NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) Esprimere pareri diffuso su quale figura accostare alla storia degli Arbëreshe e degli Albanesi, significa paragonare le gesta di “San Giorgio” che ebbe ragione del drago a quelle di “Alessandro Magno” noto per allargare i confini del suo regno.
Gli Ottomani, all’indomani dell’espansione dell’impero romano d’oriente verso l’occidente, si attivarono per imporre religione e consuetudini più che sopprimere popoli.
La missione mirava a marchiare con l’innalzamento di presidi religiosi il territorio e con persuasioni intangibili le popolazioni residenti: un modus operandi passato agli onori della storia, per le strategie adottate, secondo le quali, dopo le armi seguivano i temi dell’inculturazione.
Sulla scorta di questo breve cenno, ritengo non sia idoneo l’utilizzo dell’appellativo Scanderbeg, assegnato dai Turchi a Giorgio Castriota, al fine di attivare una vittoria infinita, che ha luogo in ogni tempo e in ogni dove, se utilizziamo l’appellativo; come immaginato dal perfido e lungimirante stratega Ottomano.
Senza correre indietro nel tempo e perdere il senso di questo discorso, ritengo sia opportuno iniziare lo svolgersi degli eventi dalla battaglia della Piana dei Merli, combattuta il 15 giugno 1389 nella spianata dell’odierno Kosovo.
Anche se i tempi in cui ebbero luogo gli avvenimenti sono precedenti alla nascita di Giorgi Castriota, la battaglia rappresenta l’inizio di quelle dispute in cui l’eroe albanese, alcuni decenni dopo, diverrà il riferimento di numerosi e incancellabili scontri in chiave religiosa.
La mitica battaglia, contrappone, i valori cristiani da una parte e mussulmani dall’altra, i cui fini da entrambi gli schieramenti miravano si a primeggiare per allargare i propri territori, ma anche a donare la vita, certi, che in caso di morte, avrebbero avuto, un posto di rilievo nell’aldilà.
Per rendere più chiara questa breve esposizione e dare la misura di quanti presero parte alle ostilità, va precisato che Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, più noto come Conte Dracula, valorosi oppositori, dell’avanzata ottomana, in favore del cristianesimo; erano i discendenti diretti di due dei principi che istituirono e presero parte attiva, nel 1408, all’Ordine del Drago.
Esso non era altro che un apparato cavalleresco o lega di mutuo soccorso, ideato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione di Alfonso d’Aragona re di Napoli, di Giovanni Castriota, di Vlad II principe di una regione storica della Romania e di altri principi cristiani consapevoli di doversi legare in coalizione per contrastare le ingerenze del sultano prevaricatore.
Giorgio Castriota e Vlad III Tepes, Dracula, avendo vissuto le stesse imposizioni private e familiari da parte dei turchi, nell’arte della guerra furono protagonisti incontrastati per le norme con cui preparavano gli scontri in campo aperto, contro le soverchianti forze nemiche; Giorgio, usava attendere le truppe in movimento nelle prossimità delle spianate di battaglia e renderle orfane dello stato maggiore, per poi infliggere il colpo di grazia in campo aperto; Vlad III, ancora più efferato di Giorgio, giocava sulla psicologia delle truppe e allestiva lungo i percorsi, impervi e tortuosi, quindi molto lenti da attraversare, macabri allestimenti di prigionieri, ragion per la quale, le truppe terrorizzate erano demotivate nello scontro sul campo di battaglia.
L’Ordine del Drago, cui i principi appartenevano, aveva lo scopo di rafforzare la difesa della comunità cattolica e nel frattempo disponeva obblighi, compreso il mutuo soccorso attraverso il supporto delle famiglie degli affiliati che perdevano la vita in quelle sanguinose battaglie.
Correva l’anno 1413 e nell’Albania superiore o del Nord Giovanni Castriota, uno dei principi, uomo forte, prudente e di cristiana fede, dovette piegarsi ai Turchi, per tutelare la capitale Krujë, dove era stato assediato insieme alla moglie Voisava Tripalda, i figli Reposio, Stanista, Maria, Costantino, Giorgio, le figlie, Yiela, Angelina, Mamizia e Vlaica, oltre ad un numero considerevole di abitanti dei suoi territori.
Le regole cui si attenevano i Turchi in questi frangenti di conquista, consistevano nella consegna dei figli maschi, i discendenti legittimi di quel governariato e, in questo caso specifico, di Reposio, Stanista, Costantino e Giorgio.
