Archive | agosto, 2020

LE MINORANZE STORICHE APPRODI AVVANTAGGIATI RISPETTO LA MAGGIORANZA LOCALE

LE MINORANZE STORICHE APPRODI AVVANTAGGIATI RISPETTO LA MAGGIORANZA LOCALE

Posted on 27 agosto 2020 by admin

PesteNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La pandemia non sconfitta, si è insinuata nella nostra vita e per certi versi ne fa parte, tracciando, per questo scenari nuovi, secondo cui le attività sociali vanno riviste a nuova misura secondo un ipotetico, e non ben definito distanziamento fisico, igienico con le cose, riconfigurato nel rapporti tra ambiente naturale e ambiente costruito.

Ciò ha penalizzato a dismisura gli agglomerati in senso di metropoli, città e paesi di varia caratura, in ogni dove, ponendo tutti nella stessa linea di partenza, dal punto di vista economico, dei servizi e della partecipazione sociale.

Degli ultimi fanno parte i noti agglomerati storici detti minori come i Katundë arbëreshë dell’Italia meridionale.

Tutti ancora fermi sulla linea di partenza, a misurare distanze, paure ed economia, immaginando che ciò non estenda la pandemia anche in senso economico.

Certamente dei modelli costruiti delle urbe moderne quelli che hanno più possibilità di ripartire velocemente e che dovrebbero avere una corsia preferenziale sono proprio i centri detti minori, di cui fanno parte i Katundë Arbëreshë.

Potrebbero diventare proprio questi i modelli ideali, dove provare strategie future di convivenza sociale, senza impegnare somme esose, che se distribuite in anfratti metropolitani dove il controllo sfugge e non si comprende l’efficacia, con costi di altra misura economica.

Chi si dovesse trovare a dirigere questi piccoli centro, oggi o tra qualche settimana per il rinnovamento elettorale previsto, se idoneamente coadiuvato, potrebbero predisporre strategie di confronto secondo protocolli di facile attuazione, in quanto, veri e propri laboratori di ricerca.

Sia dal punto di vista degli uffici pubblico, sia dei presidi scolastici, oltre a tutte le attività commerciali e ogni genere che diversamente dalle metropoli, dalle città e i gran centri urbani non possono essere sottoposte a controllo.  

Nello specifico i paesi di origine arbëreshë potrebbero diventare laboratori a cielo aperto e attuare prove di del distanziamento sociale più opportuno secondo se si tratti di accoglienza, spettacolo all’aperto o al chiuso e ogni attività di promozione e divulgazione secondo il consuetudinario storico che ha superato, pestilenze carestie e ogni sorta di emergenza, senza mai modificare il rapporto, nel corso della storia, tra ambiente naturale, ambiente costruito e uomini.

Il razionalismo mai sfarzoso al chiuso, comunque sempre ventilato e temperato; strade strette, il cui rapporto con il costruito manteneva con espedienti naturali il valore di salubrità all’aperto.

Scelte strategiche che utilizzavano valori calibrati della forza eolica, solare e idrica; una sorta di labirinto in apparenza casuale, ma in realtà nato secondo canoni atti ad assicurare la vita di quanti all’interno di questi sheshi, continuavano a superare avversità di confronto, sia naturale e sia indotti.

Luoghi di convivenza che non sono stati mai abbandonati, sempre vivi per condividere gioie e dolori prospettando futuri di rivalsa sempre migliori.

Aggi si cerca il distanziamento sia fisico e materiale, si vorrebbero allargare strade case e palazzi, su quale base scientifica non è dato a sapersi, o meglio chi lo dice sicuramente non ha letto di storia o conosce gli avvenimenti del passato.

Quel passato che conferma con stati di fatto che nonostante la peste nera, la spagnola e ogni sorta di emergenza sanitaria vissuta, a nessuno è venuto mai in mete di abbattere il centro storico con pala e piccone, di Napoli, Firenze, Roma, Venezia o ogni capitale che di questi avvenimenti è stato teatro.

Dopo sei mesi di blocco, nessuno ha avuto il buon senso di alzare la bandierina per la ripartenza, sicuramente lo potrebbero fare per i piccoli Katundë arbëreshë come da seicento anni fanno e forniscono un nuovo modo di integrarsi e convivere con la nuova emergenza sanitaria, così come fecero con le genti indigene e i territori paralleli ritrovati riconoscendone da subiti limiti e potenzialità.

