NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Approfondire lo studio degli insediamenti Arbëreshë nell’Italia meridionale aiuta a seguire un itinerario più coerente per comprendere la comunità e la sua storia.
Particolarmente interessante appare, l’origine del nome “Arbëreshë”, che giustifica il legame e l’appartenenza all’etnia albanese.
L’origine del termine, corrisponde all’antico modo di appellare una delle province allocata nel territorio dell’odierna Albania, e lo “Schipetare” vuole indicare un popolo o comunità linguistica d’Albania inglobata all’impero ottomano .
Per questo motivo l’appellativo “Arbëreshë” ha lasciato il posto a «Shqiperia», nel mentre i conservatori albanesi emigrati in Italia, legati alla vecchia tradizione hanno portato con loro il nome di origine: Arbëreshë (Arbresh) con il quale hanno continuato a designarsi .
Nel loro nuovo paese ricevettero un certo numero di apellativi: Greci, Albanesi, Schiavoni, Gjegj, Epiroti.
Essi tutelarono nei parallelismi territoriali ritrovati, lingua, metrica del canto, consuetudine e il rito religioso, questi sono stati i due grandi elementi di distinzione che li resero stranieri agli occhi degli italiani.
Erroneamente è stato loro conferito il titolo di Greci e Italo-Greci a causa della liturgica e del fatto che non sempre la popolazione del circondario sapeva a quale gruppo appartenessero.
Alcune circostanze storiche hanno contribuito alla nascita di un «Albania» Italica. Nell’antichità all’età del ferro le stirpi illire navigavano lungo le coste dell’Adriatico avendo modo di scambiare e misurarsi con le popolazioni delle terre vicine tra i quali Mesapi e gl’Iapigi.
Dopo la conquista romana e la successiva definizione della provincia Illirica, così anche dopo la divisione dell’impero romano in impero d’occidente ed impero d’oriente, l’Albania del nord ebbe modo di attecchire maggiormente con Venezia, diversamente dagli Stati Pontifici e dell’Italia meridionale, che allargarono i rapporti con l’Albania del sud, passata sotto il dominio bizantino, d’Oriente.
Il fenomeno da nord a sud e viceversa ha creato delle onde migratorie prima all’interno dell’Albania e poi verso le altre nazioni riconosciute come ambiti ambientali paralleli.
Di questi fenomeni migratori interni, poi verso i territori veneti, dello stato pontificio e del regno di Napoli purtroppo esiste poca documentazione, ma nonostante ciò le dinamiche prodotte fanno presuppore quanto realmente è accaduto.
A partire dal XV fino al XVIIl secolo a seguito delle inquietudini interne si verificano sistematici spostamenti di popolazioni, dall’Albania verso l’Italia meridionale. Popolazioni arbéreshe che lungi dal fondersi con la popolazione locale, hanno conservato, quasi esaltato, l’entità etilica originale; fieri della propria origine che ci e pervenuta al di la dei secoli sotto forme diverse e significative espressioni: vita quotidiana, espressioni religiose ed artistiche, tradizioni orali e letterali, idee e concetti dell’appartenenza ad una nazione, sentimenti dell’ unità de’ «’gjaku : shërpri- shur»
La scelta dell’Italia del sud si è imposta per diverse ragioni; in primo luogo per la sua situazione geografica e la prossimità al clima mediterraneo delle terre montagnose; per i legami economici e commerciali che favoriva l’Adriatico, asse primordiale di cominivazione negli scambi occidente-orriente, infine e soprattutto per le circostanze imposte dalle esigenze politiche, religiose, militari, quanto alla personalità di Skanderbeg.
È attraverso queste circostanze storiche che si distacca la personalità di questo capo albanese, Giorgio Castriota Skanderbeg, il quale, ancor prima della caduta dì Costantinopoli e di fronte alla penetrazione musulmana e all’imminente invasione dei Turchi, cerca di entrare in contatto col papato e con i sovrani napoletani.
