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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - X° - Integrazione e Inclusione).

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – X° – Integrazione e Inclusione).

Posted on 31 agosto 2019 by admin

X- Integrazione e InclusioneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ho visto la roccia contro la quale impattano, da diversi secoli, quanti cercano di scrivere, raccontare, cantare e ballare, deturpando scientemente  il consuetudinario storico che senza soluzione di continuità tiene uniti gli arbëreshë, dai tempi della capitale Costantinopoli.

Nonostante ciò, a essere riconosciuti quali guide sicure delle rotte arbëreshë, non sono quanti navigano in quest’oceano colmo d’insidie, seguendo le costellazioni, ma il gregge di naviganti inconsapevoli dell’imminente bagliore d’impatto.

È giunto il tempo e non esistono proroghe o domani, bisogna al più presto realizzare un progetto d’indagine storica, il cui tema siano le politiche di conquista e dell’economia perseguite da Principi, Cavalieri, Armatori, Dogi, Sultani, Papi e Re.

L’azione deve tenere alto l’interesse verso il periodo dell’integrazione tra gli emigranti e le genti indigene, le frizioni che sono state ignorate per secoli dai regnanti, sino alla fase dell’inclusione iniziata con i liberi pensatori del 1799.

È urgente attivarsi a produrre un progetto culturale di ricerca, realizzato all’interno della regione storica, con la piena consapevolezza dell’inclusione, comunicando, scambiando e ponendo sul tavolo informazioni comuni, dove a prevalere sia intersoggettività tra gli addetti e non lo sterile personalismo idiomatico, noto per i danni prodotti, nonostante tante eccellenze del settecento e dell’ottocento lo avessero deliberatamente ignorato.

Quando si attuano iniziative sulla base dell’inclusione, ovvero, fare le cose assieme, fornendo diffusamente e senza preconcetti gli strumenti idonei a partecipare alle attività, senza creare barriere, limiti o confini culturali di genere, il fine mira a dare certezze forti, condivise e senza prevaricazioni.

La parola d’ordine è “inclusione”, piuttosto che “discriminazione o esclusione”, soprattutto, verso quanti portano argomenti nuovi, avendo avuto grande educazione personale e professionale, per il lascito alle nuove generazioni, le stesse a cui urge fornire certezze della storica minoranza.

Tutto ciò per confermare che le tappe storiche della regione diffusa, non appartengono a nessun dipartimento, scrittore, amministratore, strimpellatore o genere di autore, che “a torto”, ritiene più opportuno impedire che i legittimi prosecutori minoritari, abbiano idonei strumenti per proseguire  senza errori e armonia con le proprie radici.

Oggi ciò che appare sono cose senza senso, prive di applicazione in nessun anfratto territoriale di tutta la regione storica e quanti portano avanti simile esperimenti, ritenendole “genuine prelibatezze sotto olio” non avendo consapevolezza che l’olio protegge per breve tempo e poi degenera, quindi o sono in mala fede o fanno finta di vendere prodotti ritenendo che tutti noi siamo abituati a cubarci culturalmente di trapesati.

Non è più sopportabile a oggi parlare raccontare disquisire e illuminare inutilmente un paradiso terrestre dove solo poeti scrittori cavalieri e ogni sorta di giullare ha fatto solo la cosa giusta senza peccare, credetemi non è cosi!

Egregi professori, ricercatori, sindaci, presidenti, amministratori tutti, laici e clericali, è giunto il tempo di confrontarsi, non per una mera polemica disfattista, ma costruire la storia degli arbëreshë, secondo quel l’enunciato unitario: la storia una e indivisibile.

La regione minoritaria diffusa oggi si mantiene su piccoli esperimenti, come le sagre estive, in cui i partecipanti si recano per vivere un momento di confusione, giacche gli inquieti riferimenti storici divulgati non trovano nessuna dimora, per la quale l’ospite trova giovamento ed eccellenza per ritornare.