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ERA AD OVEST DEL PAESE LA DOGANA DEL BENVENUTO

ERA AD OVEST DEL PAESE LA DOGANA DEL BENVENUTO

Posted on 25 agosto 2020 by admin

Costa1NAPOLI ) (di Atanasio Pizzi) -Tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, Lalë Costa, abitualmente  riposava seduto su una panchina posta, in quel largo in ombra, davanti casa sua.

Un luogo di osservazione dove, lui, certamente aveva controllato i materiali e viste crescere le mura e gli orizzontamenti dell’agogniata dimora secondo i dettami più rappresentativi dell’architettura Sofiota.

Con l’ordine delle aperture al primo piano ad impronta dell’antico palazzo Arcivescovile locale e le modanature laterali a rilievo di intonaco a impronta bizantina.

La storica panchina, posta in quel largo, sul fianco orientale del vallone del monaco, dove per rendere più piacevole la quinta, e coprire la depressione naturale era stata piantumato un filare di acacie, che nel corso degli anni aveva realizzato in un’emozionante quinta naturale.

Lalë Costa era generalmente lì a salutare con simpatia chiunque usciva dal paese per recarsi a lavorare le terre e accoglieva quanti, tornavano con le membra stanche e affaticate, ma fieri del proprio operato .

Un luogo ameno noto a tutti, in quanto, ambito di attesa in senso di medicina, per l’attività dei figli e anche dal punto vista sociale, in quanto, luogo  di costruttive riflessioni e confronti.

Lalë Costa non era mai solo, perché essendo, la sua, il primo manufatto di rilievo del paese, era diventata come una sorte di  dogana dell’accoglienza e di benvenuto e lui, con sorrisi e gesta gentili, intratteneva passanti e amici che lì si fermavano o si recavano a discutere vivendo quel benefico anfratto.

La prospettiva principale erano le architetture rinascimentali del suo palazzo, ma non da meno era la vista del paese e delle montagne dell’Appennino citeriore, e i profumi e l’ombra che in tutto il periodo dell’estate Alessandrina offriva il filare di acacie.

Non commetto errore nel dire che non ci fu persona Sofiota che in quella panchina non si sedette almeno una volta sola e non ci sia stato gruppo di amici o gruppi di amiche, che in quel luogo ameno non si sia fermato a sognare futuri condivisi e unioni ideali.

Quel luogo è rimasto sempre vivo anche quando Lalë Costa non c’era più e la panchina era rimasta orfana dello storico personaggio.

Quella dogana di benvenuto termina di essere tale, quando il Dottor Carlo, figlio di Lalë Costa, passò prematuramente a miglior vita, lasciando lo spazio antistante nelle disponibilità pubbliche.

Agli inizi degli anni ottanta, il rinnovamento nel centro antico, in forma di abbellimento, ritenne più opportuno fornire uno spazio verde alla comunità, eliminando quella depressione naturale che faceva parte delle consuetudini locali.

Rigenerarlo e bonificarlo sarebbe stato più idoneo, rispetta al dato che la comunità avesse urgenza di uno spazio verde progettato  per il centro storico, nonostante questo, fosse circondato di boschi, uliveti gelseti e vigneti senza soluzione di continuità; un po come a dire che il mare avesse bisogno di una goccia per sopravvivere.

Oggi rimane solo il ricordo di Lalë Costa, e di quel luogo di accoglienza semplice; le generazioni che hanno avuto la fortuna di vivere quei momenti, specie per il fortunato bambino che accompagnando i suoi genitori, viveva l’atto delle dieci lire e del conseguente corsa verso l’ambito gelato, gesti semplici ancora presenti nelle vive mente di quei bambini diventati adulti.

Comunque sia restano i ricordi e ogni volta che si giunge nel vecchio centro antico, da ovest, nel piegare la nota curva, ti aspetti che da un momento all’altro ti appaiono i gelsi, la panchina e il vecchio Costa, che saluta con la mano e ti da il benvenuto; poi subito la realtà, tutto è cambiato.

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LA MINORANZA STORICA E LE SUE ECCELLENZE

LA MINORANZA STORICA E LE SUE ECCELLENZE

Posted on 17 agosto 2020 by admin

Fumo arbereshNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Affermare ancora oggi, che la minoranza storica arbëreshë sia passata indenne allo scorrere del tempo, perché ha vissuto lunghi periodi d’isolamento, è un teorema privo di senso.

Poi, credere pure che la sola espressione idiomatica è la medicina che guarisce ogni male di queste popolazioni non ha alcuna fondatezza scientifica, anzi si esalta il senso della banalità o della leggenda.