Il patto di sottomissione evitava l’eliminazione fisica dei vinti oltre a lasciare indenni quanti in quelle terre abitavano e avrebbero continuato a valorizzarle.
Quando ciò avvenne, Giorgio, il figlio minore del principe Giovanni, aveva appena nove anni e, pur se il più piccolo, ultimo nella scala per la discendenza, gli osservatori dell’epoca rilevavano che per la sua stazza ne dimostrava molti di più.
Giorgio e i suoi fratelli, appena consegnati alla tutela dei Turchi, pur avendo ottenuto ampie garanzie sulla libertà di religione, giunti a corte furono battezzati e circoncisi secondo i riti mussulmani, cambiandone anche il nome.
Reposio fu lasciato libero di diventare monaco ortodosso; Stanista e Costantino preferirono la vita di corte, convertendosi ai paradisi che offriva la corte turca; e Giorgio, appellato Alessandro, mostrò ben presto ottime qualità come lottatore, combattente e stratega, diventando in meno di un decennio beniamino del sultano, guadagnandosi il grado di sangiacco oltre all’appellativo di Scanderbeg, perché secondo i i mussulmani era da paragonare ad Alessandro Magno.
Le attività nelle quali egli eccelleva lo rese protagonista incontrastato nelle battaglie combattute ora in Grecia, ora in Ungheria, comunque sempre distante dalle terre d’origine.
Nonostante l’amore e il rispetto verso la religione cristiana, depositati nel suo animo dai genitori, così come le consuetudini di radice arbër, mostrò le sue doti a favore delle armate dei mussulmani per circa un quarto di secolo.
Portò a buon fine battaglie, sottomise intere provincie, avvalendosi della sua bravura nel predisporre strategie, coadiuvato da un suo gruppo di fidi sottoposti, sino al 1444, epoca in cui presero una svolta definitiva gli eventi posti in essere dalla mente ottomana di tornare, a cui erano sottoposti lui e i suoi cari.
Le sue gesta a favore dei mussulmani giungono sino alla fine del 1443, quando si diffuse la notizia che il padre, Giovanni, era passato a miglior vita, anche se s’ipotizza che ciò fosse avvenuto, sempre per cause naturali, all’incirca un anno prima e tenuto nascosto per ritardare le pretese dei Turchi; tuttavia questi ultimi si presentarono nel maniero di Krujë a pretendere il possesso e la gestione di quel governariato.
Com’era consuetudine per gli Ottomani, l’antico patto andava messo in atto e allo scopo fu inviato il generale turco Sabelia, con un consistente corpo d’armata, a impossessarsi delle terre di Krujë, sicuro tuttavia, di non incontrare opposizione alcuna.
Così avvenne, quando i Turchi, si recarono a pretendere il trono per conto di Reposio (Caragusio), a riscuotere la corona paterna; comunque adoperando l’arte dell’inganno, perche quest’ultimo pare fosse morto da qualche; entrarono a Krujë e assunsero la gestione della città oltre a quanti erano affiliati al governariato dei Castriota.
Tuttavia l’atteggiamento denotava lo scarso valore che i mussulmani ponevano nei convincimenti delle persone provenienti da diversa radice culturale; vero è che ben presto la storia vedrà Giorgio protagonista, in quanto, allineato alla causa dei Cristiani, imprimendo un solco nello scenario delle dispute, così profondo e indelebile da innalzare il condottiero Arbanon a emblema del cristianesimo di quel quarto di secolo, a venire.
Oltre alle norme con cui i Turchi richiesero la gestione del trono del defunto Giovanni Castriota, va rilevato che misteriosamente in quel tempo passarono a miglior vita anche i due fratelli maggiori di Giorgio; sicuramente avrebbe anch’egli seguito quella sorte, se non fosse stato per il suo scaltro e distaccato atteggiamento verso tali accadimenti.
Giorgio Castriota, rimasto solo, appariva compiacente verso il Sultano, sin anche quando questi spiegava di aver agito per la difesa del suo patrimonio, esposto alle mire dei principi limitrofi i quali senza scrupolo e riconoscenza verso la memoria del genitore defunto miravano ad usurparlo.
Ma Giorgio preparava con minuziosa regola Kanuniana, la“Besa”, per onorare le vicende di quel ricatto, oltre il sangue dei suoi fratelli versato; agiva con la stessa metrica tipica dell’ottomano usurpatore, al fine di recuperare la sua corona e la guida del suo popolo.
