NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Le insule abitate dalla popolazione di radice arbëreshë, s’identificano sin dalla loro origine come agglomerati urbani diffusi o“ proto città aperte” in base alle regole con cui in origine gli esuli sì insediarono per la crescita futura; realizzate e vissute, dopo una radicale bonifica territoriale di media valle, rappresentano un fenomeno sociale urbanistico irripetibile, giacché per rispondere alle esigenze dell’epoca venne utilizzata la metrica consuetudinaria Bizantina.
Gli agglomerati e l’insieme delle sei insule diffuse della Regione Storica Arbëreshë, si possono identificare in silenziosi tasselli d’integrazione Mediterranea o pagine inesplorate stese al sole.
Attraverso la lettura delle caratteristiche territoriali e dell’edificato storico, si possono estrapolare quale siano state le valenze per il rilancio sociale economico e culturale meridionale, in senso di uomini, pensiero e tradizioni, con radice i temati dall’Impero romano, quando la capitale fu Costantinopoli.
Gli ambiti bonificati e gli edificati dagli Arbëreshë, vanno considerati come veri e propri contenitori di una raffinata cultura, le di cui origini sono sancite, non in produzioni scritte e grafiti da interpretare, ma nel riecheggiare di una lingua ermetica ed essenziale.
La stessa che avvolge magicamente ambiti ed elevati per poi incidere solchi inamovibili entro i quali scorrono la memoria e l’animo da ereditare, secondo l’inalterata/impenetrabile consuetudine.
La stessa sfuggita, sei secoli orsono dalle angherie di imperterriti avversari che cercavano di sopprimere; prima nelle terre poste al di la dei mari Adriatico/Ionio, da cui fuggirono; oggi dopo sei secoli, raggiunti ancora una volta dagli stessi persecutori, sotto altre vesti, si tenta di riprendere, dove interrotto, lo sterminio culturale di quanti vivono la Regione storica.
Quest’ultima considerazione è supportata dall’analisi dei disciplinari, secondo cui si dovrebbe tutelate le Caratteristiche che rende unica la storia di questo popolo antico.
Esse seguono la falsa rotta di tutela, senza alcuna cautela, attenzioni e rispetto, verso le residuali caratteristiche che segnano quei territori in senso di luoghi, di uomini e innalzati da loro prodotti nel corso della storia.
Nonostante dai tempi di M. O. Servio, venisse suggerito: “nullus locus sine Genio” , secondo cui nessun luogo era da ritenere privo di intelligenza umana coadiuvata dalle opportunità naturali del territorio, il genio dell’uomo si sviluppava e cresceva in stretta cooperazione alle naturali opportunità offerte del territorio.
Ciò premesso, la discutibile ed elementare tutela, in continua regressione culturale, ha innescato processi paradossali, per i quali e attraverso i quali sono state dismesse, danneggiate e in molti casi addirittura distrutte, considerevoli porzioni del tangibile Arbëreshë e ad oggi non si riesce ad avere misura di quanto male sia stato fatto, sia negli ambiti diffusi Arbëreshë che nella stessa nazione Albanese.
Sono le “rotte storiche” della minoranza, eseguite secondo protocolli di “ricerca sotto i fumi dell’inconsapevolezza”, la stessa che perennemente distratta nel guardarsi attorno tralascia gli ambiti attraversati, bonificati, costruiti e vissuti, nonostante fossero proprio questi i luoghi fisici dove vennero innestate le radici della caparbia popolazione.
Non si commette alcun errore nel costatare, che furono innumerevoli e tutti asincroni i filoni letterari, folkloristici, liturgici, iconografici e canori, ricollocabili nei luoghi vissuti e costruiti in Arbëreshë.
L’incapacità di lettura e interpretazione delle figure preposte che sono di tipo privato e pubblico, nel voler dimostrare a tutti i costi di saper operare in quelle discipline, si recava a copiare concetti e consuetudini altrui e contribuire incoscientemente a stravolgere i valori della minoranza, a iniziare dal dopo guerra del secolo scorso.