La meta da perseguire deve mirare all’ordine storico l’unica e sola strada che conduce alla caratterizzazione, sotto ogni punto di vista sia laico e sia clericali, solo in questo modo potrà terminare la deriva intrapresa che deteriora e sciupa ogni cosa.

Non è concepibile andare avanti indagando i centri storici con mere edizioni, di personaggi, di onciari, di astronomia, di capitoli, di prodotti locali, mai riferibile e certificati nel territorio, oltre a ciò, non bisogna dimenticare i sciagurati prodotti editoriali, di una scrittura mai esistita, questa in specie persegue i principi di una crociata mai terminata e immaginata dopo la prima metà del XV secolo, scrivendo e transgenderando in shëkipë costantinopolitano.

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - III° - Gjitonia: il luogo dei cinque sensi arbëreshë)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – III° – Gjitonia: il luogo dei cinque sensi arbëreshë)

Posted on 17 agosto 2019 by admin

GJITONIANAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’argomento qui di seguito trattato esige una premessa forte definitiva e chiara, per evitare il proliferare di continui e futuri equivoci, utili solo a sminuire l’identità di quanti vivono dal XV secolo la Regione Storica Arbëreshë.

Per questo è opportuno precisare, ripetere, affermare e diffondere che: la Gjitonia non è come il Vicinato; la Gjitonia non è un Quartiere; la Gjitonia non è un Rione; la Gjitonia non ha confini; la Gjitonia non ha nomi di persone luoghi e cose; la Gjitonia non è il vico o la strada (ruhà o hudà); la Gjitonia non è il prestito; la Gjitonia non sono tre, quattro, cinque, sei o addirittura sette porte, che affacciano in una piazzetta o una dritta via!

Gli enunciati, a dir poco banali, in precedenza elencati sono l’indicatore culturale che denota quale attenzione sia stata rivolta dalle istituzioni “tutte”, per l’analisi, la tutela, la valorizzare degli elementi caratteristici materiali e immateriali dei Katundë, in tutto, della regione storica minoritaria.

La matrice dei suddetti postulati catalogabili in: elementari, grotteschi, replicanti e gratuiti, esprime anche la qualità degli strumenti e dei titoli in possesso, adottati per la ricerca; a tal proposito è bene ricordare a questi mittenti che i temi dei modelli sociali del mediterraneo “ del nocciolo duro arbëreshë” hanno, caratteristiche più profonde, diverse e caratterizzanti.

Quando si cerca o si vorrebbe esprimere pareri con argomento Gjitonia è bene precisare cosa rappresenta per gli arbëreshë, quale ruolo ha assunto nel passato, nel presente e come recuperare gli elementi per il futuro sostenibile attingendo dalla linea di antiche prospettive; per tutto questo è opportuno avere piena consapevolezza di dover trattare dei territori attraversati, bonificati, urbanizzati e difesi per essere vissuti dagli arbër.

Molte volte, anzi direi sempre, dagli anni sessanta del secolo scorso a oggi, con la meta rivolto al parallelismo indigeno del modello sociale, sono state innestate una serie di costole anonime e prive di fondamento, da quanti notoriamente vivevano ai margini dei perimetri dei Katundë e secondo i quali: il Gijtonë è preferito al Parente.

A tal proposito e per cancellare ogni ombra di dubbio, anche in questo caso, si commette un errore grossolano, perché sfugge un dato fondamentale, il principio storico su cui si basa il modello Gjitonia Arbëreshë, da considerarsi come il laboratorio di ricerca dell’antico ceppo dinastico.

Il Parente è conferma certa dell’appartenenza, per questo ha priorità su tutto e ogni altro legame; il Gjitonë, rappresenta il laboratorio; è analisi, ricerca dell’antico ceppo parentale, motivo per il quale, quando a casa di una famiglia arbëreshë arriva uno o più parenti, le maglie sociali si restringono a dismisura, la porta di casa, sempre aperta, si chiude e diventa il luogo della famiglia allargata come lo era stato sino al XVI secolo.

Il perimetro casalingo diventa inviolabile, il vociferare ridente sfumava lentamente, la casa diventa l’intimità e il rito delle strategie, materiali e immateriali della famiglia allargata prendevano corpo e anima.