I Turchi sino alla dipartita del padre dell’impavido condottiero avevano portato avanti la metodica di conquista, sottovalutando un dato non di poco conto, e cioè, pur se di solo nove anni G. Castriota (**), aveva già innestato nella sua morale i valori e le regole consuetudinarie della “Besa”, radicate e impresse nel suo essere arbër.
E nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità guida cristiana, già “comunemente denominato Scanderberg”.
Le autorità, tra le più note dell’epoca, convenute allo storico appuntamento furono: Arrianiti signore della Provincia Canina, Calcondila e Rafaele Valoterano; Teodoro Corona signore di Belgrado, amico particolare di Giovanni padre di Giorgio Castriota; Paolo Ducagini, il più considerato principe d’arbëria; Nicolò Ducagini, Giorgio Arianiti, Andrea Topia, Pietro Pano, Giorgio Dufmano, GjergjBalsha, Zaccaria Altisvevo, Stefano Zorno Vicchio, Scura/Scuro, Vrana, Conte e altri di minor nome, quali Stefano Darenio, Paolo Stefio, oltre ai deputati della repubblica di Venezia quali osservatori e certificatori di quell’incontro.
Quando i cristiani principi furono dentro il sacro perimetro, Giorgio Castriota prese la parola e fece un discorso con il quale esternava la sua preoccupazione verso le forze dei mussulmani, che conosceva molto bene, per cui sarebbe stato grave se non si fosse comunemente pervenuti a un’unione per fronteggiare uomini e mezzi di considerevole portata, cosi dicendo:
“Superfluo stimo, Principi ottimi, e sapientissimi che io imprenda a descrivervi l’odio, e la rabbia dei Turchi contra i seguaci di Gesù Cristo, e come quelli non pensino ad altro che ad annientarci, ad estirparci, tanto sitibondi del nostro sangue, che ingordi dei nostri beni: avveguacchè questo vien purtroppo dimostrato da tante ferite, di cui e coverta tutta la Cristianità, e la medesima Arbëria, gli stessi Principi albanesi possano essere citati agli altri in lacrimevole esempio. Onde piottosto mi volgerò a esporr, quale sia stata la cagione delle nostre dissaventure; acciocchè di presente vediamo a quale rimedio abbiamo ad applicare.
Piangono a lacrime di sangue i popoli Cristiani le fatali discordie dei Principi loro accusandogli essere loro stessi i fabri dei propri disastri e tutti esclamando al cielo accordandansi tratto in pronunciar queste parole: se i Principi Cristiani, che sono travagliati dal timore, e dal pericolo di sogiacere infime, all’incontro ridurrebbero facilmente il Turco in ultimo e sterminio. Ma che io mi trattenga a narrare le tragedie degli altri principati, non mi è permesso dalla compassione verso i miei fratelli scielleramente uccis, la quale tosto mi chiama a dichiarare d’onde sia derivata la miserabile ruina della mia casa.
Giovanni mio Padre, Principe una volta vostro compagno, essendo stato assalito dal Sultano dei Turchi, il quale alla testa di un’armata egualmente numerosa, che agguerrita obbligava tutti i potentati vicini a piegare, ed a sottomettersi, trovandosi esso solo alle mani col prepotente assalitore, ne vedendogli soccorso da parte alcuna, fu costretto alla fine a rendersi per vinto, e accettare delle condizioni che tacitamente conteneano l’ultimo eccidio della sua casa, cioè l’ussurpazione del Principato, e l’uccisione de’ Figliuoli, dopodichè fosse avvenuta la sua morte; (io solo rimasto in vita per volere del cielo: e spero per le dovute vendette di tali scelleragini).
E se quella diffusione che a quei tempi era tra i Principi Arbër, la quale ha lasciato perir miseramente mio padre perseveri eziandio ne’ miei presenti pericoli, diverso esito dal paterno non posso certamente aspettarmi. Pure l’interesse del mio Principato, e della mia vita non ridursi a parteggiar condizioni di quella, ovetrovavasi per l’addietro. Ma avete da sapere che la salute vostra, ugualmente che la mia, al presente sia sull’orlo del precipizio.
Imperociocchè: che credete? Che il Turco allestisca le sue armi solo contro di me, e non pensi ad altro che al mio eccidio? Piacesse al cielo che la cosa fosse altrimenti; e quella fiera di me provocata a danni dell’ Arbëria restasse saziata, e non piuttosto irritata dalla mia strage.