Cosi anche quanti appellano comunemente l’insieme della popolazione Arbëria (sinonimo di stato), poi la seminano  in ogni luogo, ritenendo che essa si trova dove, due o più parlanti s’incontrano e iniziano a parlare.

Alla luce di ciò è bene precisare che la minoranza storica, non va circoscritta esclusivamente nell’idioma, perché si finisce per sminuire l’apparato tangibile e intangibile, la vera piattaforma attraverso la quale si tramandare l’identità, priva di forma scritta e arte figurativa.

La forza nel tramandare di generazioni, è racchiusa nel consuetudinari che si produce tra madre in figlia e pare in figlio, consuetudini condivise e ripetute sino all’ultimo respiro del più anziano, per poi ricominciare.

Sono proprio gli ambiti, naturali e costruiti in conformità a esigenze per rendere solido e duraturo il modello esclusivo mediterraneo, che restituiscono l’unicum che fornisce il suo apporto agli ambiti economici e sociali del macro sistema, rimanendo intatto nel tempo, senza degenerazioni di sorta.

Ritenere che la minoranza storica sia un prodotto di esclusiva radice idiomatica, poteva essere un argomento utile e pregnante sino alla meta degli anni settanta, per scopi politici o di casta culturale nascente.

Se a quei tempi per un presidio di studio, si poteva volgere lo sguardo, tale teoria oggi assolutamente non può passare inosservata e lasciata libera di vagare!

Essendo stati aperti, nel frattempo che i presidi prendessero forma, nuovi stati di fatto, oggi è giunto il tempo di restituire dignità e una chiara visione di quanto realmente è avvenuto in sei secoli di tenuta culturale contro le tempeste dei riversamenti scritto grafici degli edificati del sordo e del settimo degenere.

Terminato il tempo di riversare o addirittura copiare delle altrui culture, questa è la stagione del riconoscimento identitario arbëreshë, chi ha la forza di seguire la china culturale con garbo e dedizione è il ben venuto.

Quanti diversamente credono di prendere parte armati di organetti e strumenti sonori discutibili, immaginando che battere il passo, sia indispensabile, sappiano che perdono il loro tempo e dovranno prima o poi pagare per il maltolto, con la propria coscienza, ammesso abbiano conoscenza di un tale frutto.

Non è concepibile, per questo, che ancora oggi si possa riferire che una minoranza sia il risultato di “un idioma”, pur se è consapevolezza diffusa nel riconoscere sia giusto studiare la totalità degli aspetti materiali e immateriali che la caratterizzano e la rendono parte integrante, anzi oserei dire, fondamentale di un ben circoscritto macrosistema culturale, economico e sociale di maggioranza.

Nel corso della storia, legare la caparbietà Arbanon al solo fuscello idiomatico è stato un adempimento paradossale, in quanto, esso rappresenta solo una parte di un albero molto più articolato e complesso, sia nella parte visibile fuori terra, e sia delle radici indispensabili a sostenerla e alimentarla.

I gruppi familiari allargati di Arbanon, hanno rappresentato nel corso della storia una macchina sociale ineguagliabile, capace di insediarsi in località o meglio in ambienti naturali ben adatti a riverberare il proprio modello, in cui i cinque sensi convergessero in armonia con i presupposti di allocamento ideali.

Un insieme finito composto da uomo, consuetudine e natura, caratteristica viva sino alla meta del secolo scorso e in buona parte ancora oggi si cogliere indelebilmente, attraverso la toponomastica storica e negli elementi  naturali e costruiti.

Identificare una minoranza storica, che riverbera con caparbia determinazione la propria identità dalla notte dei tempi, attraverso l’esclusivo tema idiomatico, non rende merito alla caparbia e valorosa popolazione.

Gli Arbanon, Arbëri e oggi Arbëreshë, è un sistema di radici che ha bisogno del propria ambiente naturale per crescere e produrre quell’albero capace di riverberare al contatto con il vento e l’ambiente la propria natura.

Essa si materializza in consuetudini, riti pagani e religiosi, per poi marcare gli spazi privati, familiari o intimi, con il proprio idioma, gli spazi all’aperto con la metrica, con i calendari rituali lo scorrere del tempo.

Questi ultimi in specie, per una furbizia storica degli arbëreshë, hanno adattato miti, leggende, paganesimo, grecismi e latinismi per sfociare oggi nell’epoca bizantina, conservando indelebile un sottobosco esoterico tramandato nel chiuso di grotte case e palazzi.

