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TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Posted on 15 settembre 2024 by admin

Aglomerati primariaaaa

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le terre del casale che poi divenne di Sofia, furono attraversato da Romani, vissute da Bizantini, pretese dai Longobardi, per poi ricevere agio agrario dell’Ordine Cistercense e in fine dal XV secolo divenute terre parallele ritrovate per gli esuli Arbëreşë, questi ultimi dopo averle riconosciute, ebbero agio di bonificarle e renderle giusto confine abitato di sei casali della diocesi di Bisignano confine storico con quella di Rossano.

E in questo luogo che da sei secoli sono vissuti, gli adempimenti di integrazione e sostenibilità con gli indigeni locali prima e, poi riverberandosi sulle pieghe dei territori del principato di Bisignano, del Regno di Napoli, dell’Italia come cerchi concentrici abbracciarono tutto il vecchio e i nuovi continenti.

In questo luogo operoso, fatto di artigiani di genio e contadini infaticabili, dopo le vicende di scontro e di confronto con gli indigeni locali, grazie alla realizzazione del plesso scolastico Arcivescovile, dal 1595 ebbe inizia la “Semina Culturale” in continua evoluzione, grazie ai numerosi titolati, si formarono nelle Storiche Scuole Sofiote, li germogliate.

Certamente dopo la stagione di confronto inizia l’era delle attività vernacolari, dove ad essere protagonisti sono le attività artigianali e rassodare per mettere in produzione il sistema agreste.

Nascono per questo i cunei agrari di produzione e della trasformazione di prodotti agro silvicoli e pastorali, si erigono mulini e masserie, mentre all’interno del centro abitato, maniscalchi, fabbri e artigiani diventano i punti dove rendere efficienti attrezzi e ogni ordine di manufatto indispensabile per meglio accelerare i tempi di lavorazione.

Questo certamente sino alla fine del XVII secolo, quando ebbe inizio il formarsi di clerici, grazie al plesso qui elevato e nuove leve, frequentando le famiglie più elevate, ricevono formazione all’interno del centro antico.

La svolta epocale avviene con l’istituzione del collegio Corsini in San Benedetto Ullano e, da questo momento in avanti, numerosi Sofioti hanno modo di frequentarlo ed essere protagonisti alle necessità del regno, come il prete Giuseppe Bugliaro che venne scelto da re Carlo III, ad assumere il ruolo di Cappellano Militare della Real Macedone, appena istituita.

Il Bugliaro diventa l’elemento trainante di tutta la cultura storica degli Arbëreşë, privilegiando in modo particolare chi proveniva dal suo luogo natio, infatti la sua posizione sociale all’interno della capitale del regno, facilita l’ingresso nei canali culturali e delle fratrie sociali che contano di suoi conterranei e parenti.

Il primo fu Baffi e dopo un po’ di tempo anche Masci il secondo, quest’ultimo, diversamente dal primo, segue una deriva a dir poco scorretta, per raggiungere il vertice della politica a qui tempi in fermento, specie con il rinnovamento di “Cassa Sacra” seguendo le orme del Baffi, arricchisce la sua indole perversa.

Oggi rileggendo le dinamiche seguite dai due, per la loro affermazione pubblica, politica e storica, appare evidente il sovrapporsi o incrociarsi di meriti dirsi voglia, attestazioni e racconti dove si confondono i meriti culturali dei due nativi in Terra di Sofia.

Questo è anche il tempo in cui le maestranze agricole, viste le nuove richieste dell’industria, in carenza di olio per far ruotare meglio le nascenti rotative del nord Europa, invitava a fronte di nuovi guadagni a, rimuovere gelseti per alimentare i bachi da seta, ormai sovrastati dalla crescente via della seta.

I percorsi carovanieri o rotte commerciali che congiungeva l’Asia orientale, e in particolare la Cina, al Vicino Oriente, raggiungevano e modificavano le richieste commerciali del bacino Mediterraneo.

Si piantumano uliveti e, nel breve tempo della crescita delle piante, nascono così i frantoi storici, finalizzati alla estrazione e produrre olio.

Questo naturalmente lungo i cunei della trasformazione locale, che non sono esclusiva di mulini per separare farina e crusca dal grano, ma da adesso si affiancano anche i frantoi, anche lungo lo scorrere, del Galatrella e del Vote.

Oltre alle figure del Pastore, Casaro, Agricoltore, Mugnaio e Prete, prende valore l’arte del Frantoiano, Cantiniere, Calzolaio, Fabbro, Falegname, Maniscalco, Muratore, Sarto, Stagnino, Stimatore dell’Agro, Trasporto a dorso d’asino.

