Archive | luglio, 2020

NATA IL 16 LUGLIO 1916, MIO PADRE LA CHIAMAVA LINA

NATA IL 16 LUGLIO 1916, MIO PADRE LA CHIAMAVA LINA

Posted on 16 luglio 2020 by admin

ALIENAZIONE ARBËRESHË NELLA CINTA SANSEVERINENSENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Prima di vestire una ragazza o signora con il costume da sposa arbëreshë, invitava a casa sua il richiedente accompagnato dalla persona da sottoporre al rito, a bere un caffè o assaporare uno dei suoi saporitissimi taralli.

Questa chiaramente era una scusa o meglio una verifica per comprendere, a misura puramente visiva, se fisicamente la ragazza avesse caratteristiche fisiche indispensabili per portare quelle preziose vesti.

Molte volte si traduceva in un diniego con la scusa che erano state da poco riposte e avrebbe richiesto troppo lavoro, slegarle e toglierle dai legamenti di modellazione.

Altre volte la richiesta era accolta e nei giorni seguenti si dava luogo al lento rito della vestizione, previa raccomandazione di recarsi generalmente da Frangiska i Pasionatith per la pettinatura di base; denominata “kesheth” : un simbolico modo di raccogliere i cappelli in forma sferica lievemente schiacciata dietro la nuca, serrati con appositi nastri in cotone di colore bianco, emblema di adduzione alimentare naturale.

La ragazza nel tempo in cui aveva bevuto quel caffè, in effetti aveva superato ignara la prova fisico anatomica, denominata con gli abbreviativi in arbëreshë: ( G. B. S. e M.) senza i quali non sarebbe stata considerata idonea per  la vestizione con garbo,  gusto e senso del rito.

Ogni cosa doveva collimare perfettamente, niente era lasciato al caso, sino a che gli indumenti più a contatto del corpo e quelli più esterni di terzo grado, i più appariscenti, rispondevano rigidamente al protocollo della vestizione, senza l’ausilio di generiche appendici o apparati di accomodamento non consentiti, perché avrebbero snaturato sia il valore religioso e sia quello della credenza popolare.

Tutte queste regole Adolina, li aveva ereditati dai parenti più stretti della dinastia dei Basile, che avevano provveduto a crescerla, in quanto, orfana della madre quando lei era ancora una bambina.

Un compendio di elementi consuetudinari tramandati oralmente che non finivano solo con la vestizione del prezioso costume, ma con tutte le regole che accompagnavano la vita degli arbëreshë nel corso dello svolgimento del calendario Bizantino,

 Orgogliosa di portare il cognome più sacro e più nobile del mondo degli arbanon, non ha mai smesso di mettere in evidenza consuetudini antiche che se non attingevano direttamente dal Kanon poco mancava, a tal proposito ne sapevano qualche cosa quando si discuteva di strade a confine con don Achille un omaccione rozzo e senza principi e maleshi, i quali voltavano i tacchi quando lei, minuta ed esile, li affrontava a muso duro dicendo, sapete bene quali sono le regole per utilizzare queste strade.

La ricorrenza dei morti, la pasqua, gli appuntamenti agresti, le consuetudini culinarie all’interno della propria abitazione e ogni ricorrenza, quali il Natale e l’Epifania erano preparate con dovizia di particolari, nel avvicinarsi della ricorrenza e il giorno dell’evento e nella fase di ricollocazione del vivere quotidiano.

Persona fine e considerata all’interno della comunità al punto tale che ogni matrimonio, ogni preparazione della residenza, degli sposi, compreso il letto matrimoniale, richiedeva sempre la sua supervisione finale, per risultare di buon gusto e garbo.

Noto era sin anche il  forno di proprietà, per i manicaretti indispensabili alla settimana che precedeva il  matrimonio; prima allocato nella sua vecchia casa, ka lemi litirith e poi ka Shigiona, quest’ultima residenza più raccolta, ma sito famoso per produrre dolciumi locali e per panificare.

Non si commette errore nell’affermare che dagli anni settanta e sino alla fine del secolo scorso, non ci sia stato matrimonio che non abbia visto protagonista quel forno, allestito in quel vivace ambito Sofiota,  famose rimangono anche Rosina, Silvia, Sofia, Maria Teresa, Adelina, Annamaria e tante altre, registe onnipresenti per la produzione dolciaria e consuetudinaria di innumerevoli matrimoni locali andati a buon fine.