O fortissimi Principi, non vi conturbino i tristi avvisi dei vostri presenti pericoli, i quali poi vivo sicuro che indubitatamente vedrete finire in vittoria, e in trionfi, se darete orecchio ai miei eterni consigli.
Tutti noi per dio immortale dal primo fino all’ultimo, tutti i Principi d’Arbëria, tutta l’ Arbëria volge e ravvolge ora il rabbiosissimo turco nei suoi soliti continui pensieri de’ Cristiani estermini. Se tutto ciò non meditasse il Turco, il quale ha per legge del suo ampio Profeta Maometto, ha per esempio de’ maggiori, ha per natura , ha per consuetudine di fare quanto può distruzione di tutti quelli seguono il nome di Cristo, e dell’eccidio d’un Principe Cristiano passar sulla medesima carriera a quella d’un altro. E di già parmi di questo punto di veder Amurate, in mezzo ai ministri delle sue crudeltà, e scelleragini, tutto spumante di rabbia, e ira, dopo aver minacciato a me, ed ai miei sudditi di far soffrire tutte le sorti di strazi, e di suplizi, rivolgersi a ringraziare il suo profeta Maometto che li abbia mandato quest’occasione di ristaurarsi nell’acquisto dell’ Arbëria dalla perdita che aveva patito della servia: quindi dar ordine ai capitani di quest’impresa, dopo che abbiano finito d’eseguire il mio sterminio rivolgano tanto sto l’armi contra gli altri Principi Arbëri, e che non manchino di menare a’ suoi piedi voi carichi di catene, ormeno di gettarmi le teste vostre. Questi sono i sentimenti, questi sono (credete a me, credete alla mia lunga inveterata esperienza di quella corte, di quei costumi: credete a tanti orridi esempi e vecchi , e nuovi e stranieri e domestici) questi, dico, gli ordini, questi comandi del Turco. Questo ha da essere il tragico inevitabile fine dei principi albanesi, se tutti noi non si colleghiamo insieme per fare testa al nimico comune. Vi rappresento per verità, o degnissimi Principi, cose orrende da dirci, e sentirsi: ma io in quest’occasione opero a giusa di medico il quale spiega all’inferno i rischi del suo male, acciocchè si disponga alla necessità de’ rimedi.
L’unione è l’inica strada, per cui ci possiamo metterci in salvo dai mali, di cui siamo terribilmente minacciati: e si vede Iddio volerla assolutamente ne suoi fedeli, se essi all’incontro vogliono essere sostenuti dalla sua protezione. L’Ongaria, la Transilvania, la Bulgaria, la Servia fintantocchè la diffusione è stata tra esse, sono state abbandonate, dallo sdegno celeste, in preda all’avarizia, e alla crudeltà dei Turchi.
L’anno passato essendosi stati collegati insieme i Principi di queste Provincie, Iddio parimenti accompagno con la sua assistenza l’animo loro: per modo che riportata la più gloriosa vittoria che sin ora si celebri del nome di Cristiano, hanno costretto di rincontro il Turco a ricevere tutte quelle leggi, e condizioni,che loro sono piaciute imporgli. Abbiamo davanti agli occhi un si recente, e un si illustre esempio.
Iddio non mancherà d’aiutare i suoi Fedeli, quando essi non tralasciaranno di darsi mano l’una all’altro. Che quando il turco ai tempi di mio padre coll’armi entro in Arbëria, gli sarebbe forse riuscito di sottometterla al suo giogo, se alla comune difesa si fossero uniti i principi Arbëri? La difficoltà allora fu la cagione che l’Arbëria divenisse misera e schiava dell’Ottomana prepotenza: ora dunque l’unione, la concordia la renda all’opposto vittoriosa, e trionfante de’ fuochi crudeli nemici, quando ha fatto l’Ongaria, Le forze di questa provincia sono come tante piccole riviere che scorrono per diverse parti: le quali, se si raccogliessero dentro un alveo solo, formerebbero un grandissimo,e insuperabile fiume.
Le onde questa nostra unione mi toglie ogni paura, e infonde nel mio cuore una vera speranza di fare strage de’ Turchi, con cui loro credono di sterminare noi altri, e di rendere glorioso per tutta la terra nelle vittorie contra L’Ottomano possanza il valore degli Arbëri, quando quella degli Ongari.
