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Mostra "l'oro arbëreschë a Napoli

Mostra “l’oro arbëreschë a Napoli

Posted on 28 febbraio 2020 by admin

Mostra

NAPOLI (da Un’idea di Atanasio architetto Pizzi)

L’ORO ARBËRESHË A NAPOLI (Haretë Arbrëshë në Napulë)

 

Il Mediterraneo nella storia rappresenta il bacino che unisce, uomini, civiltà, consuetudini, religioni e pratiche di vita differenti.

Napoli sin dai tempi dei suoi fondatori Cumani, fu per le sue peculiarità climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, questo spinge l’ideatore di questo progetto a illustrare quale patrimonio culturale sia stato accumulato in secoli di incontri e confronto tra popoli di radice dissimile.

Attraverso l’idea di progetto, di seguito illustrato, si vuole evidenziare il seme dell’accoglienza  e illustrare, le eccellenze della minoranza Arbëreshë, la storica popolazione dell’Epiro che, dal XV secolo, preferì allocarsi nell’allora regno di Napoli.

Porre  in  evidenza gli aspetti storico/sociali, di  nicchia  partenopea,  assieme  a  quelli  notoriamente divulgati, di estrazione ambientale ed estetica, serve a dare completezza al luogo dove furono elevati i valori di democrazia, convivenza e giustizia del meridione.

Il centro antico partenopeo è sempre stato un luogo baricentrico del mediterraneo e per questo vi trovarono approdo, romani, greci, bizantini, normanni, francesi, spagnoli, austriaci e tante altre popolazioni o dinastie di rilievo; ognuna di essi avendo depositato temi indissolubili, nel tempo, si trasformarono in forza, per la popolazione oltre il costruito storico che divenne per questo unico   e difficile da imitare o riprodurre, dal punto di vista storico, sociale e di confronto tra popoli.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto, dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine verso le periferie, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica di un tempo e quelli di oggi della multimedialità.

La città metropolitana oggi, e il suo centro antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione di essenza Greco Bizantina e poi anche quella arbëreshë.

L’excursus storico, parte proprio nel cuore del centro antico, in quello spazio dove oggi è collocata la statua che raffigura giacente il fiume Nilo; allestito secondo le regole tipiche del sedile lungo il decumano inferiore, dove la piazza intersecava anche la strada che conduceva alla “porta ventosa”detta vico degli Alessandrini.

Il sistema piazza, decumano, vico e porta, erano gli ambiti frequentati da numerosi commercianti sin dai tempi di Nerone.

L’imperatore, apprezzando notevolmente le adulazioni di queste popolazioni di scuola greca, ne fece venire molti altri: fu così formarono in questa città, una piccola colonia, detta “Nilense” ispirati dal nome del fiume benefico della madre patria.

Il monumento, rappresentato con la figura di un vecchio sdraiato, sul lato sinistro su un rozzo sasso da cui sgorga acqua; l’anziano si presenta nudo nella parte superiore del corpo e le parti inferiori coperte da una veste; sotto i suoi piedi sorge la testa di un coccodrillo e intorno bambini gioiosi, che simboleggiano il prodigio naturale  del fiume le cui acque, secondo la credenza locale, fecondava le terre, le donne e ogni essere che si abbeverasse.

Nei pressi di questo monumento, si presume che vi sia stato un tempio, che gli Alessandrini dedicarono ad Iside, si racconta in oltre, che nel pronao del tempio si depositavano le tavole votive, che attestavano le grazie ricevute dal “Fiume”, la maggior parte delle quali erano di marinai Alessandrini scampati da naufragi.

Davanti al frequentatissimo tempio sostavano donne vestite di bianco che cantando le lodi della dea salutare, dopo le preghiere si trascinavano carponi con la faccia, sul pavimento del tempio, pregando per la salute e il benessere dei loro cari.

Si presume che da queste credenze popolari siano state ispirate quelle partenopee degli ex voto o dei santuari dove tra sacro e profano, si onorano alcuni santi locali.

La via oggi di Mezzocannone, nella sua parte inferiore alle origini dell’espansione muraria era interrata fra le alture dell’Università e di S. Giovanni Maggiore.