Ermetici e abili addomesticatori di terre, fiumi e cavalli, nel pieno rispetto dell’ambiente naturale, sono stati preferiti nonostante, le diffidenze per la chiusura identitaria, da Regnati, Papi e ogni genere di sistema territoriale politico e religioso, per la capacita di mantenere fede a ogni impegno preso.

Oggi la voglia di emergere e di rendere merito alla storica minoranza, sfugge al controllo delle istituzioni culturali, che nel corso degli ultimi decenni nonostante qualche frammento legislativo, sia stato prodotto, non ha germogliato neanche un frammento di arche del buon senso.

Oggi aspettiamo il momento della rinascita, si cavalcano le vie del costume senza ago, filo e metro; quelle del canto con strumenti musicali; quelli dell’urbanistica e dell’architettura senza matita e compasso; gjitonie copiate dal vicinato; calendari rispettosi di anomali latinismi, immaginando, che così facendo, si possa annaffiare le preziose radici identitaria ormai in penuria idrica, da diversi decenni.

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ASPETTANDO CHE IL DIAVOLO SCENDA IN CAMPO

ASPETTANDO CHE IL DIAVOLO SCENDA IN CAMPO

Posted on 13 agosto 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando un  progetto di tutela, è accolto dagli organi superiori di buon grado e gli altri, mi riferisco ai sottoposti, non ne comprendono l’importanza, si potrebbe anche farmene una ragione perché chi nasce litireë non sarà mai un arbëreshë.

Tuttavia se poi il frutto della operosa e interminabile intuizione, finisce nelle disponibilità economiche di chi non ha doveri deontologici, perché senza titoli professionali; la cosa infastidisce e non poco, specie se a prendere lo scettro organizzativo sono persone che non hanno ancora compreso, nonostante la loro età, con quali dispositivi navigare, cosa ancor più grave, per ripicca infantile, sono rimosse anche le persone che  hanno operato con dedizione.

Dicono che Shë Thanasi aggiusta ogni cosa: questo e vero, ma è sempre un Santo e per prassi divina, dopo una penitenza in preghiere, perdona.

Allo stato, si vorrebbe  informare, gli ignari operatori economico-culturali, che il letto dove nacque i direttore d’immagine, resta ancora allocato sotto la sella, si dice sia appartenuta al diavolo, questo  è noto che non sia attorniato, ne dall’incenso e ne della beatitudine specie quando si tratta dei suoi protetti.

P.S. Alla fine si ricordò anche chi partorì sotto quella sella e chiese favori.

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CARTA PENNA E CALAMAIO TENGONO IMPEGNATE LE MANI E LA MENTE DEGLI ARBERESHE

CARTA PENNA E CALAMAIO TENGONO IMPEGNATE LE MANI E LA MENTE DEGLI ARBERESHE

Posted on 08 agosto 2020 by admin

Pinocchio3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il percorso di tutela degli elementi caratteristici della regione storica segue l’ideologia del libero pensiero, come lo fu in quei giovani del 1799.

Si parte dal presupposto che dopo quella stagione il globo intero non ha più avuto una stagione cosi limpida e libera da ogni ideologia di potere politico o religioso.

È per questo che si raggiunse la più alta notorietà nell’intento di creare presupposti di cui avrebbe avuto godimento anche la regione storica, diversamente da come avviene oggi giorno, con sottomissioni riferibili a ideologie di varia natura.

Per questo, la narrazione per essere ben compresa, è fatta da quanti hanno educazione libera da pensieri alloctoni o condizionati, affinché il percorso di investigazione del seminato possa svolgersi, senza alcun precetto locale di arte e storia riversata.

Lo studio della Regione storica diffusa arbëreshë, segue gli avvenimenti di oltre cinque secoli, partendo dal presupposto che il patrimonio, oggi in parte compromesso negli ambiti dell’Epiro nuova e dell’Epiro vecchia, fu trasferito nella Regione storica Arbëreshë, per garantire una nuova via per il giusto apporto vitale del patrimonio in pericolo.

Per questo gli avvenimenti non devono e non possono sintetizzati secondo i limitati intervalli, pur se fondamentali, riferibili alla vita da arbanon di Giorgio Castriota, nelle mere vicende della gjitonia, citata come vicinato indigeno o nelle valje comunemente diffuse come il ballo tondo, per festeggiare stragi, battaglie senza titolo e senza trono.