Basta solo citare due delle più grandi sviste, purtroppo di questa misura esiste una ricca trattazione, venne sostituita in un capitolo di studi storici indigeno,la parola Vicinato con Gjitonia, per non parlare poi della svista storica che confondeva, addirittura, una lamia di marmo di una macelleria del XIX secolo, con l’altare di una chiesa cisterciense del IX secolo, questo è il metro con il quale sono state tutelate, difese e divulgate le consuetudini della minoranza arbëreshë dal punto di vista sociale storico e architettonico.
Chiaramente l’asticella delle ilarità imperterrita continua ad elevarsi, infatti, il continuo peregrinare trova la sua espressione massima nelle libere e personali interpretazioni dell’idioma, la letteraria e la metrica canora, queste in specie, nonostante disponessero, di presidi mirati e finanziati pubblicamente, si sono ostinati a volgere lo sguardo oltre Adriatico, penalizzando quanto solidamente innestato e ancora vivo nel territori paralleli ritrovati e incernierati nel: Sociale, l’Antropologico, l’Economia, stravolgendo addirittura le ere Geologiche e l’Architettura.
È chiaro che non è più sostenibile promuovere dinamiche storiche del tangibile e dell’intangibile arbëreshë, esclusivamente con mere veste colorate, tralasciando il senso delle diplomatiche e del portamento indispensabile per il valore dell’abito, tra l’altro non trovano ragione nel comune riconoscimento e della sostenibilità possibile, entro gli ambiti ben distinti da quelli indigeni adiacenti, in quanto non riverberano suoni e note di sfumature colorate tanto uniche e particolari.
Sarebbe una grave perdita culturale amalgamare in un unico prodotto di sintesi, ritenendolo genuinità del mediterraneo, quando la differenza sostanziale tra costumi, usi, e favella delle genti indigene, fiorisce petali senza senso, quando è innestata dove innalzarono e abitarono i rami dell’originaria radice arbëreshe.
Esiste un legame diretto, una capacità tenace, una vibrazione unica e irripetibile che porta a distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, si chiama promessa; essa rappresenta l’origine della parola data; l’onestà di vivere per mantenerla; la caparbietà di rispettarla e consegnarla intatta prima di finire questa vita terrena.
Le sintonie parallele che hanno generato i Katundë arbëreshë nascono quando gli esuli riconoscono i modelli geografici, orografici, la salubrità del territorio, l’equilibrio naturale e fisico, ereditato attraverso il vissuto con i loro padri, giacché, la lettura di documenti e atti antichi non erano parte della loro disciplinata e impenetrabile cultura.
Appare evidente che estrarre certezze con protocolli inesistenti in forma scritta, si è ben allontani dal modello di indagine più idoneo degli arbëreshë, specie se chi lo ha fatto non era un parlante di lingua madre, è per questo che il progetto cui si ambisce di realizzare affida la sua metrica alle arti e all’architettura nata in queste macroaree con figure nate e cresciute astretto contatto con il territorio e i suoi abitanti storici, i quali, non solo conoscono il territori, ma possono interpretare e riconoscere sia la favella antica degli uomini e sia il riecheggiare della natura che ti avvolge.
È questo lo spirito con cui si vogliono approfondire gli argomenti di tema iniziando ad informare, avendo cura di saperle accogliere, le generazioni più giovani le uniche titolate ad accogliere e amplificare nel tempo le irripetibili nozioni per un più confronto condiviso con le realtà contigue.
La ricerca all’interno dei centri storici di macroare, fornirebbe elementi connessi tra di loro in seno a cultura, religione, scienza e arte locale, per un’unica sostenibilità possibile.
Tutto questo anche alla luce dei nuovi eventi migratori di cui il meridione rimane sempre approdo sicuro e possibile, visti i risultati eccezionali d’integrazione mediterranea ottenuti con protagonisti gli arbëreshë.
Lo stesso che il presidente della repubblica Italiana, ripeteva a San Demetrio Corone, lo scorso novembre con l’enunciato: gli Arbëreshë rappresentano il modello d’integrazione diffusa, in età moderna, nel mediterraneo.