Esperta sarta del costume arbëreshë condivideva l’arte con Rusaria  Pigionith  e Sarafina Rikuth, non veniva indossato abito tipico a Santa Sofia se una delle tre non fosse presente, come quando negli anni sessanta venne chiesto di realizzare una bambola con vestizioni arbëreshë, queste tre insostituibili figure, per meglio produrre il singolare componimento sartoriale, ( il primo manufatto in miniatura sartoriale a impronta dell’arte del cinquecento napoletano) non si chiusero nel protagonismo locale, ma coinvolsero tutto il paese, per produrre il migliore manufatto condiviso, ma i più eguagliato a Santa Sofia e in ogni dove.

Richiesta quando si voleva ben figurare per la rigidità del consuetudinario arbëreshë e stata lasciata sola quando si è trattato di applicarle nel suo guscio familiare, chissà se si sentirà ripagata da lassù, nel vedere in seguito dibattersi chi le diceva di esserle amica, alle prese degli stessi adempimenti per i quali, fu lasciata sola.

Lei era mia madre Adolina i Congòrelith, un esempio di cui IO! Sono Fiero.

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NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO  INIZIEREMO A CAMMINARE.

NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO INIZIEREMO A CAMMINARE.

Posted on 15 luglio 2020 by admin

AthanorNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Regione Storica Arbëreshë ha avuto una brusca frenata relativamente agli appuntamenti d’estate; comunemente appellate Valje, e dell’inverno con i soliti riversamenti di cultura; a tutt’oggi non si riesce a comprendere come e quando questo “modo di confrontarsi” avrà termine.

La pausa, causa del Covid-19, e il conseguente distanziamento fisico o per meglio dire isolamento sociale, è comunque un’opportunità “irripetibile” per ricalibrare l’Athanor per ottenere la pietra filosofale tanto attesa e molte volte millantata, per la sostenibilità tangibile ed intangibile della regione storica.

La calibratura dei soliti riversamenti di cultura, la ricerca archivistica confrontata con il territorio, renderà più chiare le vicende della storia, elementi indispensabili per manifestazioni irripetibile e indispensabili a restituire solidità alla compromessa radice minoritaria.

Premettendo che questo non vuole essere un indirizzo definitivo, ma visti i risultati solidamente ancorati a documenti e territorio sino a oggi ottenuti, sono da ritenere come una traccia da percorrere per una meta certa da conseguire.

Ragion per la quale l’esser sati interrotti in manifestazioni canore, culturali, folclorico e di sviluppo del territorio, viene intesa come l’opportunità, per ricollocare elementi multi disciplinari nel forno ovoidale; l’Athanor con l’auspicio che la combustione sortisca nella pietra filosofale arbëreshë tanto attesa.

Tracciare la storia degli omini che della regione storica ne hanno fatto una ragione di vita presenta numerose difficoltà. Queste storie molto spesso sono propinate al pubblico come «storie di Scrittori», senza badare che si tratta, nella maggior parte dei casi, di «cose» diverse, di storie uomini che della scrittura conoscevano bene Latino e Greco mentre l’arbëreshë lo sapevano solo parlare e che muo­vono in una direzione che si chiamava ricerca del «BENE DELLA COMUNITÀ – ED ALLA GLORIA DEGLI UOMINI DI TUTTO L?UNIVERSO».

Gli arbëreshë rappresentano la parte buona della società in ogni epoca e, come sovente accade, anche qui trovano rifugio avventurieri e ciarlatani, alla continua cercano di entrare a farne parte del glorioso elenco di eccellenza, per trarre qualche profitto personale.

Dimostrare che siano riusciti a distrarre l’Istituzione storica dal suo compito principale di formazione degli uomini a scapito dell’ esaltazione delle loro virtù  diventa sempre più preoccupante, a tal proposito e per scoprire le loro vesti sarebbe il caso interrogarli pubblicamente durante i loro rocamboleschi concerti e spegne una volta per tutte la falsa pietra filosofale, che dicono di possedere, dentro le casse armoniche di organetti mandolini e le pelli tese dei tamburi.

Adesso che inizieremo finalmente a camminare, per essere atleticamente mentalmente e liberi da falsi miti e comini leggende parallele, dobbiamo liberarci, dei veli pietosi che ci offuscano la mente oltre la copiosa polvere, che appesantirebbe il nostro cammino di eccellenza.