Ciò nonostante, costatare che nei secoli e in diverse forme, a dir poco elementari, un numero considerevole di figuranti, ha ritenuto indispensabile tutelare il modello culturale per eccellenza di tutto il mediterraneo, tracciando con penna e calamaio, percorsi di alfabetizzazione, indirizzati comunemente verso quanti quest’arte non sapeva cosa farne e dove depositarla nei comò di casa è veramente paradossale.

Ai figuranti dal XVI che sino i giorno nostri si sono alternati in questa avventura, è sfuggito un dato fondamentale facilmente intuibile, ovvero, un modello culturale cosi radicato è protetto da questo popolo non è da ritenersi racchiuso esclusivamente nelle parlata idiomatica di locazione.

È conferma storica che il modello arbëreshë, non è solo un modo di esprimersi e parlare una lingua codice, ma ha anche elementi materiali e immateriali che la solidarizzano attraverso le consuetudini, i sistemi urbani tipici, nello specifico le dimore dove essa si riverbera senza mai perdere senso, perché avvolta e protetta dal luogo.

Sono i luoghi naturali e costruiti che la rafforzano, restituendo il senso linguistico; se esso continua ancora oggi a seguire imperterrito la sua strada, confrontandosi con le ire del tempo e della modernità, lo deve al luogo costruito dove sono stati depositati quei moduli abitativi, scrigno ideale di linfa buona per rigenerare il tesoro durante lo scorrere del tempo.

Sin dai primi esempi di modelli abitativi, furono realizzati secondo consuetudini che consentissero ai suoi abitanti di perseguire il rigenerarsi della specie secondo le proprie necessità, in senso generale e non preservavano esclusivamente uno dei suoi elementi caratteristici e caratterizzanti.

In questo percorso storico, culturale, sociale, urbanistico, architettonico, materico e di credenza arbanon, sono trattati argomenti i cui elementi s’imbibiscono nello scorrere delle letture storico-archivistiche, ambiti locali, trovando conferma nella sovrapposizione  di carte geografiche del meridione(G.I.S.), trovando conforto con le dinamiche politiche/sociali delle epoche riferite.

Va in oltre rilevato che i tomi dalle generazioni del passato pur se colmi del sapere di operanti alfabetari che di arbëreshë non possedevano o meglio non interessava avere una visione completa del patrimonio culturale, ma una regola da riversare per i propri fini.

Ostinandosi in questo modo a seguire una meteora ignota, annotando secondo le consuetudini di altrui genti ciò che intimamente numerosissime generazioni arbëreshë avevano difeso all’interno dell’articolato labirinto identitario.

Sono numerose le figure che comunemente confondono “Storia” con “Racconti”, questi ultimi ormai diventati leggenda, sono arte alchimistica diffusa, il cui fine mira ad adombrare il significato dell’accadimento o evento per fini personali o di casato.

Sono proprio questi ultimi a trasformarsi in veri e propri fiumi in pena, che formalizza e crea la comunità di “borgatari”,che si concretizzano come operatori in forma d’instancabili riversatori di cultura.

Essi si presentano come generici rappresentanti, elevandosi a vere e proprie dogane culturali locali; Bertine, sotto mentite spoglie.

Sono materialmente le vipere delle consuetudini, e per meno di tre danari, per una gloria che non avranno mai, distruggono e separano ogni cosa utile alla minoranza storica, giacché, nati per alimentare il girone degli Ignavi.

Vivono ai margini delle corti, in sottoscale dei potenti mercanti, vendono ogni cosa, persino il sangue culturale dei dotti, per stare più leggeri e rimanere a galla, per l’inopportuna posizione.

Gli appassionati cultori, sono gli unici ad avvertire la loro malefica presenza e infastiditi dalle movenze striscianti, con cui provano a darsi un contegno teatrante, nella sostanza sono “fumo malsano” che inquina perennemente l’ambiente culturale.

La loro missione mira a nascondere dividere e creare presupposti che rallentano la ricerca, non mettono in campo nulla per coinvolgere unire o confrontare l’opera dei dotti; figure nate perdenti, in quanto l’unica capacità innata si concretizza nel male, lo stesso che diventa consuetudine e ragione di vita e qundi ignari del loro operato deciso dal diavolo.

I “non fatti o le cose mai avvenute” sono le uniche azioni inconcludenti in grado di produrre, studi dozzinali, ripetitivi, talvolta fuorvianti, recepiti dalla gente comune con sensazione positiva.