Si affiancano così ai luoghi ideali del governo della Gjitonia del centro antico, anche quelli dell’agro che diventano luogo di incontro e confronto, nel mentre la scolarizzazione da ora in avanti avviene nelle famiglie più elevate che accolgono giovinetti per indirizzarli alla grammatica, la storia, geografia e la scienza esatta.

Da ora in avanti le famiglie più rinomate del centro antico, diventano luoghi di formazione per quanti i genitori, decidono di elevarli dalla loro condizione sociale, tra questi vedremo emergere i Baffa/i, Becce/i, Berlingieri, Bugliaro/i, D’Auria, Fasanella, Masci, Ferriolo, Miracco, Pizzi.

Ha inizio cosi il percorso delle scuole nel centro antico in Terra di Sofia, dove oltre i temi della credenza Bizantina sono insegnate le antiche trattazioni della lingua greca e latina, da cui estrapolare un modello comune di Arbëreşë, in forma scritta, di questo aspetto, in particolare va rilevato un dato che ancora oggi resta sconosciuto, certamente non alla portata dei comuni viandanti o copiatori seriali, che quanto impattano con le necessita della forma scritta, si difendono dicendo, “da noi si dice così”.

E no! se siete vero esperto ricercatore bisogna saper unire le parlate di un popolo, non dividerle in Katundarë e llitirë, discriminando invece di unire generi, fatti, cose e natura.

È dal secolo XVII che il Katundë vive una stagione di confronto nato a Napoli e qui senza soluzione di continuità si riverbera ancora oggi in Terra si Sofia, dilagando in tutta la regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.

A Napoli prende agio e, si sviluppa il genio del luogo natio, lo stesso che si adopera per adombrare ogni opera, facendone uso e vetrina, sin anche dei più meschini e volgari, radicati negli adempimenti sociali, parentali o germani dirsi voglia, che mirano alla distruzione morale e, il alcuni casi anche fisica del prescelto.

Esempio emblematico la storia di Pasquale Baffi, tradito derubato e, solo uno, dei suoi paesani si è ostinato a leggere, capire e confrontare cosa fosse successo tra le cose storiche di Napoli capitale e quelle del suo Katundë natio, lo stesso che rimase impassibile alla sua morte, non essendoci stata alcuna reazione, come oggi e in altre occasioni del passato storico si è visto ripetere.

Baffi il letterato più alto che abbia avuto il mondo culturale, costa solo a “uno” rilevarlo e, sino al 2003, ritenuto nullità, perché non aveva mai scritto in lingua Arbëreşë o romanzato penose figure di genere riverso.

Questo almeno era il parere di uno dei pilastri dipartimentali dell’epoca che preferiva, nella connessione di via Duomo, con la via Furcillense napoletana, elogiava copiatori seriali, a chi era fortemente acculturato.

L’unico Arbëreşë che aveva avuto consapevolezza della storia millenari dei profughi d’altre Adriatico non azzardando alcuna pena scrittografica a questo antico popolo.

Pasquale Baffi è bene ribadirlo, nella storia della letteratura è il primo, il più grande, il più geniale, il solo, letterato che non scrisse libri, compilò inutili Alfabeti o componimenti riversi dall’Arbëreşë al corrispettivo in Italiano, che è la cosa più inutile concepita per i minori della diaspora balcanica notoriamente famosi per essere analfabeti.

Infatti come si possa concepire una compilazione così inutile e riversa, non trova risposta alcuna, dato gli Arbëreşë una popolazione analfabeta, diversamente dell’italiano che tutti parlano, studiando e leggono; questa premessa fortemente divulgata, con ogni edito con premessa alfabetata di tutela,

A tal proposito e sulla base di questo costume o premessa, come si può concepire un vocabolario che dall’ Arbëreşë, distingue un corrispettivo, articolo, nome verbo, congiunzione, sostantivo ecc. ecc. ecc. in italiano, come dovrebbe fare l’analfabeta Arbëreşë, a cercare un qualsiasi vocabolo, se non si ha cognizione di lettura in Arbëreşë, la risposta ai soliti viandanti distratti o ricercatori di note llitirë o di chi venne battezzato a mezzo fiato.

Infatti essendo il Baffi, il primo unico e solo letterato, che il pianeta o mondo Arbëreşë abbia mai avuto, nel predisporre i suoi studi storici, che appariscono come “Discorso” non ha mai menzionato scritti o prodotti editoriali in lingua di sua madre, nonostante avesse titoli e capacità intellettuale per farlo, perché questa e solo aspirazione di quanti sognano campanili da scalare e lui il Baffi, non ne aveva necessità perché illuminato da madre natura.

