa l’Albania sino a poco tempo addietro per le sue scelte politiche, sociali e di confronto con gli altri stati confinanti è paragonabile a un prezioso “ scrigno conservato in soffitta”, cerchiamo di non versare il contenuto  oggi che ci si appresta ad aprirli e leggere con sapienza il valore del messaggio che devono riverberare.

In altre parole l’Albania ha vissuto un lungo “Inverno”, ( Moti i vicher) è tempo che si approfitti dell’Estate, (Moti i madë) che tra poco più di un mese avrà inizio,  e secondo le antiche teorie dei saggi del passato, il tempo della semina, dei raccolti e dell’incameramento dei beni materiali ed immateriali, gli stessi a rendere gli Arbanon, uno dei popoli più caparbi del Mediterraneo.

Ogni Torre, Castello, Kastrum, Strada, Piazza o Vico, in Albania è rimasto intatto da secoli, per questo rappresentano l’eredita affidata dagli Arbëreshë agli Albanesi, se oggi i ministeri preposti o ogni sorta di istituzione che si occupa della tutela, specie se si ritiene di dover intervenire in termini architettonici o strutturali, le preposte autorità hanno il dovere di rivolgersi alla Regione storica Arbëreshë e chiedere collaborazione.

Notoriamente le terre Albanesi e quelle della Regione Storica hanno un legame ombelicale solido, specie per quanto riguarda gli aspetti linguistici e consuetudinari, se oggi i “Fratelli Albanesi” prendono consapevolezza di ciò daranno senso al patrimonio Architettonico di quelle terre.

I fratelli Albanesi hanno il dovere di chiedere agli Arbëreshë per essere adeguatamente informati, onde evitare di produrre adempimenti architettonici non consoni alle ideologie o alle linee guida.

Le stesse che poi trovano forma nell’edificato storico secondo le direttive del noto condottiero Scanderbeg e del suo popolo, specie se in Albania dove tutti sbandierano i suoi teoremi, ma poi alla luce dei fatti e a ben vedere, li potrebbero sin anche calpestare.

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