Di sovente e con molta libertà culturale si affianca la Gjitonia al Vicinato riferendo che sono la stessa cosa, questo enunciato come gli altri, nascono tutti perché quanti si sono cimentati nello studiare il tangibile e l’intangibile della regione storica arbëreshë, a ben vedere, riteneva di esaminare le trame urbane e i valori immateriali in essi contenuti senza i minimali requisiti, in base di una lingua antica priva di forma scritta.

Valgano di esempio il gran numero di conversazioni telefoniche fatte al professor Franco F.; tuttavia dopo un medio periodo di dialogo telefonico, il professore, riferì un’affermazione di una anziana signora arbëreshë, la quale definiva la gjitonia dove arriva la vista e la voce, frase pronunciata in arbëreshë naturalmente, e secondo i professore indicava il luogo dove è lunga la vista e arriva la voce, non avendo, il professore, padronanza linguistica che diversamente indicava:  dove germogliano i cinque sensi.

La non conoscenza della lingua e sue inflessioni più intime, ha tratto in errore e collocata la gjitonia tra i modelli generici mediterranei, compendio di sintesi speculari, priva dell’animo arbëreshë, tralasciando i requisiti in senso di latitudini originarie e i conseguenti parallelismi territoriali ritrovati.

Questi dati fondamentali e indispensabili hanno sopra valicato sminuendo la consuetudine degli uomini appiattendo ogni cosa, ritenendo simili le vicende locali che appartengono al genius loci, come ad esempio, l‘architettura estrattiva dei pozzi, i quartieri estrattivi verticali, gli ambiti di elevato indigeno e alti, tutti questi catalogabili secondo valori sociali dissimili, anzi oserei direi addirittura trasversali se non contrari.

Gjitonië è composto di due parole: Gjit che indica le genti o insieme di persone e tonië le vibrazioni, le tonalità prodotte da figure della stessa etnia in armonia dei cinque sensi; solo chi ha capacità linguistica e il senso di appartenenza alla consuetudine riesce a innescare valori materiali e immateriali di quest’unico sentimento.

Le esigenze di mutuo soccorso su cui si basano tutti i modelli mediterranei per la convivenza sono la parte espressamente materiale e non contemplano elementi immateriali specie identitari, che rappresemtano la differenza sostanziale tra la gjitonia e gli altri modelli di unione.

Il vicinato indigeno rappresenta il modello proto industriale, attraverso cui si creavano i presupposti di sostenibilità economica e poi solo in seguito, per consolidare il gruppo, si creavano legami matrimoniali e di commarato.

Gli arbëreshë quando trovarono dimora nelle colline del regno di Napoli arrivarono organizzati in gruppi familiari ben consolidati, il sistema proto industriale era formato da una famiglia allargata di un numero di elementi, maschi e femmine, compresi dalla dozzina alla doppia decina, questo intervallo numerico rappresentava il momento della separazione e della formazione di un nuovo gruppo familiare allargato.

Una volta che i gruppi, familiari allargati arbëreshë, giunsero nei territori come indicato dal Papa e dal Re, s’insediarono ed ebbe inizio l’intervallo del nomadismo per individuare la posizione ideale e mettere a dimora, nelle terre parallele ritrovate, il proprio codice identitario.

Nei pressi di chiese conventi o comunque presidii religiosi, ogni famiglia disegnò, circoscrivendo con elementi naturali, il proprio spazio pertinenziale, innalzando o astraendo la propria dimora.

Quelli erano i segni dei futuri rioni e avrebbero dato luogo alla toponomastica storica denominata Bregu, Kishia, Sheshi e Krojetë, le fondamenta caratterizzanti di tutti i paesi arbëreshë.

Per quanto riguarda la gjitonia perché ambito immateriale della famiglia allargata, va rilevato che i gruppi dalla fine del XV secolo sino ai primi decenni del XVI secolo rimangono coesi e legati al rigidissimo proprio sistema consuetudinario .