Io che in fin da fanciullo per più di trent’anni ho menato la vita in compagnia dei Turchi, sono versato di continuo trà l’armi loro, divenuto maturo nell’arme loro, e credo che abbia abbastanza appreso tutte l’arti, e tutte le maniere del lor guerreggiare, posso con fondamentale promettere, e con ragione sperare qualche cosa contro di loro; e se quando era lor Capitano ho in non pochi, non leggeri cimiteri di battaglie felicemente vinti e debellati i lor nemici, ora di certo dessi aspettare che non operarò di manco per la conservazione della mia patria, e per la salute de’ miei compagni, i quali per mia occasione mettano a repentaglio la mia vita, e ogni loro fortuna. Ne va dia poi alcun travaglia la fama della possanza dei Turchi: Ne voi più tremiate loro, ch’eglino sperino in se stessi.
Pochi mesi fa sono stati da Unniade, e degli Ongari sconfitti in una battaglia campale, dove hanno perduto il nervo, e il fiore delle loro milizie: ciò ch’è loro rimasto, altro non è che un ammassamento di gente vile, paurosa, fugace, tutta canaglia, senz’esperienza.
Sembrano gli eserciti Turcheschi spaventare con quel numero tonante di cento,di dugento mila combattenti ma di che cosa mai può valere contro dei forti uomini tanta quantità di si fatta gente: se non intaccare il ferro loro più col macello, che col combattimento. Le vittorie dipendono più dal valore, che dal numero.
La battaglia di Morava(per raccontare degli esempi nuovi, e insieme recenti) serve di prova bastante a questa verità: ove Unniade con un’esercito di gran lunga inferiore sbagliato con una incredibile facilità, e tagliò a pezzi una poderosa armata de’ Turchi. Non V’è differenza in Iddio a rendere vittoriosi, quando gli piace, i suoi Fedeli, tanto se siamo pochi, come molti. E se quelli sono giunti a fare tanti acquisti dentro l’Asia e l’Europa, ciò non è stato effetto della virtù loro, ma bensì provenuto dalle discordie, dei principi Cristiani. E queste, credetemi, sono le uniche speranze, su cui al presente si fondano di farsi padroni degli Stati de’ Principi Arbër.
Ma se apprenderanno poi l’unione che è stata formata fra noi altri, spero molto che possano da loro abbandonati i pensieri della spedizione albanese: e se mai oseranno si attaccarsi, non ho alcun dubbio che ciò abbia a riuscire che a lor’onta, e perdita, secondo che è lor avvenuto contro l’Ongaria. Vedete dunque prudentissimi principi, la presente condizione della salute nostra, e a quale passo siamo ridotti. Se viene il Turco come una fiera ferita dall’Ongaria a cercar rabbiosamente le sue vendette contro l’Arbëria. Se saremo disuniti e uno non soccorresse l’altro, standosene freddo, e mal consigliato spettatore della tragedia del vicino, parimenti un dopo l’altro a giusa di tante derelitte pecorelle faremo tutt’in fine divorati da quel crudele lupo.
Se poi ci accoppiaremo insieme, e uno darà mano all’altro, imitando l’esempio del re d’Ongiaria verso il Despoto della Servia, medesimamente qualche luogo dell’Arbëria, com’è il fiume Morava della Bulgaria, sarà nobilitato sarà nobilitato dalla strage dè Turchi . Avete, o degnissimi Principi, udito quale sia lo stato presente dello stato delle cose nostre. Dall’odiarna deliberazione dipende o la salute nostra, o la nostra ultima ruina.
Io vò ho spiegato l’universale pericolo, e in fine i mezzi di un felice di riuscimento. Facciamo che un giorno la memoria di questo concilio abbia a consolarsi, non ad attristarci. Non evvi affare di maggiori agevolezza, quando quello che tutt’è appoggiato al nostro volere.
L’esecuzione di tutto ciò che ho progettato sta nel vostro consentimento. Iddio dunque, fa tale la sua volontà che resti salva l’Arbëria, infonda nei Principi albanesi lo spirito della concordia e dell’unione contra quegli empi nemici dè suoi Fedeli; e piaccia alla sua Provvidenza che ancor passi come in eredità à posteri a loro perpetua conservazione.”