Il tratto della cinta, che in origine coincideva con il lato orientale di questa via, fu mutato dopo il 326 a.v. C., l’anno del trattato di alleanza con Roma, per accogliere gli abitanti della città vecchia, (Parthenope) nella cinta della nuova (Neapolis) e così furono ampliate le mura nella parte di occidente con l’unione dell’altura di S. Giovanni Maggiore in principio esclusa dalla città.

Per evitare successivi affanni economici il muro dal vicoletto Mezzocannone a poco oltre la rampa di S. Giovanni Maggiore fu conservato, realizzando a poca di stanza e parallelamente un altro muro, incassando la via fra le due murazioni, chiusa da una porta nell’estremo superiore dalla “Porta della Ventosa”.

Nelle annotazioni delle strade e i vicoli ricadenti nel perimetro di questa  regione,  non  e  superfluo ricordare la strada che si apriva sulla porta, appellata l’Alessandrina per la rilevante presenza di mercanti di quelle terre riuniti qui a pregare e negoziare.

La conferma è resa dalle citazioni di Svetonio e di Seneca; il primo scriveva: autem modulatis Alexandrinorum modulationibus , qui de commeatu Neapolim confluxerunt, e  Seneca: Subilo nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae preamitti solent et nunciare sequuturae clasis adventum.

Camillo Tutini, lega la strada in epoca cristiana riferendo che in questo vico vi fosse stata edificata una chiesa dedicata a S.Atanasio Patriarca d’Alessandria, come si raccoglie dal libro delle visite della Chiesa maggiore Napolitana, ove si legge: S. Athanasius Alexandrinus in regione Nili, in vico dicto Alessan- drinorum.

Alla fratria ricadente in questo rione del decumano inferiore, erano ascritte un numero considerevole di nobili famiglie, tra le più antiche, infatti  dimoravano nei loro sontuosi palazzi di rappresentanza allocati nell’impianto ad impronta greca, gli:

Acquaviva • Afflitto • Avalo • Barberini • Bologna • Brancaccio • Capano • Capua • Capuano • Capece • Carafa • Cardenas • Cavaniglia • Dentice • Filingiero • Frezza • Gaetano • Gallerati • Galluccio • Giudice  •  Guevara • Luna • Milano • Montalto • Piccolomini • Pignatelli • Sangro • Sanseverino • Sarracino • Sersale • Spinelli • Ulcano.

A seguito della diaspora balcanica, varcarono l’Adriatico, apprendisti, soldati, contadini e clerici, con lo scopo di riscattare un mestiere, bonificare terre, difendere lingua, consuetudini e la religione.

Identificati notoriamente come “Greci”, va precisato che tutte le popolazioni del levante seguivano il rito  cosi  denominato,  pertanto  l’appellativo  “va  inteso  più  come  riferito  alla  religione  che  alla nazionalità”; riconducibile ai discendenti di quanti abitarono gli antichi themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus.

Nel marzo del 1444, ad Alessio, Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, comunemente denominato dai turchi, “Scanderbeg” fu posto alla testa dell’esercito in difesa di quelle terre per contrastare l’avanzata degli ottomani.

Il condottiero distinguendosi in numerose battaglie della cristianità, oltre ad onorare il patto dell’ordine del drago, ereditato dal padre, in difesa degli Aragonesi contro le armate Angioine rappresenta il bilico per la divisione dei ruoli del suo popolo.

Durante la sua permanenza  nette  terre  dell’allora  regno di Napoli,   ebbe  modo  di tracciare “le Arché dell’infinito arbër”, linee strategiche dìinsediamento, avevano anche lo scopo di preservare la radice originaria degli arbereshe e nel contempo ripopolae Casali e Paesi abbandonati, (i Katundë Arbëreshë) indispensabili punti di avvistamento e controllo dei territori, o meglio focolai delle ideologie Angioine.

Altra nota degna di citazione è la visita a Napoli di Giorgio Castriota, la sosta a Portici, ospite di nobili locali, la cui dimora era allocata prospiciente all’odierna piazza San Ciro (oggi in parte demolito per dare spazio alla via della Libertà).