Ma le conseguenze della guerra dei baroni e il sistema di affidamento delle terre non consentirono più agli arbëreshë di rimanere solidamente legati a quel modello familiare allargato e cede a modelli più locali realizzando l’edilizia aggregativa in cui la prole vive rimanendo legata al modello allargato, anche se il gruppo familiare va assumendo una connotazione più di tipo urbano.

Questo processo non ha luogo nel breve termine, ma comunque disperde, negli ambiti locali il senso della famiglia allargata, ed è in questa parentesi di tempo che l’antico perimetro delineato all’indomani dell’insediarsi, viene in seguito occupato dalle successive abitazioni dei facente parte l’antico ceppo, avviando così la dispersione delle discendenze ed ecco che la ricerca del ceppo originario e il ricordo di quella perimetrazione di cui si perdono i riferimenti, diventa la gjitonia.

Il bisogno di intercettare la propria piramide dinastica inizia quindi lì dove la famiglia allargata si riunì la prima volta, quanto giunse in terra parallela ritrovata, il fuoco, che oggi trova la sua collocazione più urbana nel camino, assume il ruolo di luogo originario da dove un tempo iniziò lo sfaldamento della famiglia allargata; oggi diviene il laboratorio dove si è consapevoli di poter vivere e ritrovare quelle sensazioni antiche che identicamente si possono riverberare negli spazi senza confini.

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”  (discorso - XIV° - Rispetto)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – XIV° – Rispetto)

Posted on 13 agosto 2019 by admin

RispettoNAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Gli uomini più illustri non sono ritenuti tali perché fratelli, amici, parenti e Gjitoni usano divulgare il loro sapere, giacché, le gesta del loro lume è irradiato come la luce del sole quando segue la notte che vorrebbe negare i domani.

I fatti non cessano di esistere solo perché in troppi li ignorano, piuttosto, sopravvivono nella memoria silenziosa degli studiosi e quanto prima si presentano alla rimozione dell’immaginario collettivo, d’improvviso, chiedendo ragione dell’accaduto e del perché si è scelto di ignorarli.

Tracciare un itinerario coerente con oggetto gli uomini, i luoghi e gli eventi che hanno come protagonisti i minoritari della diaspora, è un’attività laboriosa e richiede esperienze multidisciplinari non comuni, tuttavia, ciò che più duole sono le energie che bisogna impegnare per divulgare le nozioni all’interno dei canali divulgativi locali, le cui giunte sono composte da: ndrikule, famulë e shigniagnërà.

Come oltrepassare questa cortina e stendere alla luce del sole il proprio lavoro, non è semplice, in quanto, occorre avere pazienza e attendere che si alzi il vento e demolisca i castelli di carta.

Gli stessi che da troppo tempo innalzano illustri cattedratici, pensionati e ogni sorta di provetto alchimista, tutti questi dall’alto delle proprie isole ecologiche di riciclaggio, preferiscono sotto false vesti, risalenti al 1955, riproporre come hanno fatto alla vigilia del 1999, enunciati altrui , come quelli della psicoanalista e antropologa, “la vera madre di questa ricerca”  che qui di seguito si riporta il frammento più saliente.

Vicinato: Nella complessa strutturazione urbanistica è quasi sempre  ben  delineato  nei  suoi  confini topografici, comprendendo il gruppo di case disposte intorno ad una piazzetta o cortile nel quale si svolge quasi in comune gran parte della vita dei bimbi, delle donne e,  in misura minore, degli uomini. Gli abitanti di queste case sono legati a un’infinità di piccole regole di vita comune, si aiutano a vicenda, si controllano, sanno tutto di ciascuno degli altri ed hanno in genere rapporti molto familiari e di carattere diverso da quelli che esistono tra famiglie amiche o legate da vincoli di comparaggio, parentela.”

A ben vedere tornano familiari i sostantivi, porta, affaccio, piazzetta, cortile, parentado, vicino e così via dicendo, eppure la dottoressa nel 1955 parlava di altre realtà culturali e quello che più conta non ha mai scritto, accennato e trattato gli arbëreshë in questo suo lavoro di ricerca.