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PASHKALI I BASHITH;

PASHKALI I BASHITH;

Posted on 11 luglio 2020 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – .Un Sofiota, vero, emblema incontrastato della storia letteraria della odierna Regione storica Arbër, arche ancora oggi vive secondo il buon progetto lasciato in eredità dall’eroe Arbanon, Giorgi Castriota di Giovanni.

Santa Sofia rappresenta per questo un’icona indispensabile per la storia della minoranza e Pashkali i Bashith per le sue note, (la maggior parte carpite e rese pubbliche da fraterni traditori), rappresenta la via per la migliore applicazione delle caratteristiche linguistiche, sociali, metriche e religiose della regione storica.

Egli, con i suoi studi, in capo storico e della definizione linguistica arbëreshë, è il primo a riferire che non ci fosse alcune legame tra la lingua arbëreshë e la lingua greca, se si escludevano, chiaramente, alcuni prestiti come si usa fare nel buon vicinato territoriale.

Affermazione più certificata di questa l’intera galassia linguistica non poteva averla, dato che “Bashith” fino a prova contraria è stato la figura più titolata delle lingue greche e latine sino al giorno della sia morte l’11 Novembre del 1799.

Comunemente si enuncia, senza averne consapevolezza della sua grandiosità culturale, che non abbia scritto nulla in arbëreshë e quindi non rientra tra le eccellenze della minoranza; affermazione a dire poco bizzarra, perché se volessimo confrontare quanti hanno scritto in arbëreshë, con quanti hanno fornito linfa pura e costruttiva come il “Bashith” apriremmo il dibattito che la regione storica tiene coperto con panni a dir poco indecenti e da troppo tempo ormai.

Pashkali i Bashith in poco meno di un trentennio, è riuscito a laurearsi da solo; insegnare nell’università più antica del meridione; passare nella scuola più moderna del settecento; diventare una delle prime figure ad interessarsi della questione meridionale; creare il promo catalogo bibliotecario del meridione; diventare ministro della Repubblica “una e indivisibile” partenopea; ricevere accreditamenti e riconoscimenti dalle espressioni culturali di tutta Europa, compreso Angelo Maria Bandini.

Tutto questo mentre il suo paese, meno uno, non aveva consapevolezza di tanta luce, non rendendosi conto della sua grandezza neanche quanto il gran tour, portò letterati dall’Europa a curiosare nella stanza dove egli nacque.

Tanto lustro e tanto sapere che persino chi ebbero modo di tradirlo, scippando pochi appunti del suo sapere, fu accolto con benemerenza dal clamore e l’eccellenza dei salotto europei per quelle idee libere da imposizioni, reali e vaticane.

Una cosa è certa, chi ha seminato sapienza e sapere rimane sempre visibile agli occhi di tutti è non ha bisogno di essere annunziato, chi si è sporcato di fango per essere illuminato, attenderà inutilmente che venga la pioggia: egli non sa che l’anima non si lava con acqua.

Buon Compleanno “Pasquale Baffi” di Santa Sofia D’Epiro.

Un tuo Paesano

Atanasio Architetto Pizzi

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DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

Posted on 06 luglio 2020 by admin

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel 1975 un gruppo di studiosi dell’Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, si è recato in ricognizione nelle macro aree della regione storica arbëreshë alla ricerca dei centri di minoranza linguistica rilevandone i vari aspetti identitari.

L’occasione fu fondamentale per individuare previa analisi dei luoghi, un numero considerevole di nuclei urbani, i cui elementi caratteristici in forma di cultura tipica erano riconducibili alla minoranza storica arbëreshë.

A quel dato di valutazione i centri urbani, furono individuati, visto anche il poco tempo a disposizione, in numero di novanta cinque, così suddivisi: Nove in Sicilia, Cinquanta in Calabria, Sei in Basilicata, Diciannove in Puglia, Due in Campania, Uno in Abruzzo, Otto nel Molise.

Il rilevato in numero di comuni arbëreshë, del 1975, non ebbe a crescere, nonostante nuovi dipartimenti iniziarono a produrre storia, letteratura e ogni tipo di adempimento, sorvolarono sul fondamentale principio del genius loci,  favoriti oltremodo dalle leggi che dagli anni ottanta miravano alla difesa delle minoranze storiche .

Il sovrapporsi delle leggi e degli eventi produsse una sorta di anomalia numerica che invece di integrare e far crescere la consistenza numerica dei paesi, creò una sorte di “unione riservata, una sorta di borgo chiuso”, che non superava le cinque decine, il tutto stranamente proprio alla vigilia che rendeva attuativa la legge 482/99.

