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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambiti attraversati, bonificati e ricostruiti per essere vissuti degli Arbëreşë, ha avuto modo di replicarsi senza soluzione di continuità, il modello sociale di parlato, adottato storicamente, nella Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, ben sedici macro aree evolutesi esclusivamente grazie al parlato materno e il buon ascolto dei figli/e mai distratti/e.

In tutto il meridione italiano diffusamente distribuita e storicamente integrata questa consuetudine viva, che non ha mai subito pieghe di sorta dal XIV secolo sino agli anni sessanta del XIX secolo ad oggi e, nessuno, confermo nessuno, ha perso padronanza o misura di questo parlare così acquisito.

Il tutto avvenuto senza alcun supporto di immagini, testi o vocabolari grafitati o scritti, specie se riversi e inutili con parole in lingua Albanofona (?) illeggibili, incompressibili e, avendo una radice somma di sostantivi in italiano irrecuperabile, se non leggendo, senza distrarsi l’intero edito, con vocaboli inutili e senza radice di memoria.

Infatti nessuno della vecchia dinastia e della nuova, dagli anni cinquanta sino al 1975, ha mai avuto insegnamento per acquisire il parlato Arbëreşë, chiaramente quello definibile della crusca, che non ha mai usato libri calamaio o pennini, perché tutti gli allievi hanno vissuto sotto il vigile governo delle donne e i magici luoghi dei cinque sensi: il camino che riverberava e crepitava in lingua parlata, sin dove si estendeva la Gjitonia.

Chi scrive è una memoria attenta e sempre presente di questo titolo accademico senza eguali e che non ha bisogno di riquadri lignei o di genere, per il titolo accademico del parlato più solido e irraggiungibile da nessun istituto o istituzione allestita in epoca moderna dirsi voglia.

Il titolo della crusca Arbëreşë, inizia con la descrizione del corpo umano tutto, si estende alle cose della natura, che lo rendono vivo e gli consentono di fare agricoltura, grazie a consuetudini, la credenza e il costume rispettivamente: del comune vestire, in sposa, regina del fuoco e vedova di vita o incerta.

Questo titolo ha come sede naturale i quattro sheshi, tipici dell’urbanistica Arbëreşë, gli stessi organizzati secondo una rifinita Iunctura familiare di luogo specifico, senza vincoli o recinti fisici di sorta.

Tutti gli allievi sono fieri di partecipare e non perdere una lezione, dal primo giorno di vita e sino che si ha possibilità di confrontarsi nel corso della propria vita e, sin anche da vecchi quando non si è più in grado di auto sostenersi nelle case, oggi di cura, per chiedere aiuto e ricevere conforto in Arbëreşë.

Il titolo che è un riconoscimento ideale del luogo natio, lo senti lo avverti nel cuore e nella mente e ogni volta che l’orecchio avverte striduli linguistici e sobbalzi, disapprovi quelle stonature o compilazioni inutili che non ti risvegliano memoria, ma fanno danno profondo attorno al tuo avanzare fiero. con quel titolo fatto non di volatile farina fatua, ma crusca e odori di criscito locale del tuo forno di casa.

Chi ha un titolo della crusca arbëreşë, conosce i protocolli del saluto, sa quando restare e partecipare o allontanarsi dalla discussione, conosce i tempi e i modi per apparire senza mai prevaricare genieri e figure di rilievo.

Il titolato non palesa mai forme di rispetto a nessun essere umano, conoscere il tempo di farsi da parte, in tutte le cose che fanno la vita comune degli Arbëreşë con titolo valido di crusca e, quando uno di questi dovesse venire a mancare, il titolo scompare e si diventa comuni llitiri, diffusamente infarinati, per essere subito riconosciuti.