Preferendo così il non sconvolgere una consuetudine secolare, facendo molto di più dei comunemente scriba, infatti il suo fare si concentrava in cose molto più genuine, utili e intelligenti, come il comparare la radice delle parole, dei governariati delle terre della diaspora, con quelle indo europee più note.

Lui il Baffi preferiva porre a confronto le parlate dei viandanti della via Egnazia e, di quanti si dirigevano in terra santa a cercare gloria e credenza, con gli indigeni locali li pronti a confortarsi per sostenerli.

Altro dato fondamentale che appare nei suoi scritti apparsi in “Discorso sugli Arbëreşë”, sono gli appuntamenti storici che questa popolazione era uso predisporre, nel tempo dell’inizio dell’estate, secondo due principi:

  • Il primo per ospitare i parenti degli indigeni scomparsi e ricordarne le gesta con processioni nei luoghi di sepoltura
  • Il secondo ricordare i propri eroi, con danze e canti rimanendo ai margini del percorso dove sfilavano gli ospiti.

Questa era anche l’ossessione per numerosi Arbëreşë, per esternare ironia in lingua parlata indirizzandole verso gli ospiti più nobili che sfilavano e per non essere individuati non per il dire, ma per le gesta e il fare, si camuffavano dipingendosi il viso e in alcuni casi indossando indumenti femminili.

Queste gesta oltre a studi specifici, davano senso alle diplomatiche che il Baffi compilava tra il 1754-55-56-57 e, dato che le rotative del regno, non avevano tutti i caratteri Greci, secondo le regole di stampa di Gutenberg, Baffi inviava i suoi scritti, nel nord Europa, dove suoi leali estimatori, provvedevano a disporli in stampa senza errori alfabetari.

È il Baffi a realizzare il percorso storico di questo popoli prima e dopo l’insediamento dei profughi nel regno di Napoli, individuando paesi e casali, indicandone alla fine del XVI secolo quale direttiva religiosa era seguita dagli Arbëreşë se latina o greca, indicandone la eventuale radice Latina o Greco Bizantina.

È sempre Pasquale B. a salvare i Papiri di Ercolano, quando avuta conferma dell’arrivo dei Francesi a Napoli e, conoscendone la natura le aspettative verso le cose dell’antichità, anni prima fece nascondere gli storici scritti, i quali se oggi sono ancora parte delle preziose cose dell’antichità conservate a Napoli, lo si deva alla sua previsione, perché ne aveva intuito il grandissimo valore.

Pasquale Baffi oggi viene ricordato nel suo luogo natio, con un busto bronzeo do ve Temistocle e Gennaro si adoperarono a dismettere l’orinatoio pubblico, e lui non merita questo omaggio di memoria proprio in quel posto malsano attorno al quale il centro antico si è sviluppato, si possono capire le scelte di apporre il busto di Scander-beg, turcofono, giustamente depositato nel lavinaio dove era il vuttò dei nobili Bugliari, o senza logica storica e di pensiero lineare è depositata un monumento a memoria della terra di origine degli Arbëreşë tutti.

Una sfera fatta di pietra calcarea do ve usualmente per il lavinaio che li scorreva era la Fossa per spegnere la calce, ironicamente un aspetto addirittura ironico, la pietra calcarea che rappresenta la vecchia Albania, depositata proprio li dove si rendeva morbida o meglio si sgretolava si spegneva rendendola morente l’essenza calcarea.

Queste, assieme ad altri adempimenti all’interno del centro antico, in Terre di Sofia rappresentano il sunto di una vergogna storica senza precedenti, poi se si volesse continuare con le rappresentazioni moderne dei graffitari anonimi non resta che piangere.

In quanto non vi è un luogo, un anfratto, una prospettiva che viene valorizzata in nome di quelle persone o di quelle figure, rappresentative di questo luogo tanto cari e ameni per quei cognomi prima elencati.

Gli stessi che in nessun modo sono ben voluti, ricordati, rispettati e neanche citati per titolo e nome, ma con il banalissimo e dispregiativo alias o soprannome degenere locale.

Similmente e incautamente come si usa appellare Giorgio Castriota figlio di Giovanni il quale è citato in onomastica o esposto comunemente con effigi islamiche, ovvero: Scanderbeg, sormontato da ironica cupola mussulmana eroicizzato da erbivoro in corna difformi.

Tutto questo non lo si fa solo con le figure del passato ma anche con le moderne, le stesse che quando espongono fatti e luoghi della storia locale, si risolve con l’indagare il centro antico e i cunei agrari, proprio con i dipartimenti che sono stati l’inizio formativo di queste eccellenti figure, le quali per principio di incompetenza locale, non sono coinvolti neanche a illustrare cose in loco, che solo chi studia e compara storia, architettura urbanistica e costume, può concepire.