È da qui che si mosse la mattina seguente, per giungere nella capitale dal lato orientale della città, proprio nel rione sub urbano detto di Loreto, (esisteva in memoria il vico detto dei greci) qui fece acquartierare le sue armate, mentre lui con il suo seguito si diresse verso il castello, dove venne accolto con tutti gli onori degni di un grande condottiero

Dopo il 1468, anno della morte, restano le gesta irripetibili, la fama e l’impegno di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per il quale, Andronica Arianiti Commeno, vedova di Giorgio Castriota preferì, Napoli alla cristiana Roma e alla lagunare Venezia.

La nobile vedova dopo un periodo trascorso all’interno del Maschio Angioino, si trasferisce in un palazzo nobiliare nei pressi del Monastero di Santa Chiara, proprio a ridosso del decumano inferiore e prima di piazza del Gesù.

Tommaso Assan Paleologo nel 1518 costruì a Napoli una chiesetta padronale dedicata a SS. Apostoli e nel 1522 eresse un altare gentilizio nella basilica di San Giovanni Maggiore la chiesa prospiciente l’antica via degli Alessandrini.

Fu scenario di accoglienza la piazza del Nilo e la strada detta degli Alessandrini ora detta Mezzocannone, quando, cadute Corone e Modone, Carlo V accolse con tutti gli onori l’esodo delle popolazioni cristiane giunte a Napoli con le navi di Gian Andrea Doria.

Nel luglio del 1534 va citato l’episodio, in quanto, solo in quella giornata vi giunsero a Napoli più di 8000 esuli, di questi più della metà trovarono accoglienza nelle regioni del regno.

Questi cenni e molti altri caratterizzarono la storia di Napoli e del meridione italiano in senso di accoglienza il cui seme ha iniziato a germogliare dalla piazza del Nilo, il decumano inferiore e le vie limitrofe, espandendosi in ben sette regioni del meridione italiano.

Divenendo per questo teatri di vita a cielo aperto dove anche gli arbëreshë furono e sono tutt’oggi protagonisti in quanto portano alta la bandiere del modello d’integrazione più solido del mediterraneo. Oggi le gesta di Zoti Gjergj detto Scanderbeg in favore di Ortodossi, Bizantini, Alessandrini e Cristiani rappresentano una parentesi incancellabile degli accadimenti a partire, dal XV secolo.

Le gesta dell’eroe e la disponibilità partenopea del mutuo soccorso racchiudono il senso dell’integrazione e il rispetto dei popoli diversi, vero è che proprio per questa opportunità le genti di queste terre furono divise in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria, ma con compiti e menzioni da portare avanti.

Gli Albanesi si assunsero l’onere di preservare i confini e difenderli a discapito della propria tradizione identitaria, di li a poco rimaneggiata e identificata come Shqip.

Gli Arbëreshë assumono il ruolo di conservatori fedeli della radice identitaria originaria, quella che si compone di gruppi familiari allargati, accumunati dalle ereditata forma orale; nella consuetudine; nella metrica del confronto canoro fra generi; nella religione greca ortodossa, da cui attingere e riversare le proprie credenze in pacifico rispetto con le genti indigene.

L’integrazione di queste popolazioni nei territori ritrovati cosi come nella capitale Partenopea, avvenne a seguito di quattro distinte fasi storiche di sedimentazione:

  1. 1. la prima, di scontro o del nomadismo e identificato come dei “Materiali alterabili”;
  2. 2. la seconda, di avvicinamento o dei “Materiali inalterabili”;
  3. 3. la terza, di confronto con le comunità indigene “Festa di primavera”;
  4. 4. la quarta, della formazione politico culturale “Le menti Arbëreshë”;

Quando a Napoli nel 1734 si insediò Carlo II di Borbone, Il 26 febbraio del 1733 a San Benedetto Ullano (CS) aveva aperto i suoi battenti, il nuovo seminario di formazione per la minoranza Arbëreshë, con 17 alunni e 3 professori, ben presto la regione definita dalla Piazza del Nilo, il Decumano Inferiore oltre i cardini superiori e inferiori ad esso connessi, divennero i luoghi di riferimento per gli esuli, in senso di valori culturali, sociali, economici, della scienza esatta, della politica e della religione.

