NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – È sempre più ricco il palcoscenico dei repliche, che imperterrite dissolvono frammenti del disciplinare sociale dei “cinque sensi arbëreshë”.
Figure monotematiche sciupano senza parsimonia un considerevole numero di elementi intangibili della consuetudine arbër, al punto tale che non avendo più argomenti da dissolvere, ha iniziato a gratare, le murature storiche, le stesse che danno corpo e forma alla culla naturale del disciplinare minoritario.
Esse si configurano e si materializzano: nell’urbanistica, l’architettura, e l’ambiente antropizzato, in tutto, gli elementi finiti del genius loci importato identicamente dalla terra d’origine.
A tal fine è idoneo sottolineare che non sono opere di mera cucitura muraria, giacché, rappresentano i giacigli costruiti per conservare le radici culturali arbër.
Attivarsi per prosciugare questa malevola deriva portata avanti, da chi disquisisce di architettura senza titoli specifici, intrecciando gratuitamente: kish,; palazzi, profferli, kalive, katoj, moticele, sheshi; gjitonie, kroitë, kopshët; dimenticando addirittura l’insieme edilizio arbëreshë detto Katundë, è un dovere di chi ha titoli idonei e capacità di lettura per farlo.
Anche perché frequentemente si è attratti dalla macina televisiva che tritura e globalizza ogni cosa; da cui il convogliatore della mediocrità appella erroneamente e banalizza i katundë definendoli in maniera impropria “borghi”.
A tal proposito è bene specificare che la denominazione di “borgo” è riservata a complessi di epoca medioevale, le cui peculiarità principali si configuravano nel le mura di fortificazione che difendeva le attività mercatali e civili, per queste disposizioni materiali ed immateriali il borgo si differenzia dal villaggio, dal paese e dal casale.
I Katundë, della regione storica arbëreshë, hanno un diverso impianto urbano, in quanto, si sviluppano in armonia con le pieghe orografiche e in funzione dei legami familiari per realizzare la più solida articolazione edilizia.
Essi conservano gli ingredienti, che fanno degli arbëreshë, i pionieri del policentrismo urbano, definito anche come diffuso, nati da casali disabitati dal XV secolo, e non prima!
Questo dato li rende particolarmente difficili da leggere in quanto appartengono agli impianti urbani detti “aperti” fatti di architettura detta minore, di conseguenza esclusiva lettura per figure titolate e competenti in specifici campi di studio .
Per questo gli agglomerati arbëreshë, sono uno degli esercizi più complicati da leggere e tradurre per i media, in quanto, l’edificato nasce e si sviluppa in tempi molto dilatati, oserei dire, nel caso specifico nell’intervallo compreso in almeno quattro secoli, dalla posa della prima pietra sino alla configurazione con cui li identifichiamo e cerchiamo di comprenderli oggi.
Lo sviluppo prima planimetrico, poi altimetrico e in fine la forma architettonica catalogabile secondo le tre direzioni fondamentali, avviene durante periodi storici e sociali ben identificati
Essi hanno inizio nel XV secolo, con uno spazio recintato su cui nasce il tugurio o la casa monocellulari in paglia; poi in mattunazi cotti al sole; agli inizi del XVI secolo, gli elevati e la copertura, furono sostituiti, materiali tipici locali; il modello così realizzato iniziò a essere aggregato, quale modulo base, in sistemi articolati e in rari casi anche linearmente; l’espansione e la successiva occupazione del lotto (recinto) avviò la conseguente obbligatorietà di crescita verticale; nel XVII secoli l’aggiunta dei profferli divenne indispensabile per i frazionamenti familiari; il miglioramento termico con i sottotetti segna il XVIII secolo; in seguito durante il decennio francese, l’integrazione dei profferli con gli elementi identificativi dell’architettura segna gli edificati alla fine del XIX secolo con la caratterizzazione nobiliare con le facciate più prestigiose composte da ingresso ad arco, affiancato dalle due finestrature con inferriata dei depositi, al primo piano balconi, finestre coronate in pietra, cornicione di coronamento con le tipiche aperture di ventilazione e tetto a padiglione oltre a un numero considerevole di segni architettonici negli angoli del lotto e il tipico seggio i fianco all’ingresso dei depositi.