Il dato appare sconcertante perché, invece di aumentare di numero, per il crescente studio predisposto e proposto da molte università, il numero è stato dimezzato alla luce del solo fattore di estrazione idiomatica.  

Nonostante la presenza arbëreshë è confermata, anche in nome di Greci di Schiavoni o Slavoni, per la credenza religiosa radicata nel loro modello consuetudinario, la storia li nomina come gli addomesticatori di terre, le stesse a essere oggi il vanto della viticultura storica delle colline meridionali e dell’Italia centrale.

Più in particolare, per la loro capacità di muoversi in gruppi familiari allargati, riconosciuti come sistema autosufficiente capace di essere radicato in un qualsiasi ambito collinare e porre a regime perpetuo il trittico mediterraneo in senso generale, si continua a menzionarli e tutelarli secondo le disposizione della legge 482/99 che fa confusione perfino tra Albanesi e Arbëreshë, non citando nei suoi articoli  mai appellativo della minoranza storica italiana.

Ricerche approfondite del meridione italiano, peninsulare e insulare, alla data del maggio 2019 individuano con certezza circa il triplo dei paesi certificati, come paesi di origine arbëreshë o casali ripopolati per essere poi continuamente vissute da dinastiche che se pur hanno perso la valenza linguistica, conservano i modelli edilizi in forma urbanistica, architettonica e le consuetudini tipiche riconducibili al sociale e al regime produttivo dell’area agreste di pertinenza.

Che un centro abitato sia stato innalzato e realizzato dagli arbëreshë, non è solo legato all’espressione linguistica, la stessa che per forme di rotacismo può mutare nei secoli.

Tuttavia la minoranza storica anche in senso di regione possiede come identificativo, la metrica non intesa solamente come espressione idiomatica, ma anche in senso di consuetudini, religione e tutta la filiera di adempimenti tipici nell’insediarsi, dare spazio alla crescita edilizia, la stessa che notoriamente li rende differente dai sistemi urbani indigeni, limitrofi.

Un confronto che può essere fatto con dati storici e sociali inconfutabili, perché se le genti arbëreshë portavano con loro un tesoro identitario non scritto, è anche vero che il luogo per tutelarlo doveva rispondere a caratteristiche in grado di non compromettere quella radice solo fatta di forma idiomatica.

Non è concepibile che comunemente i paesi arbëreshë sono associati a “borghi”, quando il tempo del loro innalzamento o ripopolamento, appartiene al periodo del rinascimento e ben lontano dal buio medioevale.

I piccoli centri collinari di radice arbëreshë, oggi, li troviamo in forma di casali, castrum, civitas e un’ampia definizione di agglomerati urbani di quel meridione notoriamente caratterizzato dai bizantini, dai greci e non certo dai longobardi invasori, gli stessi abituati a rintanavano nel buio delle loro murazioni, per vivere, vita da carcerati per consuetudine.

Gli arbëreshe appartengono al periodo dei nuclei urbani aperti, sono il prototipo delle odierne luoghi senza vincoli distinzioni e classi sociali, gli stessi che la società moderna mirano a raggiungere; la stessa meta che gli arbëreshë vivono da sei secoli, in quella che si identifica regione storica diffusa arbëreshë.

Ragion per la quale ritenere che un pese arbëreshë sia legato solo a metriche di carattere linguistico vuol dire essere irriverenti verso un modello che non deve, è non può essere considerato monotematico.

Valga di esempio cosa succedeva nel 1835 a Ginestra degli Schiavi un paese notoriamente arbëreshë, oggi provincia di Benevento, già a quei tempi piegata la popolazione, da decenni alla lingua degli indigeni locali, in una nota storica del prete di estrazione latina, riferisce come gli abitanti del piccolo centro, ricordassero e santificassero alcuni appuntamenti religiosi senza attinenza con il calendario latino, ma ogni anno in date specifiche si fermavano a onorare i defunti, accendere falò o produrre manicaretti e riunirsi in conviviali manifestazioni.

Se a questo aggiungiamo il dato inconfutabile di riconoscimento rilevato in un convegno del 2017, grazie al quale sono state attestate la posizione geografica, lo sviluppo storico dal punto di vista urbanistico e architettonico l’articolazione di spazi strade e vicoli propria della casistica dei paesi arbëreshë, Ginestra degli Schiavoni ha avuto ampia certificazione che non basta perdere la consuetudine linguistica per essere riconosciuti illegittimi.