Questo era un titolo di studio che si acquisiva prima di iniziare il ciclo primario delle scuole dell’obbligo italiane, un tutolo di crusca, che assieme a tutti i tuoi coetanei davano forza al consuetudinario storico, certificando, toponomastica ricorrenze e parlato al proprio centro antico; forza storica di una memoria composta e compilata di consuetudini, ascolto e movenze ritmate, quando si doveva festeggiare la memoria dell’Estate degli Arbëreşë, quella ricordata nel 1775 da Baffi nel “Discorso” della storia degli abitanti delle antiche terre, oggi denominate Albania.

Di tutte le generazioni parlanti questa lingua, nati prima del 1975 e poi maggiorenni nel 1996, il parlare Arbëreşë è diventata parte fondamentate seguendo i tempi del vivere insieme e non certo leggendo libri o compilazioni del comune alfabetare, divenendo per questo, le memorie storiche dell’odierna promozione di questa lingua antica, conservandone sia il senso che il valore di ogni macroarea.

Nonostante ciò non sono mai interpellati nelle manifestazioni che contano e vedono promuovere il pianeta delle consuetudini e delle architetture del bisogno vernacolare, le stesse che ripetutamente e senza riguardo sono compromesse a tutto campo e sin anche le prospettive storiche, rivitalizzate con inopportune raffigurazioni.

E delle quali si cerca di valorizzarle, invitando e dare la scena a quanti non hanno alcuna percezione di cosa sia e cosa rappresenti la R.s.d.s.A. e il suo parlato non scritto.

La valenza del parlato è stata sempre circoscritta e diretta al corpo umano e, sin anche nelle esternazioni del saluto tra generi non ha mai valicato questo limite.

Vero resta il dato che nelle attività sociali il saluto non è mai rivolto al tempo del giorno, mattino, pomeriggio o della sera dirsi voglia, ma esclusivamente, al benessere e allo stato del corpo umano in continua crescita evolutiva.

Un altro dato fondamentale di questo aspetto sociale del parlato è la valutazione che di giorno in giorno, si facevano degli allievi della Gjitonia, in tutto delle nuove generazioni di generi in crescita, il primo eseguito dal governo delle donne, che con cadenza specifica riferiva fatti e necessità al governo degli uomini e al reggente del modello di Iunctura locale.

Era questi in base ai dati pervenuti in forma orale, a valutare le necessita e le caratteristiche di ogni figura e del suo ruolo all’interno del gruppo che si poneva tra il focolare di casa e, la Gjitonia iuncturale.

Questa era una olimpiade giornaliera dove nessuno era escluso, sin anche quella sostenuta e portata avanti in forma di para olimpiade, dove ogni figura avrebbe avuto per il tempo del futuro, ruolo utile e non discriminatori, per nessuno dei partecipanti.

Il titolo della crusca acquisito dal camino sino dove arriva la Gjitonia, per una figura che ha affinato il sapere relativamente ad aspetti storici e delle arti architettoniche, urbanistiche e del restauro conservativo.

Nel momento in cui sono stati avviati nuovi stati di fatto, con dipartimenti di ricerca, relativi agli ambiti naturali e costruiti di tutta la R.s.d.s.A. e del suo percorso evolutivo, ha dato agio per continuare e fornire nuove frontiere di studio, rivolte all’edificato storico e dei suoi materiali di epoche specifiche dei centri antichi Arbëreşë.

L’insieme lingua della Crusca e titolo accademico degli Olivetari Partenopei, ha consentito di raggiungere mete di studio, tali da fornire risposte significative, sia delle consuetudini, del parlato delle credenze, del genio locale e sin anche del valore aggiunto all’intero ambiente naturale dove questi Katundë hanno iniziato a dare vita e coerenza a ogni evento naturale accaduto.

Questo ha consentito attraverso modelli G.I.S. di addivenire a nuovi modelli di studio sino ad oggi ignoti a numerosi dipartimenti preposti al mono tema, che inquadrano la R.s.d.s.A., come un modello linguistico di radice incerta, in perenne evoluzione, senza tenere conto che la minoranza  Arbëreşë, trasferendo questo suo modello sociale, sei secoli orsono dalle terre della odierna Albania, rappresenta la costanza, che porta nel su intimo, il rispetto degli altri popoli e per questo capace di essere, esempio di integrazione mediterranea, in credenza cristiana. 