Nel 1461 intraprende una spedizione per aiutare Alfonso V d’Aragona, minacciato dagli Angioini, libera i posti di Trani e di Barletta e in seguito rafforza la dinastia Aragonese, ricevebdo per questo come ricompensa le terre nelle Puglie.
L’invasione dell’Arbëria da parte dei Turchi nel XV sec. è la ragione per la quale costrinse la popolazione albanese che gia aveva subito un rimescolamento interno a migrare e trovare modelli territoriali paralleli a quelli della terra di origine in Italia meridionale, e in Sicilia.
Si possono conoscere in modo sufficientemente esauriente le fondazioni di un gran numero di comunità e la via che seguirono per giungere nei siti di destinazione.
Risalire alle date di imbarco in Albania e di sbarco nelle terre del Regno di Napoli è difficile in quanto era facile rimbarcarsi per brindisi e dopo raggiunte le coste dello jonio discendere la costa per poi risalire le colline e ritrovare simili parallelismi territoriali. I documenti che riferiscono i fatti sull’esodo albanese non danno molte informazioni; riguardo al modo di transito di queste popolazioni si sa che Venezia la cui politica oscillava in funzione dei propri interessi, come pure gli Stati a nord dell’Albania, non permettevano il diritto di passaggio e ancor meno l’installazione di Colonie nel loro territorio, motivo per il quale non rimaneva che transito attraverso il mare.
Le migrazioni del 1470 a seguito della morte di Scanderbeg assieme a quella del 1532 da Corone e Morea, popolate prevalentemente da albanesi, oggi inclusa nella Grecia, sono state le due più caratterizzanti le popolazioni arbëreshë che oggi preoccupano i territori meridionali conservando usi e costumi.
D’altronde non è da escludersi che una parte di questi albanesi siano originari del Nord e centro Albania, scesi in Epiro in seguito a difficoltà incontrate con gli slavi e a causa dell’arruolamento nell’armate estradiate, infatti dopo la caduta di Scutari sono segnalati alcuni gruppi di emigrati che provenivano probabilmente da questa città o dai suoi dintorni.
La maggior parte delle emigrazioni riguardano le regioni dell’Albania del Sud, regioni montagnose rifugio e asili favorevoli nella resistenza e hanno permesso a queste valorosi di rimanere più a lungo ed emigrare più tardi rispetto a quelli delle pianure.
L’onomastica, le differenze somatiche, la fonetica grammaticale delle diverse parlate, testimoniano la diversa provenienza migratoria e la loro eterogeneità.
L’antroponimia evidenzia l’orientamento delle stirpi provenienti dal Nord e dal Sud dall’Albania , la discendenza delle quali si può trovare in Italia meridionale; avere una certa sensibilità relativamente alle trasformazione avvenuta nelle macroaree di accoglienza, come ad esempio alcuni cognomi hanno acquisito un lessico tale che la propria origine risulta defigurata.
D’altra parte i capitoli, quando esistono, contengono documenti preziosi che ci danno la possibilità di conoscere la data di fondazione della comunità arbëreshë, anche se si ritiene che i capitoli siano stati contratti solo dopo l’arrivo degli albanesi con prassi replicate in cui si sostituivano ogni volta solo i luoghi di destinazione.
Gli atti trascritti con il feudatario e alcuni capi rappresentanti i gruppi degli esuli rendono ancora molto più difficile la determinazione della provenienza dall’Albania.
Gli atti capitolari riferiscono quindi delle condizioni di vita degli esuli escludendo un ritorno in tempi brevi, lasciando poche speranze speranza di un pronto ritorno nella Madre Patria.
Le loro clausole divulgano informazioni sul modo di vivere: habitat, oneri feudali, tasse, diritti e soprattutto doveri dei nuovi arrivati.