Tuttavia, come per incanto, se alla parola Vicinato, nel frammento su riportato, cosi come nell’intero trattato, si sostituisce la parola Gjitonia il gioco è fatto e il discorso diventa argomento per gli arbëreshë, facile da pubblicare e diffondere ai quattro venti della loro “Nazione Arbëria”.

Lo stesso principio si può adoperare con le gesta dell’Eroe Nazionale Albanese, importato in regione storica, riverito e innalzato agli onori della storia con il volgare appellativo imposto dai turchi e sotto le armature  del Pascià  a quei tempi, toglieva le vite ai cristiani e quindi anche agli arbëreshë.

La storia, quando la si racconta deve seguire identicamente lo svolgersi degli avvenimenti, con dovizia di particolari, secondo l’ordine originario, avendo cura di leggerla senza interpretazioni a uso e consumo dei tempi che corrono o le preferenze locali.

Non si può realizzare frammenti di storia, tanto meno basta recarsi in pellegrinaggio dal “cappellaio matto” e ramazzare documenti, per ritenersi storici al fianco di mugnai e banditori.

Motivo per il quale è bene sottolineare alcune nozioni fondamentali; a nove anni Giorgio Kastriota, fu sottratto per ricatto all’affetto dei suoi genitori, i quali per non soccombere assieme alla popolazione rintanatasi nella fortezza, preferirono cedere per ricatto la discendenza ereditaria maschile, dei quali Giorgio era il più giovane, anche se all’età di soli nove anni aveva un fisico possente e secondo gli osservatori dell’epoca ne dimostrava almeno venti.

Alla morte del padre, nel 1443, per una serie di vigliacche sciagure indotte, dal pascià, tipiche dei turchi, i tre fratelli più adulti perirono, lasciando la discendenza, a Giorgio; quest’ultimo anche se per soli nove anni era cresciuto secondo le rigide regole del Kanun, non  facendosi mai  soggiogare, iniziò così come sancito in quel codice che i turchi ignoravano, perché ancora non scritto, la strada per onorare la sua famiglia. 

Altro dato interessante che viene  diffusamente ignorato dagli storici, sono le vicende guerresche che accomunano Giorgio Castriota a Vlad III di Valacchia, più noto come “Conte Dracula”, anche quest’ultimo subì le stesse angherie e appena libero divenne un acerrimo nemico dei turchi.

I due condottieri erano legati dai patti di mutuo soccorso familiare dell’ordine del Drago, vero è che Vlad III, in punto di morte affido la di lui figlia alle cure della moglie di Giorgio Castriota che viveva a Napoli, questa per onorare quel patto, fece da madre alla piccola sino all’età di maritarsi.

La scuola Sofiota l’unica ad aver avuto coerenza degli eventi storici, per tutta la regione storica diffusa, ha seminato semi di rara bellezza segnando, diversamente dai cultori delle sintesi, il periodo arbëreshë del valoroso condottiero con “Via Castriota” e nessun aggiunta volgare di estrazione turca.

Purtroppo, l’allontanamento dalle attività a stretto contatto con la terra, seguendo una illusoria meteora di benessere sociale, ha fatto si che il mestiere di contadino, sia stato accantonato, motivo per il quale, oggi distinguere quali siano i semi originari da quelli geneticamente modificati è un’arte molto difficile a cui solo un numero ristretto di addetti sanno dare risposte certe.

Tutto non è perduto, giacché il buon senso non ha smesso di scorrere nel corpo e nelle menti de “figli buoni arbëreshë” e quanto prima potremmo vedere nei campi diffusi della regione storica, i prodotti dell’antico consuetudinario, che non è avena Albanese, proposta da giullari, economisti e trebbiatrici con le rotelle sgranate, ostinandosi, dal lontano 68 del secolo scorso, a far germogliare in grano. 