L’attività di questi diavoli in pena, è di creare muri invalicabili contro la culture, cosa che gli riesce bene, perché si dispongono con furbizia vicino alla gente, inventando per nome e per conto di altri, atti e fatti percepibili dalla gente per un loro ipotetico uso o beneficio.

In altre parole sono l’esatto contrario di un ricercatore il quale produce “invece” rilevanti resoconti indispensabili alla gente che vuole capire, comprendere e decidere.

La Società di cui si compone la regione storica, non è ancora purtroppo «Aperta», in quanto, si distingue per gruppi secondo i quali le cose sono giuste se appartengono ad una categoria, le altre saranno da vedere a prescindere se esse siano giuste e finalizzate al benessere diffuso.

Tanti sono i figuranti e tutti accomunati nel principio secondo cui, la vittoria della scienza, la formazione e la cultura, esclude l’insieme chiuso e se ciò avviene, non sarebbero più in grado di porsi alla guida della nostra gente sottomessa culturalmente, per questo la loro battaglia perenne mira a far prevalere la mediocrità sulle capacità intellettuale.

Gente che non ha nessuna remora a minimizzare il lavoro altrui, definendolo qualunquista, oracoleggiante, profetizzante, ecc., quando il qualificato, oscura la loro visibilità o denuncia il loro lento e trasversale modo di fare ed essere.

Anche per tale motivo, questa nota rientra nel ventaglio di lotta contro tutte le dittature che tengono prigioniera la regione storica nonostante sia stata capace di essere la più integrata del mediterraneo.

Questa vuole essere solo un breve accenno di una più vasta ricerca sul Brigantaggio della cultura della regione storica che parte dal 1799 e inizia a scorrere imperterrita dall’agosto del 1806, seguendo una deriva culturale che tutti osservano e nessuno ha lo spirito di fermare, perche si ostinano a tenere le mani impegnate con penna carta e calamaio.

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L’ARCHITETTURA DEI CENTRI STORICI MINORI SI LEGGE NEGLI ANFRATTI NATURALI,  NON SI CERCA NEGLI ARCHIVI PER POI RACCONTARLA CONFORTATI DALLA “CARTA”:  ESSA, L’ARCHITETTURA, NON È ALTRO CHE IL CONNUBIO LOCALE TRA UOMO E AMBIENTE.

L’ARCHITETTURA DEI CENTRI STORICI MINORI SI LEGGE NEGLI ANFRATTI NATURALI, NON SI CERCA NEGLI ARCHIVI PER POI RACCONTARLA CONFORTATI DALLA “CARTA”: ESSA, L’ARCHITETTURA, NON È ALTRO CHE IL CONNUBIO LOCALE TRA UOMO E AMBIENTE.

Posted on 06 agosto 2020 by admin

800px-Plato_Silanion_Musei_Capitolini_MC1377NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La straordinaria quantità di nuclei urbani presenti nel territorio dell’Italia collinare, obbliga a riservare molta attenzione nel tentare una qualsiasi definizione per identificare i detti ‘centri storici minori’.

Anzi è bene ribadire che il termine utilizzato dagli  urbanisti, è considerato come certezza di tipologia,  raffinata integrazione tra ambiente naturale e arte locale degli uomini.

Sul termine minore, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, perché l’aggettivo, fa riferimento a un sistema costruito non nel tempo di una stagione, come avviene per l’architettura tutelata, ma sovrapponendo ere, esigenze e patimenti, per questo uno dei patrimoni più diffusi e caratterizzanti una ben identificata area mediterranea.

Centri storici minori sono la memoria diffusa di più epoche e per questo bisogna prestare molta attenzione nel considerarli di seconda categoria e magari ritenersi liberi nel definirli comunemente come Borghi.

L’Architettura dei piccoli centri minore è l’insieme di manufatti che definiscono l’ambiente costruito, accogliendo nel corso della storia, elementi architettonici sovrapposti secondo le necessità dell’economia popolare dall’alba del rinascimento.

In sostanza essi non sono altro che l’espressione delle tecniche di edificazione locale, gli elementi e i materiali tipici, gli schemi distributivi dell’edilizia, prima rurale poi urbana residenziale e in fine nobiliare, ossia le tradizioni costruttive in consolidato equilibrio rispetto alle condizioni dei luoghi e sempre rispettosi dell’esigenze di umini e ambiente.

Essa rappresenta il sunto delle condizioni economiche, il susseguirsi della formazioni delle classi sociali.