Nonostante i sovrani accordassero privilegi, i viceré dominati da orgogliose ambizioni, non si preoccuparono sempre di ricordare e mantenere gli antichi diritti verso i sudditi arbëreshë.
I baroni, i vescovi, facevano pesare la loro oppressione tanto più che gli albanesi si dimostravano a volte ribelli nella fierezza della loro cultura.
Nella cartina sono messe in evidenza: le comunità iniziali, le comunità albanofone, “le comunità di tradizione albanese (riti religiosi, usi, consuetudini e lingua comune), tra queste per la non compatibilità caratteriale diedero avvio ad ulteriori frammentazioni e in alcuni accomunamenti.
La scelta dei luoghi in cui si insediarono le popolazioni arbëreshë è stata un connubio tra necessità degli ospitanti e quelle dei profughi, scelte politiche dei sovrani spagnoli spinti dalla loro riconoscenza ma anche dalle necessità che viveva il meridione.
La presenza di abbazie bizantine o di presidi comunque religiosi garantiva salubrità e la garaznia di ritrovare gli stessi parallelismi territoriali abbandonati.
La discendenza di Skanderbeg e le alleanze matrimoniali stabilite con principi del luogo proprietari di numerosi feudi, si possono considerare invece solo una leggenda storica, infatti se si esclude la principessa irene andata in sposa a Pietro Antonio Sanseverino, gia marito di sua zia, le altre discendenze vivevano una intensa vita di corte che impegnava a tempo pieno facendo dimenticare i problemi dei poveri esuli sparsi nei territorio meridionali.
Rari sono gli Arbëreshë che si impadronirono dei terreni incolti lasciati a loro disposizione, in quanto furono loro concessi luoghi incolti e da rassodare il che li rese praticamente autonomi, isolandoli in modo che non potessero riunirsi e costituire così una forza pericolosa, proibendo loro sino al 1535 persino di costruire case in muratura.
Le terre e i casali affidati agli arbëreshë, per questo, si presentavano incolte impervie o abbandonate o devastate dalle guerre, carestie o distrutte da calamità naturali.
I signori locali approfitteranno di questi esuli per affidarono terre incolte con obbligo di una quota sulla produzione procedendo in questo modo alla valorizzazione del loro feudo.
Gli storici suddividono in sette il numero delle principali emigrazioni situandole tra il 1448-1825 ma flusso latente non si è mai interrotto e continua ancora anche in età moderna.
Agli inizi del XV erano essenzialmente formate da truppe di soldati a disposizione dei principi locali, l’ armata doveva difendere la Sicilia contro le incursioni angioine e dopo i successi militari, ebbero il permesso di installarsi a Contessa Entellina, Mezzojuso Palazzo Adriano.
Lo stesso contingente rimasto in Calabria fondò i paesi della provincia di Catanzaro, tra i quali Caraffa, S. Nicola dell’Alto e Carfizzi Pallagorio.
Le migrazioni successive ebbero come protagonista Skanderbeg nel 1461. Alcuni di questi soldati fecero venire la loro famiglia e rimasero nei feudi dati al capo albanese tra il 1461-1467, nelle Provincie di Foggia, Campobasso e Lecce.
Ma le migrazioni più consistenti si ebbero solo in conseguenza della morte del Castriota, avendo i picchi più elevati tra il 14681 e il1532 suddividersi in due ondate: nel dopo la morte di Skanderbeg la grande corrente migratoria fece nascere le comunità di Lucania, Barile nel 1477, in Calabria citeriore, Santa Sofia, Sant’Adriano, Vaccarizzo, San Cosmo, San Giorgio, Frascineto, Ejanina, Civita, Acquaformosa, S. Benedetto Ullano, Piataci. S. Basile ed altri centri della stessa etnia.
La migrazione nota come della religione e dei nobili(?) Morea e di Corone ebbe luogo nel 1534 sotto l’imperatore Carlo V e corrisponde ad un esodo delle popolazioni delle città di Corone, Modone, Nauplia, cadute nella mani dei Turchi.