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“LA SALITA DELLA SAPIENZA”  ( discorso VIII° - triade mediterranea vite, cereali e ulivo)

“LA SALITA DELLA SAPIENZA” ( discorso VIII° – triade mediterranea vite, cereali e ulivo)

Posted on 05 agosto 2019 by admin

Vino olio e legumiNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I gruppi familiari allargati che rivitalizzarono i casali abbandonati del regno di Napoli prima durante e dopo la morte di Giorgio Castriota, avviarono la stagione degli insediamenti diffusi arbëreshë, con l’intento di assicurarsi tre fattori fondamentali: l’acqua, la sicurezza e la viabilità territoriale in armonia con la triade mediterranea.

Scelto il sito, condizionato dalla vicinanza dell’acqua (torrenti o sorgenti), si alzavano steccati per circoscrivere, l’area pertinenziale occupata dal gruppo familiare da quella di comini intenti limitrofi, iniziava cosi quel segno che avrebbe unito per sempre il territorio tipico degli arbëreshë.

L’armonia di comini intenti fra i gruppi familiari del sistema urbano diffuso, era assimilata così a quella esistente in natura fra il tutto e le sue singole parti.

In virtù di una tale corrispondenza gli arbëreshë erano portati a sentirsi organicamente inserito negli ambiti ritrovati, riconoscendosi attraverso i dettami territoriali simili a quella di origine.

Ognuno partecipa alla vita collettiva e nel consolidare il bene di ogni gruppo, poi amplificato a quelli attigui della stessa radice culturale, con la quale discute, crea attriti interni e ricomporsi fedelmente quando la propria identità era messa in discussione o in pericolo.

I Katundë in origine organizzato in piccole comunità autosufficienti, una sorta di stato indipendente, l’uno dall’altro, esso nasceva circoscrivendo porzioni di territorio allocati nei pressi di una chiesa o un presidio religioso, disponendo sistematicamente i gruppi secondo la conformazione orografica del territorio identificando i vari rioni in Kisha, Bregù, Shëshi e Shëpia.

Dopo essersi assicurato un rifugio dove vivere e dormire era indispensabile realizzare, in loco, i presupposti per il sostentamento, nonostante l’impervia orografia prevalentemente allocate all’interno di macroaree collinari, non rendeva semplice l’impresa.

La realtà cittadina si organizzava attraverso il raggruppamento di diverse unità minori, i villaggi (Katundi) che non avevano un solo centro decisionale giacché, l’autonomia di più famiglie, mirava più a un sistema policentrico.

L’assemblea cittadina, formata dalle persone più carismatiche di ogni gruppo familiare allargato, le cui decisioni partivano dal focolare del gruppo familiare e miravano all’armonia del mutuo soccorso tra i gruppi.

Oltre al centro di residenza, esistevano i territori (Haretë), la campagna, dove risiedeva periodicamente una parte rilevante della popolazione.

Trova per questo una sua validità, il termine “Kushëth”, che includere Katundë, (il paese, villaggio o casale), e il territorio, consolidando il solido rapporto tra nucleo urbano e campagna.

Dal tempo delle prime migrazioni e poi sempre in modo più pregnate, vide svilupparsi una massiccia espansione dell’agricoltura a danno dell’allevamento attraverso la realizzazione di bonifiche, liberando porzioni di terreno, dalle acque stagnate, disboscando e mettendo a coltura consistenti appezzamenti collinari, scelti preventivamente a debita distanza da quelle di pianura penalizzate dalla malaria.

I territori messi a cultura erano utilizzati in modo stabile e intensivo per lo più da contadini, con una metodologia di lavoro caparbia ma intelligente, attraverso l’utilizzo di attrezzature, integrando l’allevamento di bovini e caprini per migliorare l’efficienza produttiva dei terreni posti a coltura.

I gruppi familiari allargati erano in grado di mantenersi attraverso il consumo diretto e lo scambio dei beni prodotti, accumulando sin anche risparmi.

Haretë non erano tutte uguale, infatti, quelle prevalentemente pianeggianti o adagiate su crinali distesi erano ritenute di qualità superiore a quelle collinari più impervie; tuttavia la terra era sfruttata in modo razionale attraverso l’integrazione della “triade mediterranea” (cereali, ulivo, vite) con altre colture leguminose, allo scopo di contrastare le crisi legate al clima.