Un fiume di rinnovamento allineato alle politiche unitarie e di riscatto del meridione, senza distinzione di appartenenza sia sociale e sia religiosa.

È l’era degli uomini illustri e Napoli si confronta con il resto dell’Europa, ed è in questo capoluogo ad offrire alle menti più illustri il palcoscenico ideale per confrontarsi con Bugliari, Baffi, Torelli, Giura, Scura, Masci, Crispi, e tanti altri illustri che per le loro idee liberali contribuirono al rendere più efficaci aspetti in ambito culturale economico e scientifico, con lo stesso entusiasmo degli indigeni, che li consideravano fratelli.

La piazza del Gesù con le emozionanti prospettive delle chiese li allocate, sono il luogo più rappresentativo per riunirsi in religiosa “concelebrazione religiosa pontificale”, già spazio per la dimora dei Sanseverino nella capitale del regno e che per una serie di annoverate vicissitudini divenne l’emblema religioso che domina la Piazza.

Lo stesso nobile casato della Calabria i nobili che accolse la parte più consistente di migranti del XV secolo e oggi conservano identicamente gli elementi caratteristici in seno alla lingua le consuetudini la metrica e la religione, dopo che la diaspora ebbe inizio.

Cenni del rito greco -bizantino

Gli esuli Arbëreshë, in seguito dell’imperare dominazione ottomana, fuggirono dalle terre natie nel XIV sec.,per non essere soffocati anche della propria credenza religiosa; e si insediarono, secondo le arche disegnate in comune accordo tra il re Alfonso I d’Aragona e il condottiero Giorgio Kastriota, nell’allora Regno di Napoli.

Gli esuli legati alle peculiarità del rito Greco-Bizantina alla fine di questa secolare vicenda, videro elevarsi l’Eparchia di Lungro, in Calabria, promulgata da Papa Benedetto XV con la bolla “Catholici fideles ritus graeci…”, del 19 Febbraio del 1919.

Poi affiancata , nel 1937, dall’Eparchia di Piana degli Albanesi sotto la giurisdizione di un proprio eparca in Sicilia, con bolla Apostolica Sedes di papa Pio XI.

È opportuno focalizzare questa nascente finestra di confronto tra la chiesa di oriente e quella di occidente, citando brevemente le frizioni che nascono dopo l’insediamento degli esuli, con la realtà dottrinale, seguita dai Vescovi locali.

Inizialmente  gli  arbëreshë  furono  lasciati  ai  riti  dei  prelati  che  li  accompagnarono  nei  territori  di pertinenza delle varie Diocesi latine, immaginando queste ultime, che costoro pur avendo le proprie tradizioni liturgiche e religiose orientali, ben presto avrebbero seguito la via dei latini.

Lo scopo mirava al dato che sarebbe bastato fermare vietando il canale di ricambio di nuovi prelati provenienti dalle terre di origine “i nuovi ortodossi” per questo furono argomento e bersaglio, di accuse, violenze, soprusi, vessazioni di ogni genere, però, non sufficienti a piegarli alle tradizioni liturgiche e religiose latine, e oggi in ossequio, al tempo “ ortodosso”; secondo il rito cattolico greco-bizantino.

La soluzione di questa secolare vicenda raggiunge l’inizio della soluzionwe nel 1742 con l’intuizione di Samuele Rodotà di San Benedetto Ullano, che con l’istituzione del Collegio Corsini, consenti di formare nuovi prelati, in terra meridionale, nominati dal vescovo di Bisignano.

Prima nella sede Ullanese sulla sinistra del fiume Crati e poi in quella destra, lungo lo scorrere dello stesso fiume, nel convento di Sant’Adriano nei pressi di San Demetrio Corone, tutto ciò sino alla vigilia dell’istituzione della prima diocesi, dell’Eparchia di Lungro, la quale apre formalmente il colloquio tra le chiese di oriente ed occidente, tutt’oggi legato da un costruttivo e florido confronto.