La nuova stagione con vesti cristiane ebbe avvio e vide il valoroso condottiero Arbanon esprimersi brillantemente nella missione a difesa della cristianità, infliggendo sonanti sconfitte agli avversari, nonostante questi si presentassero con forze spropositate, per questo divenne ben presto riferimento per la cristianità romana e non solo.
Giorgio Castriota dal 1444 si distinse in numerose battaglie, intervenne a favore degli Aragonesi contro le armate Angioine, nella battaglia di Troia (oggi provincia di Foggia) in località Terra Strutta presso il Katundë arbëreshë di Greci, posto in un promontorio strategico posto a ridosso della via Traiana.
Alla vigilia della battaglia che vedeva contrapporsi Angioini contro gli Aragonesi, gli Orsini di Taranto, inviarono al condottiero Arbanon, una missiva, nella quale lo esortavano a non partecipare alla disputa, in quanto di pertinenza privata extra religiosa.
Purtroppo i nobili tarantini ignoravano i legami che univano Giorgio Castriota con i regnati Aragonesi e si videro rispondere, che il legame con quel casato era radicato in valori paterni di un patto antico.
A questi episodi di corrispondenza privata, seguì la nota battaglia tra le terre della Daunia Pugliese e il Fortore Campano, terminate nell’agosto del 1460, anche se l’intervento del principe Arbanon era iniziato tempo prima con l’invio di suoi fidi a presidiare il territorio e preparare la battaglia tra il casato Ispanico contrapposto ai Francofoni e i loro seguaci.
Ristabiliti gli equilibri a favore degli Aragonesi durante la sua permanenza, il condottiero arbanon, ebbe modo di descrivere “le Arché dell’infinito arbër”, in altre parole, linee strategiche caratterizzate ripopolando Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) per controllare i territori ad eventuali focolai de i Principi locali sedata definitivamente nella sala dei Baroni del Maschio Angioino nel 1486.
Altri due viaggi a Roma e a Napoli dal 1464 al 1466 videro protagonista Giorgio e il suo seguito di fidi, in tal senso va ricordato il discorso di Giorgio rivolto alle truppe tra Roma e Perugia, prima di muovere per la crociata molto voluta dal papa e mai portata a termine, per la dipartita misteriosa di quest’ultimo, per una febbre anomala, proprio poche ore prima di benedire il condottiero, il suo seguito e l’esercito in partenza da Monte Sant’Angelo).
Altra occasione degna di nota è la sua visita a Napoli, la sosta a Portici ospite di nobili locali la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla nascita di via della Libertà) da dove si mosse la mattina seguente per giungere nella capitale del Regno, giungendovi dal lato orientale della città, il rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguitosi diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero
Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, che ebbe modo di avere luogo, accogliendo a Napoli Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota, i suoi figli e alcuni anni dopo la figlia di Vlad III, conte Dracula.
Questo spiega perché Andronica A. C. dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, dimostrando di essere una buona madre, in quanto, le vennero affidate finanche le discendenze reali, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara per attendere che la fanciulla affidatale raggiunga l’età per maritarsi, infatti svolta questa ulteriore missione materna, la vedova di Giorgio Castriota si trasferisce a Valentia dove muore nel cristiano ricordo del marito; viene seppellita nel monastero della SS. ma Trinità posta oltre il ponte che scavalca il fiume Tùria.
Al tempo la scelta preferita della vedova di Giorgio, lasciò perplessi il Papato e i Dogi veneziani e altre stirpi nobiliari del mediterraneo; tutte non si davano ragione del perché era stato preferito dalla vedova, come Porto Sicuro la città di Napoli.
Grazie a quest’atto di fiducia e stima reciproca, in seguito ebbe modo di accogliere anche altri esuli (la migrazione più consistente) i quali trovarono la strada spianata e in accoglienza e in luoghi dove insediarsi intensificando in numero le genti delle “Arché dell’infinito arbëreshë”.
Le migrazioni dalle terre dei Balcani, al seguito della Comnemo, segnando in maniera indelebile quelle linee di tutela che continuarono ad essere rispettate sia dal Papa con un tempo relativamente breve, e sia dai regnati partenopei per circa quattro secoli.
A tal proposito è bene, rilevare, la sostanziale differenza che distingue queste famiglie di profughi in base alle epoche e gli eventi politico religiose in atto:
i primi segnano il territorio a favore del re per controllare i Principi legati alla corona francese;
i secondi, oltre a incrementare il numero in senso di forza lavoro si insediarono in quell’antica disposizione subito dopo la venuta di Andronica Arianiti Comneno e rappresentano l’arretramento del fronte per la difesa della cristianità nelle terre parallele ritrovate.