Il modello mediterraneo “cereali, ulivo e vite” rappresenta una risorsa da cui non si poteva prescindere e serviva a produrre da un lato e nello stesso momento a rinvigorire i terreni, una sorta di moto perpetuo naturale, in cui l’uomo con la sua azione consentiva alla terra di attivare quei processi naturali e garantire per secoli il parallelismo di convivenza tra uomo e natura sostenibile.

 

 

 

(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;

mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)

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“LA SALITA DALLA SAPIENZA”   (discorso - V° - Inculturazione)

“LA SALITA DALLA SAPIENZA” (discorso – V° – Inculturazione)

Posted on 04 agosto 2019 by admin

 

 UN VOTO ANTICO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIONAPOLI (di Atanasio Pizzi) – IL termine Inculturazione nell’antropologia culturale, tratta i processi di trasmissione della tradizione fra generazioni.

Il termine rileva i processi del passaggio della cultura da una generazione all’altra, concentrandosi sugli aspetti di socializzazione dell’individuo, attraverso l’apprendimento della lingua, l’educazione in ambito familiare, mitizzando le figure degli adulti e le regole di comportamento in ambito educativo.

L’insieme si completa con le competizioni tra quartiere, la partecipazione ai giochi, le danze tipiche, i canti, le cerimonie, oltre a memorizzare i racconti degli anziani, associati a gruppi di età, queste ultime poi rappresentano la matrice che in alcuni casi è legata associazioni occulte, di culto e iniziazione.

Alcune categorie di persone ricevono un’educazione particolare, finalizzato al ruolo poi assunto all’interno del gruppo sociale, come ad esempio gli operatori religiosi (preti, guaritori, magarë, stregoni), gli agricoltori, gli artigiani, gli artisti, tutti rispettosi dei riti e consuetudini del tramandato storico.

Questo in linea generale è anche il modus operandi seguito dalla popolazione della regione storica arbëreshë e in ognuna delle sedici macroaree di cui si compone, nonostante il disciplinare adottato non contempla alcuna forma scritta.

Alla luce di ciò sino a quando i processi scritto grafici, sono stati materialmente dedicati a cerchie di ricercatori fuori lo spazio ideale denominato Gjitonia, gli elementi linguistici, sociali, metrici e religiosi che regolavano lo scorrere d’inverni e primavere arbëreshë si sono articolate secondo processi sostenibili e in grado di mantenere unito il percorso identitario.

Quando nel corso del secolo appena trascorso, con l’accorciarsi delle distanze, l’economia in ascesa, la totale assenza nei programmi di alfabetizzazione per gli alloglotti, le reti sociali in continua evoluzione, la legge 482/99, in cui sfugge la differenza storica tra lingua Albanese tutelata e Arbëreshë discriminata, hanno minato pesantemente il disciplinare tramandato oralmente.

Questi sono solo gli elementi più evidenti a non è stata posta particolare attenzione, prevedendo che quanto prima avrebbero intaccato la sostenibilità dei passaggi di consegne identitarie tra generazioni all’interno della regione storica.

Causa fondamenta della perdita di sostenibilità culturale e identitaria è stata la mancanza di progetti specifici, atti a valorizzare all’interno della regione storica il patrimonio materiale ed immateriale evitando di demandare i principi di crescita delle nuove generazioni alla sola alfabetizzazione, sorvolando sui temi dell’antico ceppo.

Se negli anni sessanta del secolo scorso lo scorrere della vita, nelle macroarre etniche di estrazione arbëreshë, manteneva livelli d’inculturazione sostenibile, dal punto di vista linguistico, ambientale, architettonico sociale sia laico sia clericale, negli anni settanta ha inizio la deriva degenerativa che non ha mai cambiato rotta.