Gli esuli in questo caso vennero salvati dalle navi di Andrea Doria, genovese, per intercessione del re Carlo V, che aveva messo a loro disposizione con le sue numerose galere con il viceré delle due Sicilie Don Pedro di Toledo.
Questa emigrazione andò a caratterizzare quelle comunità già in via di insediamento e che portarono in dote il rito religioso greco bizantino.
Altre migrazioni si sono susseguite nel tempo ma le caratterizzazioni territoriali erano ormai in via di completamento e da adesso in poi ha inizio la vera storia di queste popolazioni
La storia e lo sviluppo di queste Comunità Albanesi attraverso i secoli sono strettamente legate alla posizione geografica, al pittoresco rilievo di queste regioni, difficilmente accessibili, in cui sono impiantati questi villaggi; legate pure ai contesto religioso e socio-economico del sistema feudale e dalla politica dell’Italia.
La geografia ha avuto come conseguenza di portare un contributo positivo per ciò che riguarda il mantenimento della Tradizione Arbëreshë, lasciando queste popolazioni sino alla salita al trono di Carlo terzo relegati al ruolo di ottimi contadini rimanendo sino alla prima meta del XVIII secolo lontani dallo sviluppo economico e culturale.
Il rito orientale bizantino è stato un elemento di distinzione per tutta la comunità arbëreshë. Da tutti, credenti o no, è vissuto e percepito come una componente nazionale, parte integrante del patrimonio albanese.
Il passaggio forzato al rito latino, non ha avuto come conseguenza, nella maggior parte dei casi, in quanto il codice linguistico e i modello consuetudinari sono stati sempre sufficienti ad unire e tenere vivo i valori antichi di queste popolazioni, che pur se lentamente intergrate avevano come codice il ricordo della patria d’origine.
Il crearsi dell’Istituzione religiosa di rito orientale a San Benedetto Ullano pur se considerata un’esile fiammella, ha dato un contributo alla crescita e allo sviluppo arbëreshë si dal punto di vista dell’identità linguistica ma mettendo in luce le qualità culturali e scientifiche.
Le istituzioni volute furono il Collegio Corsini, a San Benedetto Ullano e il Seminario di Palermo, fondati per volere del Papa.
I presidi di formazione, clericale e laico, hanno dato ai giovani arbëreshë la possibilità di acquisire una formazione tanto umana, religiosa, quanto scientifica e patriottica.
Numerosi furono i giovani del Collegio Corsini che per l’impegno politico religioso di Pasquale Baffi e Mons. Francesco Bugliari che a fine settecento fecero trasferito a S. Adriano, dove la popolazione scolastica ebbe modo di crescere e avere una formazione politica religiosa e culturale di altissimo spessore. Numerosi furono i giovani del I Collegio S. Adriano che parteciparono con zelo al Risorgimento, lanciandosi con un coraggio incrollabile contro l’oppressione del potere feudale degli spagnoli per acquistare la liberazione sociale e politica dell’Italia.
I riti del ciclo della vita umana, il calendario Liturgico Bizantino come tutti gli usi e costumi che hanno fatto parte della vita degli Arbëreshë, hanno lasciato la loro impronta nella fisionomia e nella personalità di questa comunità.
Continuare a ritenere che gli arbëreshë siano esclusivamente un popolo che parla una favela diversa, è offensivo e poco dignitoso, in quanto, i contenitori fisici ovvero ,le architetture, i riti e le usanze che ritroviamo ancora oggi presso gli Albanesi in maniera diffusa, testimonia in modo univoco l’unità culturale del popolo albanese tutto, senza distinzioni geografiche o meridionalismi culturali che non hanno alcuna fondatezza e ne senso linguistico.
Liberamente tratto da “Origine e sviluppo delle comunità di Albania in Italia”
di Licia Conti e Odette Marquet