Terra di Sofia, ad oggi non ha una guida storica del centro antico e del costume, nonostante vi sia la tendenza a distruggere il primo, addobbare di incoerenze e appellativi senza ragione il secondo, per non parlare delle tante figure di genere che hanno fatto la scuola storica di questo luogo, confondendo e allocando in prima linea, abbandonando le eccellenze sotto la polvere dell’ignoranza, dell’incompetenza e dell’inconsapevolezza della storia.

Qui ancora oggi non esiste una mappa delle attività storiche, sia all’interno del centro antico o delle sue periferie storiche, vicine e lontane, dove figure di memoria in arte manuale hanno reso possibile, il lavoro nei campi, con attrezzi vestiario, scarpe e quadrupedi, che a seconda le esigenze garantivano di bonificare le terre, per estrarre profitti vitali per loro e le proprie famiglie.

Tantomeno sono noti i Katoij, Moticellje o Kallive dove ebbero i natali le figure più eccellenti di questo nostro centro antico e, di come poi queste si siano sviluppate al punto di essere chiamate al plurale di nobile radice, non più al singolare di povertà.

Il lavoro dei campi e il sacrificio di mantenerli produttivi, non disdegnava o mortificava alcune genere di figura, i campi  posti a prodizione, richiedevano ogni tipo di capacità individuale e quando ci si recava in campagna l’unico atto discriminatorio era il capofamiglia a dorso d’asino mente la regina della casa a piedi, lo seguiva fiera e caricata a sarmenti sulla schiena, assicurando l’indispensabile scintilla del fuoco con il proprio “Telljë  personale”  fatto di stoffe arrotolate e cucite .

Intanto e nonostante ciò si preferisce allontanarli con disprezzo, per terminare l’analisi ad opera di referenti anonimi locali, che raccontano cose ed esempi alloctoni senza senso, terminando con un nulla di fatto e. la memoria locale non trova memoria e senso della manifestazione, che aggiunge strato di velo pietoso al luogo di noi illustri natio.

Oltre alle case e alle Botteghe artigiane del centro antico e delle sue frazioni, assume importanza storica la toponomastica che per essere stata fatta con intelligenza e cognizione storica è un protocollo che se idoneamente letto racconto le vicende e lo sviluppo del Katundë nel corso della storia.

Terre di Sofia, dalla metà del XVII seco, ebbe Cappellani Militari, Medici, Vescovi, Poeti, Letterati, Bibliotecai, Archivisti, Museologi, Politici, Accademici, Notai, e un numero rilevante di prelati, per questo nella macro area Sanseverinese era nota come il “Katundë delle Scuole di Sofia”

A tutte queste eccellenze accademiche se sommiamo gli artigiani, l’operato per la valorizzazione del centro non ha confine e infatti il benessere sociale non aveva ostacoli, nonostante un ristretto numeri di individui che remava solo per il suo benessere e quello dei suoi fratelli andati in matrimonio a nobili donne San Demetrese e Ullanese.

Una nota di merito, in questa diplomatica Sofiota, va al geniale pastore, Gioan Vincenzo Pizzi, il quale ormai vecchio e non più in grado di condurre le sue pecore, gestiva l’orto botanico dei Baffa/Caccuri in località “Morijthë” dove era anche il frantoio del nobile famiglia, oggi raso al suolo e seppellito per fare strada.

Il vecchio pastore qui durante lo scorrere dei tempi morti, svolgeva l’attività esemplare realizzando zoccoli di legno, ovvero, realizzava supporti di calpestio differenziati, per quanti, avevano difficoltà motorie, associava due sagomature lignee che compensavano la mancanza motoria del paziente.

Se vi dovessero sopraggiungere dubbi a riguardo, abbiate il coraggio di chiamare il qui scrivente e vi racconterò cose di cui, come abitanti di Terra di Sofia vi vergognerete, per voi e per i vostri figli, ai quali potrebbero ricevere in dono, un domani speriamo remoto, il vivere l’inferno medesimo.

Testimone è Adelina Pizzi, la cui storia sino ad oggi non conosce nessuno, ma ormai al compimento dei suoi primi quarant’anni, come indicato in data, è bene che tutti la conoscano e, chi furono i quattro artefici di questa storica dipartita, siano ripudiati dalle Terre floride estese di Sofia.

Le stesse che sono perfette per concepire figure illustri, ma poi non allevarli, accoglierli e ricordarli come fanno le madri buone che rimangono senza e in attesa perenne che ritornino rispettati.

 

Atanasio Pizzi Architetto Basile                                                                                                  Napoli 09-15-2024

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