In altre parole sono le stesse famiglie allargate di cui il condottiero si fidava e attingeva le sue armate, ragion per la quale il loro trasferimento in massa nel baricentro mediterraneo, avrebbe rappresentato il fronte ultimo, dove attendere gli ottomani.
Era nata la linea per la difesa della cristianità, arretrata ma colma di quei valori per i quali gli ottomani avevano subito, ragion per la quale imbattersi in quelle linee avrebbe risvegliato l’antica indole ereditata secondo le metodiche adottate dal nobile condottiero.
Questo dato storico è confermato anche negli atteggiamenti delle istituzioni religiose prima lasciando liberi di agire gli arbëreshë e consentire loro di predisporre consuetudini tipiche, per almeno un secolo; quelle civili ignorarono i dissidi locali e accuse di ogni genere, giunte all’attenzione persino agli organi preposti partenopei, rimaste perennemente evase.
Aver predisposto secondo un progetto mirato il controllo delle vie di accesso dall’esterno e di mitigazione delle ingerenze di principi francofoni dall’interno, consentirono di ripopolare oltre cento tra paesi e casali abbandonati, facendo insediare gruppi di famiglie allargate arbanon, che da ora in avanti saranno riconosciuti come arbëreshë.
Arche abitative per la difesa, Katundë ripopolati da profughi arbëreshë, cui fu affidata la missione di mitigare le volontà di espansione dei mussulmani, o almeno di evitare futuri confronti con i nuovi popoli che con gli indigeni condividevano quelle terre.
Per confermare storicamente ciò, rimangono le vicende e gli atteggiamenti degli arbëreshë, quali attori principali della storia del regno di Napoli, protagonisti incontrastati, giacché i loro perimetri impenetrabili erano descritti su metriche linguistica e consuetudinarie, non visibile, ciò nonostante furono barriere indelebili di un territorio, con lo scopo di unire, uomini e secondo valori sociali non scritti.
Giorgio Castriota per gli arbëreshë rappresenta la svolta storica di quanti abitarono le terre una volta dell’Epiro Nuova E dell’Epiro Vecchia, preparando con dovizia di particolari i presupposti migliori per tutelare l’originaria essenza Linguistica, metrica, consuetudinaria e religiosa, senza eccessivi stravolgimenti, oggi ancora vivi in quelle macro aree che identificano la Regione Storica Diffusa Arbëreshë.
I parlanti questa lingua antica, senza ne segni, né tomi, rappresentano i prosecutori di un modello senza eguali, ancora oggi, capace di mantenere vivi i valori per integrarsi con le genti indigene restando ancorato all’antica radice.
Gli eventi della storia se adeguatamente intesi, restituiscono un quadro preciso in cui appare subito la difesa dei territori, poi quella dei regnanti partenopei come nelle vicende che videro antagonista Masaniello, e in seguito rimanendo sempre vigili protagonisti delle vicende sociali e ed economiche dei territori dove furono insediati; Furono ancora protagonisti prescelti, in seguito con l’istituzione della Real Macedone, difesa personale di Carlo III, il quale affidò persino la gestione religiosa del reggimento di valorosi nella mani di un Arbëreshë, perché fuori dagli antagonismi politici dell’epoca; ed è ancora la famosa guardia Real Macedone che nel 1799 viene utilizzata per dare manforte al Ruffo di Calabria e sedare definitivamente le illusorie aspirazioni dei liberi pensatori partenopei; va inoltre evidenziato l’estremo tentativo, che nel 1805 Ferdinando I, voleva istituire per sedare i progetti di Napoleone, allo scopo fecero giungere diverse navi con Albanesi illudendosi che conservassero quelle antiche attitudini dello storico condottiero, ma appena dopo lo sbarco, si resero conto che i tempi erano mutati e le genti di quella nazione erano stati piegati secondo altre prospettive.
Sono sempre gli arbëreshë che dopo il decennio francese hanno un ruolo di primo piano per i progetti di unificare l’Italia, cosi come in seguito a questa e sino ai giorni nostri, occupano posti di rilievo, perfettamente integrati, nei processi sociali, politici, economici e dell’integrazione e la pace tra i popoli.