Nel corso dell’ultimo ventennio in ogni latitudine meridionale e in specie nella regione storica, è fiorito un nutrito numero di studi intorno al plurisecolare cammino della minoranza e non solo, i cui riferiti hanno avuto come argomento i centri storici minori e gli accadimenti di crescita sino i giorni nostri.

Il risultato finale di questa fioritura, che avrebbe più senso identificare Xylella, giacché la natura e la formazione degli autori, non avendo  alcuna cultura in fioriture,  produce un danno pari al noto sterminio degli uliveti pugliesi.

Le nozioni attinte dalle fonti più disparate e senza alcuna capacità di lettura e confronto con il territorio, ha seguito la via dei noti stregoni locali, per continuare, il componimento, con una forma di autorevolezza archivistica di ogni dove, per poi terminare con considerazioni storiche urbanistiche e architettoniche, addirittura strutturali, a dir poco infantili.

Tutto ciò avendo ben cura nel disertare le letture dei testi di cui il meridione è ricco o quelli storici che forniscono una solida traccia di base, da cui elevare gli eventuali progetti di studio; lo stato di cose ha innescato processi per i quali, a vario titolo sono apparsi alla ribalta fatti e conclusioni, la maggior parte dovute ad temi, dilettantistici.

Di essi fanno parte, generalmente figure che raggiunta l’età della pensione o addetti che trovandosi di fronte un qualsiasi documento, si elevano a ricercatori, che, presi d’amore per il natio loco, producono, testi a dir poco acerbi anzi innaturali o immaturi per l’ambito descritto.

Sono essi i cosiddetti “scrittori locali”, che trattano le vicende del  proprio “borgo”  (e già fanno il primo errore con questo appellativo) dal  lato prettamente  municipalistico, o per meglio dire di Baskia, occupandosi in genere esclusivamente del tema locale, dissociato, distaccato e disconnesso con la storia del comprensorio di cui il centro è parte.

Spesso tali lavori sono approntati da persone con il “pallino” della storia e, di pari passo con l’usuale  lavoro,  svolgono questa attività senza alcun confronto con gli specialisti locali o di quelle determinate discipline, che non fanno parte del loro percorso curricolare, che in molti  casi è ignoto.

Costoro, potrebbero essere definiti come gli storici dell’alchimia locale, sono per questo da considerare pericolosi rispetto lo storico professionista, soprattutto perché offrono  loro  notizie  forviati, in quanto lette e interpretate senza alcuna capacità di confronto con il territorio e gli specialisti locali, che dovrebbero iniziare a rispettare e riverire.

Tanti prodotti, anzi direi pericolosamente troppi prodotti editoriali, sono spesso infarciti di grossolani  errori e i loro autori seguono fedelmente quanto ammannito dagli antichi scrittori, specie quelli  estrazione professione avrebbero dovuto  redimere le anime, questi sono poi proprio coloro che accoglievano ogni bubbola come fosse oro colato, diffondendole nei loro comizi domenicali .

Ben più grave a tal proposito è la posizione degli istituti di cultura che avrebbero dovuto vigilare, e invece accolgono e spalleggiano tali prodotti con sorrisi ironici, che se da un lato si illudono di garantire la superiorità intellettuale dell’istituto, dall’altro lasciano diffondere eresie ed imprecisioni, che a breve richiederanno l’indispensabile apporto di  veri esperti, per differenziare la storia con le innumerevoli ilarità

La presente indagine, che studia tale produzione, vuol lanciare un grido di allarme e di dolore, affinché tale stillicidio della storia, le eccellenze delle architetture minori, non finisca in un soffritto dove a consumarsi sono, paesi, terre, contrade, fortilizi, castrum, e katundè, e vedono emerge sempre solo ed esclusivamente il rozzo e germanico Borgo germanico/francofono, nonostante la lingua italiana per la sua pulizia di espressione ci offre appellativi più coerenti e adeguati, per evitare che globalmente diventiate riversatori della storia locale.

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GLI ARBËRESHË E GLI ALTRI DEL PAESE DI FRONTE

GLI ARBËRESHË E GLI ALTRI DEL PAESE DI FRONTE

Posted on 03 agosto 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Che tra Arbëreshë e gli odierni abitanti di quello che rimane delle antiche terre d’oltre Adriatico, ci sia una radicale differenza non c’è ombra di dubbio alcuno, anzi direi è culturalmente sostanziale, in quanto, i falsi aquilotti sono un incrocio degenere della peggiore specie.