Queste sono per grandi linee le stratificazioni del centro storico dalle origine sino alla fine dal XIX secolo, è secondo questo ordine che nascono gli agglomerati diffusi.
Essi non sono identificabili in un modello, come accade nell’edificato storico delle città che generalmente vennero, costruisce e presero forma in tempi brevi.
Quando si tratta dei Katundi che costituiscono la regione storica diffusa arbëreshë si deve stare molto attenti nel paragonarli ai paesi indigeni ad essi limitrofi, in quanto la lama sottile che li divide è più affilata di quella di un rasoio, divide le due cose preziese ma dissimili e quando ti rendi conto del versato è tardi, nulla può essere più ripristinato e a perdere è sempre la minoranza storica.
Sono anni che sento dire la gjitonia come il vicinato, i paesi arbëreshë uguali a quelli indigeni, i costumi, le musiche e così via discorrendo, per enunciati sintetici e poco attenti abbarbicati o resi simile ad altro.
Personalmente ritengo, in conformità a studi questi argomenti e portati a buon fine, non sia così nella maniera più assoluta e chi dice il contrario o è un litirë o non ha sufficiente memoria di archiviazione per connettere gli elementi ad essa riferibili.
A proposito della gjitonia, se qualche replicante ritiene sia simile al vicinato si deve far spiegare dai ricercatori dipartimentali di fine secolo scorso, dove hanno copiato tout court, magari vi risponderanno nei trattati de locativi, fatti realizzare dell’imprenditore ing. A. Olivetti, in campo sociologico, psicologico, architettonico, antropologico, geologico e legale, per la conoscenza degli abitanti dei Sassi di Matera, quando ebbe l’incarico governativo di terminare senza ferire la consuetudine della classe operaia, che viveva ancora in vergognosa arretratezza.
A proposito dei modelli urbanistici e architettonici dei paesi della regione storica, non possono essere intesi come gli stessi di quelli indigeni, in quanto, l’architettura è il frutto dalla consuetudine di uomini e l’uso che questi fanno del t dell’ambiente naturale per antropizzato.
Le musiche tipiche degli abitanti della regione storica diffusa non possono essere assolutamente simili a quelle delle genti indigene, in quando la lingua arbër non possiede forme scritte, giacché essendo la metrica canora la sua regola è incomprensibile che una lingua non comprensibile a nessun abitante del bacino del mediterraneo, possa contenere sonorità a modo di tarante, tarantelle; tantomeno, le “clarinettate e tamburettiate” Turchesche.
È tempo che la regione storica diffusa arbëreshë, prenda consapevolezza di queste derive che trascinano il patrimonio culturale materiale e immateriale allo sbando, intraprendano la via della pensione.
La chiesa, le istituzioni tutte è tempo che facciano affidamento a uomini in grado di garantire supporti idonei nelle varie discipline; uomini arbëreshë in anzi tutto, capaci di individuare la rotta più breve verso la luce tagliente del mattino, quella che si apre sull’orizzonte e scoprire, senso e garbo.
Non resta altro che rivolgersi agli amministratori di ogni ordine e grado e a chi dispone o ha nelle disponibilità il futuro e la tutela della Regione Storica Diffusa Arbëreshë; invitando tutti a rivedere il sistema degli “stati generali”, al fine di attuare progetti multidisciplinari a garanzia della sostenibilità del modello sociale tra i più singolari di tutto il mediterraneo.
Il futuro della regione storica arbëreshë, non ha più a disposizione altri tempi per i replicanti, uno è il tempo che vi resta e avete ancora nelle vostre mani, se saprete coglierlo potrete dire, io c’ero è ho contribuito per non far frazionare la perla d’integrazione più luminosa del mediterraneo.