SANTA SOFIA D’EPIRO – Racconto di un Evento
Con grande devozione e profonda partecipazione la comunità sofiota vive da sempre la festa del santo patrono Atanasio il Grande, difensore ecumenico della retta fede e Padre della Chiesa Una ed indivisa.
Questa festa che per differenziarsi da quella solenne del 2 di maggio ricorda il Vescovo Napoletano viene detto – Sant’Atanasio piccolo”, che assieme a quella sopraccitata del 2 di maggio con tutta la preparazione e lo svolgimento ad essa connesse: novenario, vigilia, ottavario e Primavera degli italo-albanesi (un tempo una delle manifestazioni di spicco delle Comunità Arbëreshë), rappresenta l’unico segno duraturo dell’essenza comunitaria.
Culturalmente è assodato che la Chiesa nelle nostre comunità ha da sempre avuto una funzione socio-educativa di primo livello.
I papàdes (sacerdoti) di un tempo erano il fulcro centrale della cultura, detentori del patrimonio liturgico-linguistico che trasmettevano costantemente ai cittadini.
Basti pensare per quanto riguarda S. Sofia d’Epiro, all’attività dei vescovi Bugliari (Francesco e Giuseppe), ai sacerdoti Stefano Baffa, Antonio Baffa, Pietro Atanasio Bugliari, Pasquale Miracco, Guglielmo Baffa, Pietro Atanasio Monaco e l’Archim. Giovanni Capparelli.
Quest’ultimo unico non sofiota, tra i citati, a cui la nostra comunità, avrebbe dovuto fare più domande invece di tacere su tradizioni e cose.
Grazie a loro che Santa Sofia si trova incastonata in quel mondo orientale e, trae la propria origine dalla gloriosa Costantinopoli, esempio ne è la Basilica dell’“Aghia Sophia”, ivi eretta dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo.
A proposito dell’origine del nome Santa Sofia è doveroso fare alcune precisazioni: proprio come la Basilica di Aghìa Sophia – il riferimento alla Santa Sapienza era per indicare il Verbo incarnato, cioè Gesù Cristo, seconda persona della SS. ma Trinità.
Così era anche per la Chiesa millenaria di Santa Sofia (Qisha vjeter), ridedicata dagli esuli epiroti a Santa Sofia e alle tre figlie martiri Fede, Speranza e Carità, copatrone della nostra comunità e la cui memoria liturgica annuale ricorre il 17 settembre, secondo il calendario greco, smarrendo il relativo luogo di sepoltura divenuto uliveto.
Per motivi sentimentali e personali mi è particolarmente difficile descrivere la figura e la festa del nostro santo patrono.
Di sicuro nella comunità sia a gennaio che di maggio, si respira un’atmosfera del tutto particolare.
I tanti problemi che devastano il globo, sono momentaneamente attenuati, accantonati e, lasciando spazio alla fede più genuina e popolare che forma il vero humus della società.
La festa ci insegna due cose:
1) è uno specchio che riflette nel passato, ricordandoci quello che eravamo e i tanti ricordi che ci legano ad esso;
2) espone ed evidenzia quello che siamo oggi, uomini del terzo millennio, di sicuro più colti e più multimediali ma fortemente bisognosi di memoria storica e umiltà, facendo marciare prima le cose futili invece che il santo.
Resta un dato inconfutabile, ovvero che il tempo, le cose e gli uomini consumano la memoria e, le nuove generazioni in maniera inconsulta violentano le cose che appartengono alla storia e non ritengono giusto che la memoria sia da rispettare.
Infatti qui un tempo, la chiesa era dedicata a Sant’Atanasio l’Alessandrino e, chi si recava in questo manufatto a pregare si volgeva li dove nasce il Nilo, in oltre la porta principale, in rispetto della chiesa Bizantina dedicata a Sofia e, questo rimane tale perché difficile da modificare, anche se le gesta diffuse, come la porta piccola delle donne era aperta verso il centro antico, per essere una regola ormai sempre più dimenticata.
Più semplice è stato levare una “T” al santo vescovo Napoletano Attanasio, a cui era dedicata la piazza, che trova conferma e solidità nel calendario Marmoreo del popolo Napoletano, che ricorda il Natalizio del Santo Vescovo della Napoli Ducale, il diciotto di gennai.
Ma questa è una storia che nessuno conosce e preferisce risolvere tutto in una messa, con successivo banchettare della” baskia locale”, che si sostiene al tintinnio di forchette e coltelli sul piatto vuoto, che non è lo stesso suono operoso del martello e lo scalpello che incise il calendario.