Oggi purtroppo subisce ad opera indigena una deriva storica senza eguali, giacché i riferimenti verso la storia e i luoghi dove essa ha avuto inizio, sono venuti a mancare e allo scopo sono allestiti monumenti a ricordo di Giorgio Castriota comunemente appellato Skanderbeg (**), anzi in alcuni casi usando esclusivamente l’alias con il quale si fece conoscere nel periodo antagonista dei cristiani; sottovalutati dagli ottomani e impressi durante i suoi primi nove anni dalla devota madre, Voisava Tripalda e dal cristiano padre, Giovanni Castriota.
Oggi è facile imbattersi in allestimenti o manifestazioni prive di una radice ideale capace di restituire valore in linea con gli ideali dell’eroe ZOTI GJERGJ, incidendo sin anche date, vicende e alias senza radice di tempo e di luogo.
Quello che più duole è nel constatare quale lungo di queste esternazioni pubbliche sono “le Arché dell’infinito arbër” tracciati dall’eroe Zoti Gjergj; busti, statue equestri, sono allestite senza un disciplinare degno di una figura di tale spessore, eppure basterebbe aver letto le sue gesta per comprendere che la sua meta a cui volgeva lo sguardo era sempre la stessa, il luogo dove la sua missione ebbe iniziò, per restituire ai Turchi le stesse sensazioni di dolore causate alla sua famiglia e alla sua Gente.
Sono gli Arbëreshë e gli Albanesi, in tutto i legittimi eredi della radice di integrazione tra le più raffinate del Mediterraneo, coloro che si devono prodigare, al fine di tracciare un itinerario di valorizzazione della storia della Regione Storica Arbëreshë e dello stato d’Arberia.
Oggi non servono crociate vaticane sempre pronte a essere attuate, così come le frizioni storiche non solo tra mussulmani e cristiani, estese a Ortodossi, Bizantini e Alessandrini, per proporre modelli romani che pur costruendo ottime e indispensabili vie dell’economia, gli antagonisti che poi le utilizzarono, nonostante ciò per una forma di disprezzo verso i romani e le indispensabili “strade” le appellandole“rotte”.
Zoti Gjergj detto Scanderbeg e la sua storia rappresenta una parentesi incancellabile degli accadimenti dei Balcani del XV secolo, essa racchiude il senso e il perche Gli arbanon furono scissi in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria.
Gli Albanesi rappresentano quanti hanno preferito rimanere e avere il premio della terra, secondo le regole ottomane, assumendosi per questo l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e compromessa identificata oggi come Shquip.
Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, dell’impenetrabile idioma; nella consuetudine radicata nel cuore e nella mente; nella metrica del confronto fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in armonia con i territori vissuti e integrarsi pacificamente con le genti indigene.
Qui in Italia vivono gli Arbëreshë, gli abitanti giunti indistintamente e senza discriminazioni dell’antico territorio dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, i portatori sani del un modello consuetudinario, dato per perso nel XV secolo, quando ecco che appaiono le gesta di un fanciullo, Giorgio Castriota, figlio di Giovanni e di Voisava Tripalda, “la stella cometa” che indicò, dopo aver tracciato la strada verso le terre parallele del Regno di Napoli dove dimorare e tutelare la rarissima radice arbanon.
I risultati di questa intuizione li apprezziamo ancora oggi nella regione storica del meridione italiano, a tal proposito sarebbe il caso di fermarsi a riflettere, invece di sprecare frammenti irripetibili della storia, gli stessi che si potrebbero ancora recuperare organizzando:
“la giornata del risveglio della fratellanza Arbanon”
Esaltando un’antica tradizione di “Estate” tutti uniti ed essere protagonisti, Albanesi dell’odierna patria (il tangibile) e gli Arbëreshë, i tutori dell’antica radice identitaria (l’intangibile).
Una giornata in ricordo di quanti sacrificarono la propria vita e segnarono la storia in Europa, identificandosi con l’antico idioma arbëreshë; la linfa ideale in grado ad innalzare le armonie dei cinque sensi dei territori vissuti, a cui associare il “canto di genere arbanon “le Valje”.
** – Nel Volume II° della Calabria Illustrata ad opera del M. R. P. Giovanni da Fiore da Cropani – quando è tratta il capitolo degli esuli provenienti dai Balcani, egli scrive Giorgio Castriota, (volgarmente denominato Scanderberg) , l’appellati non ci deve indurre in inganno secondo l’uso odierno, in quanto, secondo la lingua del volgo del popolo, voleva dire: “comunemente denominato Scanderberg”.