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I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

Posted on 04 settembre 2024 by admin

bovaroNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.

I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.

In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.

I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.

Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.

Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.

La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.

Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.

Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.

Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.

Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.

Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.

Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.

Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.

La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.

A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.

Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.

Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.

Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.

Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.

I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.

Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.

Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.

Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.

Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.

Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.

Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.

Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.

Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.

Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.

Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.

Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.

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