Se poi analizziamo la radice con quello che rimane dell’antico fusto, si resta basiti nel costatare che tutto è fasullo e nulla potrà restituire la linfa antica, come fa da sei secoli la trapiantata in regione storica continuando a fiorire ancora oggi e produrre frutti raffinati.

Di sovente, da un po’ di anni giungono come conquistatori negli ambiti della Regione storica Arbëreshë, personaggi a dir poco stravaganti, i quali immaginando che essa sia una provincia d’oltre adriatico di loro proprietà, si manifestano senza alcuna dignità culturale apparendo come marionette senza garbo e forma.

Non è concepibile dare spazio a tali giullari dal gomito alto; individui con la copia (pure sbagliata) dell’elmo dell’eroe di quella nazione, appellato sin anche con il nome dello storico nemico, vera e propria caduta di stile, di gusto e di irriverenza per noi educati arbëreshë.

La regione storica, è una fonte inestimabile di consuetudini, idioma, metrica, religione, in tutto una cultura inestimabile; quanti vi si recano per abbeverarsi non si devono permettere ne di manomettere i cannoni e ne di inquinare quelle limpide acque.

Se non siete in grado di rispettare questi fondamentali guide, restate sulle vie maestre e non addentratevi nei campi incontaminati, che noi arbëreshë tuteliamo da secoli.

Noi non leggiamo pagine rosa o ci inchiodiamo, da abusivi, davanti alle altrui frequenze televisioni popolari; gli arbëreshë di buon senso generalmente studiano e si applicano nelle discipline più consone alla tutela del consuetudinario storico più longevo e puro del mediterraneo.

Gli arbëreshë, quelli veri, non ballano e ne cantano in turco; chiama Giorgio Castriota il Grande l’eroe e se gli uffici Italiani del paese di fronte, ogni tanto donano busti e statue, con l’auspicio di segnare il territori a impronta turca, sappiano, che sino ad oggi, tutte e dico tutte quelle effigi sono state malamente collocate, prive di ogni  senso storico culturale, come la consuetudine insegna.

Il colore Rosa non appartiene né alla lettura e né alla tradizione degli arbëreshë, i colori nostri è bene che sappiate, sono il Rosso (e non vi meritate di sapere cosa indica), il verde (e non vi meritate di sapere cosa indica), il blu (e non vi meritate di sapere cosa indica), il porpora(e non vi meritate di sapere cosa indica), la trama dorata(e non vi meritate di sapere cosa indica), il bianco (e non vi meritate di sapere cosa indica).

Che voi skipetari siate poveri in ogni senso, lo dimostrate con i fatti, specie quando vi svendete per bevande non contemplate nel disciplinare del trittico mediterraneo “la nostra legge alimentare”, o un piatto di pasta fatto male ed eseguito peggio e poi addirittura pernottate in un letto sporcato dagli altrui rapporti.

Nasce spontanea la domanda: cosa avete letto e quali canali televisivi avete approcciato sino a oggi?

Cosa credete di fare quando andate ramenghi con l’elmo di un personaggio che non rispettate pur essendo il vostro eroe.

Quell’elmo che inopportunamente postate sul capo ha tanti significati che se avreste studiato, potreste essere considerate persone culturalmente formate e vi vergognereste di aver portato cosi allegramente  senza alcun rispetto lungo le vie e i luoghi arbëreshë.

Egregi fratellastri degeneri del paese di fronte, noi abbiamo un eroe per ogni katundë, essi non facevano guerre ne sopprimevano persone con la spada, vivevano di cultura di leggi, di scienza e cooperazione, immaginavano modelli sociali a favore e per il bene del popolo.

Scalarono gli olimpi più ambiti d’Europa, sedendo sulle vette, osservati e riveriti dalle menti più colte di tutto il globo.

Essi si chiamavano, Pasquale Baffi, Pasquale Scura, Luigi Giura, Francesco Bugliari, Domenico Mauro, Angesilao Milano, Giuseppe rev. Bugliari, Rosario Giura, Antonio Rodotà, Giuseppe Bugliari, Giorgio Feriolo e tanti altri, almeno il doppio dei novantacinque paesi, che costruiscono da oltre sei secoli la Regione Storica Arbëreshë.

Per quanto ci riguarda storicamente e culturalmente come modello da emulare preferiamo loro e un po’ meno, l’aquila a due teste e lo Skander, che  alla luce degli sviluppi, dell’odierna società sarebbe il caso di iniziare a stendere veli consistenti  per coprirne le gesta, forma e contenuti.

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