Al fine di lasciare un impronta indelebile si vogliono porre in essere le seguenti manifestazioni:

  • In occasione si  auspicano di una concelebrazione religiosa pontificale di rito Greco Bizantino.
  • Raduno dei sindaci dei paesi della regione storica, con gonfalone e ragazza vestite in costume tipico
  • Convegno: storia Arbëreshë e le Arche del regno;
  • Mostra “ NAPOLI E L’ORO ARBËRESHË”;
  • Conferenze, tavole rotonde, per la popolazione scolastica della città metropolitana;
  • Conferenze, tavole rotonde, museo archeologico di Napoli;
  • Conferenze, tavole rotonde, nei plessi Universitari;

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Dita Jote

Dita Jote

Posted on 24 aprile 2017 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Atanasio detto il Grande (in greco: θανάσιος, in latino: Athanasius; Alessandria d’Egitto, 295 circa – 2 maggio 373) fu patriarca di Alessandria d’Egitto. Il suo nome è legato alla Scuola teologica di Alessandria, assieme a Clemente e Origene; le chiese ortodossa, copta, e cattolica lo venerano come santo, quest’ultima lo annovera tra i 33 dottori della Chiesa.

È ricordato inoltre nel calendario dei santi anglicano e luterano, la sua festa è celebrata concordemente da tutte le Chiese il 2 maggio.

Santa Sofia d’Epiro anche quest’anno è in fermento per realizzare la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità.

Il ricordo va a tutti quei personaggi che nell’approssimarsi del 2 di Maggio,a Santa Sofia si prodigavano per realizzare la festa più suggestiva e piena di novità, essi sono tanti ma basta il rievocare gli eventi e il ricordo va ad ognuno di loro.

Si sfornavano ceste di taralli per ben accogliere le visite di rito ed offrirli lungo la processione ai fedeli e ai devoti.

Si ordinavano rendendo più idonee le strade, si adornavano le finestre e i balconi con essenze floreali.

Ogni anno si caratterizzava l’evento con una novità pianificata dalla brillante Commissione e messa in atto dalla popolazione in modo univoco ed esemplare.

L’operosità e l’inventiva paesana realizzarono i rudimentali supporti elettrotecnici, che illuminarono tutto il paese la sera dell’evento religioso, attraverso il contributo di ogni famiglia, che dalle proprie case forniva i segmenti energetici atti a produrre la nuova veste illuminotecnica novità esemplare per quei tempi.

Un altro anno si dipinsero, a calce pigmentata a pastello, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza, producendo così una nuova prospettiva incantevole ed emozionante.

Altri anni si preferirono addobbare la chiesa madre, con arazzi e tendaggi di colore porpora in modo da renderla calda e sontuosa, poiché la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese.

I multicolori Palloni aerostatici che da semplici e rudimentali opere, realizzate con carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e rappezzi di sacchi, oggi sono divenuti esempi che vanno per la maggiore in tutta la provincia, grazie ai progressi della N.A.S.A.(Nucleo Aerospaziale Sant Atanasio).

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che Padre Capparelli, la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona di Sant’Atanasio.

Sentivo mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, la mattina del ventitré vestirsi di tutto punto col tipico costume arbëreshë, avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di un manipolo di devote tra le quali è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt, Anmarja Vukastòrtit, Serafina Kurthvet, Annetta Abelit, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli non vadano calpestati da chi non lo ha adeguatamente conosciuto e probabilmente ignora,  un gioiello  Sofiota irripetibile.

Sicuramente anche quest’anno si snoderanno le consuete processioni verso la Kona e poi all’Ottava per le vie del paese, assieme uniti e rispettosi del nostro grande ed amato Sant’Atanasio, capace di unire tutti i sofioti il giorno del 2 di Maggio nella ideale processione dove o con la presenza fisica, o col cuore o con i ricordi ognuno partecipa a questa corale e antica credenza sofiota.

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STANDARD…….. MA COSA?

Posted on 21 ottobre 2010 by admin

Leggendo questo passo di Norman Douglas, nel volume Vecchia Calabria del 1915 riflettevo su cosa sia cambiato da allora ad oggi, se in meglio o in peggio.

“ La prima impres­sione del visitatore è di un abbandono peggiore di quello che si vede in Oriente. Non c’è soltanto disor­dine alla periferia: è un caos deliberato e sinistro Continue Reading

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