Il fenomeno ha prodotto una serie di manifestazioni senza alcuna formazione storico culturale faccendo apparire gli ambiti di minoranza esclusiva residenza di costumi, canti e parlate “altre”, allontanando i principi dall’ Inculturazione fra generazioni.

Oggi ai vertici della valorizzazione, tutela e divulgazione culturale non siedono le eccellenze come la tradizione indicava, ma soggetti attuatori senza identità e tanto meno parlanti l’antico idioma arbëreshë.

Queste figure “altre” divulgano appuntamenti attraverso appellativi fuori da ogni ragionevole diplomatica del vivere all’interno dei katundë di estrazione arbër.

Tuttavia ciò che penalizza e appiattisce uniformando a modelli globalizzati il senso della regione storica sono le numerosissime attività di promozione che da primavera e nel corso di tutto l’anno, innalzano vessilli territoriali mai appartenute a nessuna delle sedici macro aree.

Se immaginiamo che tutto ciò che è stato sapientemente difeso e valorizzato dai tempi dei regnanti partenopei sino al 1806, il salto degenerativo perpetrato sino giungere alle vicende odierne, per quanti della minoranza analizzano, studiano e appuntano con dovizia di particolari ogni frammento della storia;  diventato un pena indescrivibile  la continua perdita di valori e a nulla valgono le grida di dolore, che anche se fossero mute, almeno chi vive di riti bizantini dovrebbe avere gli strumenti divini per ascoltare e curare.

A tal fine volendo accennare solo le più famose manchevolezze senza scendere nei particolari, valgano di esempio queste note interrogative: Sagre di prodotti tipico(?), Gjitonia e vicinato(?), abusi edilizi per abitazioni storiche(?), Scanderbeg l’eroe Arbëreshe(???????), Valje e balli tondi della liberazione(?), quartieri / Gjitonie(?), caricature filmiche(?), abbellimento dei centri antichi(????), biblioteca delle riviste(?), musei del costume(?), la vestizione nuziale con le grazie al vento(?), l’eliminazione dei comitati di festa (?), questi accennati esempi si possono configurare come una grande frana indotta per aver estirpato troppe radici storiche, architettoniche, sociale, urbanistiche, psicologiche, geologiche, artistiche, antropologiche e cosi via discorrendo, ma comunque e nonostante tutto pur avendo consapevolezza di cosa potrebbe avvenire, non si innalza alcun presidio idoneo a rallentare l’inevitabile.

L’immaginario che ogni buon arbëreshë si auspica, è volto al ricambio generazionale composto da figure in grado di impedire che ruoli dipartimentali, istituzionali e per la promozione del territorio, siano posto nelle disponibilità di quanti sanno come fermare questa marea economica/culturale legalizzata; allontanando dai canali divulgativi e della valorizzazione ogni sorta di litirë privo di elementari titoli  di formazione locale, che in troppi casi casi millanta di conoscere storia, lingua, metrica canora, le diplomatiche della vestizione e ogni sorta di attività del consuetudinario storico delle sedici macro aree.

Allo stato urge fermare energicamente le dilaganti nozioni serrate, senza luogo, senza tempo e senza patria, appellare “Arberia” una “Regione storica” è sbagliato!!! in quanto il sostantivo è sinonimo di nazione e nessuno ha mai riconosciuto e mai avrà modo di prendere corpo, perché noi arbëreshë siamo Minoranza storica Italiana e basta.

In questi giorni recandomi nei luoghi natii ho rinvenuto dei semi di buon auspicio, alcuni chicchi di grano, conservati in un cassetto e che i miei genitori, in vita, non hanno avuto modo di utilizzare, per questo m’impegno a loro memoria di farli germogliare, sperando che diano un numero considerevole di semi in grado di emanare gli antichi sapore della tavola familiare, la stessa di tante famiglie e rappresenti l’inizio di una nuova stagione di solidi valori arbëreshë.

 

 

(Bilë e Arbëreshëvet!! gjiegjëni me veshët tuej e diovasni letir, veth këstù zeni kushë Jini;

mos jiejni the chiarturat e qenvet, cë vran Jergjin, se janë skip!)

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