La stessa cosa si può dire di Casal di Puglia, dove notoriamente a oggi parlano la lingua arbëreshë un numero considerevole di abitanti, tuttavia non riconoscendosi negli spazi e nella distribuzione del centro antico.

Durante un convegno è stato ampiamente confermata da una ricognizione in loco e attraverso carte storiche e la toponomastica storica corrente anche in forma dei rioni kishia, Bregu, l’enigmatico Sheshi e l’insieme Katundë, con le rispettive fontane che il sito ha un’impronta tipica delle genti arbëreshë.

Se la comunità scientifica odierna si ferma all’identificativo di una popolazione storica come gli arbëreshë, solo ed esclusivamente al’intensità con cui è pronunziata una favella antica, è il caso di rivedere i progetti e magari consigliare di ritornare a sedere dietro i banchi di scuola.

Questo perché è una forma di non rispetto, verso quanti sanno fare e propongono componimenti completi, senza mai mettere da parte, il violentato e vituperato, anzi direi volutamente escluso, GENIUS LOCI ARBËRESHË.

Una minoranza storica detiene un patrimonio, colmo d’infiniti elementi caratteristici, sia in forma tangibile e sia in forma intangibile, ridurre tutto nella parlata locale come il solo emblema identificativo, offende tutte le genti che nel corso dei sei secoli di storia ha dato se stesso per tramandare l’antico modello.

Per terminare, si ritiene poco rispettoso verso i “TANTI” che hanno dato, rispetto ai “pochi” che non avendo nulla da perdere si sono nutriti di bighellone rie culturali e minare irreparabilmente uno dei quattro elementi fondativi della minoranza arbëreshë.

Si potrebbe presupporre che non sapessero, ed erano ignari del tema che calpestavano; ma se fosse vero, perché si sono prodigate a pregare che l’orticello spontaneo continuasse a dare i propri frutti, gli stessi, che  non  sanno neanche contare.

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QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

Posted on 03 luglio 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Con i principi che guidarono la Rivoluzione del 1799, i Borbone e l’Europa intera, comprese che eliminare fisicamente gli antagonisti, liberi pensatori, non era più sufficiente, bisognava deviare le nuove idee e piegarle per il proprio tornaconto.

Oggi se analizziamo con dovizia di particolari, quella metodica di eliminazione fisica e ideologica, essa viene applicata senza alcuna mutazione, nella regione storica, in particolare in quel luogo, dove senza soluzione di continuità trova applicazione dal 11 novembre del 1799, se si esclude la parentesi di progetto sino all’agosto del 1806.

Se l’eliminazione fisica non è più praticabile per ovvi motivi, quella morale in senso di razzia letterale, scippo di concetti, plagio di idee verso quanti vivono l’esilio culturale (volontario di memoria) è una prassi che non smette di terminare.

La vile abitudine di appropriarsi delle altrui ricerche dipende dalla vicinanza e dall’interesse che si vuole derubare e si manifesta nelle figure di: Fratelli, Parenti, Gjitoni e persino in “Garzoni di Bottega” che dopo che hanno rubato gli attrezzi del maestro,  si illudono di essere ciò che non saranno mai.

A queste indicibili figure a due facce, (non per unire come simboleggia e vuole, l’aquila a due teste civile e di credenza divina, ma per dividere), va tutto il più intimo disprezzo per l’egida attività cittadina.

L’atteggiamento denota la deriva culturale diffusa fatta di frammenti di cose, “moto rotatorio perpetuo”, in cui ad essere protagonista è il cane il di cui unico scopo, non è la tutelare della casa del padrone, ma ostinatamente perde tempo nell’intento di accalappiare con i denti la coda.

A tutti questi, “amici”, è bene ricordare che la genuinità culturale, frutto di sudore mentale, è un codice; per questo di un solo proprietario.

Enunciare e portare avanti discorsi altrui è peccato, specie se il frutto ottenuto ha richiesto grandi sacrifici economici, fisici, prodotti oltretutto in contro corrente rispetto le masse, libere di pascolare nei campi fatui.

Comunemente  si racconta in alcuni ambienti,  che la migliore arma sia il perdono, sarà pure vero è il alcuni casi l’ipotesi potrebbe essere comprensibile, tuttavia le “pratiche di viltà, perpetrate nel tempo e alle spalle dei Grandi”, stanno sul tavolo del Diavolo, allora il metro di condanna, diventa un problema molto caldo nel breve termine e freddo nell’attesa del lungo termine.

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