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IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG  (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

Posted on 30 agosto 2024 by admin

Ato

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si appresta a restaurare monumenti l’unica prospettiva indispensabile dove incuria degrado o distruzione abbiano piegato la resilienza di un manufatto o del circoscritto, bisogna avvalersi delle raccomandazioni elencate nella “Carta di Atene dal 1931” dove si consiglia il rispetto dell’opera “storica ed artistica del passato”, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.

A tal fine dobbiamo sempre dire quello che guardiamo, ma cosa più essenziale, dire cosa vediamo; come i fatti, le cose con protagonisti i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.

Nello specifico la tutela, diversamente come suggerito dalla carta di Atene, in tutte le ventuno macro aree della R.s.d.s.A., è iniziata male, proseguita peggio, terminata con l’operato degli “esposti”, tutto questo, ad oggi porta a ritenere sia improrogabile allestire una istituzione, che redarguisca, tutti i pretendenti dell’ormai, storico pellegrinare in cerca della discendenza più nobile o illustre.

Cadere in errore al giorno d’oggi e molto semplice, ma se a farlo sono quanti preposti al rispetto dei luoghi, sin anche nei confronti del più distratto o disinformato ascoltatore, si fa violenza non verso chi ascolta, ma si danneggia la prospettiva di questi luoghi, vissuti dai popoli più silenziosi, e più operosi del vecchio continente.

In tutto le persone che hanno versato lacrime di sangue, per far germogliare l’albero della propria identità, senza nulla scrivere o dipingere in alcuna superfice elevata per viverci segnando epoche.

Il fatto che la minoranza non abbia mai fatto uso alcun tipo di scrittura lettura, o grafici di memoria, non è un caso, infatti l’innocente discendenza, ascoltava e apprendeva il parlato dal solidissimo governo delle donne, lo stesso che ad oggi nessun ricercatore ha studiato compiutamente e, questo denota quanta poca esperienza o sperimentazione, sia stata diffusa per fare luce relativamente ai trascorsi di questi vissuti ambiti.

Un protocollo mai allestito da alcun istituto o istituzioni, i quali hanno operato con metodologie a dir poco inopportune e, vorrebbero aggiungere cose senza titolo, attingendo dagli esagerati modernismi Albanesi, terminando nella trincea linguistica, quando l’errore è palese, sin anche con lo scudo circolare, con incisa la frase: da noi si dice così; (nà thòmj këshëtù)

Nasce così l’idiosincrasia; ovvero, l’avversione, e la ripugnanza verso determinati temi, termini e oggetti, per lo più inesistenti, incoerenti, anzi a dir poco diagonali alle cose della R.s.d.s.A., sotto ogni pinto di vista.

Certo che definire la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë con l’inadatto, sostantivo “Arberia”, assume una visione geografica, a dir poco inopportuna, perché notoriamente gli addetti, per darsi una valenza di titolo mai avuto con merito, ma per copiature riportate secondo cui la minoranza provenire del sud della antica terra di origine.

Definendo così la provenienza della minoranza dal sud della antica terra di origine, in quanto qui secondo alcuni risiedeva la nobiltà culturale fatta di echi sopraggiunti dalla Grecia, ciò nonostante i protocolli della geografia storica, riconoscano, tale sostantivo, ovvero Arberia, le terre circoscritte del centro e del nord della antica terra di origine, oggi Albania.

Ciò nonostante, viene sottovalutato un dato fondamentale, ovvero, se una regione subisce le angherie di un instabile invasore, come è possibile che ad essere penalizzate o sottoposti a misure di sottomissione morale e religiosa, siano solo le popolazioni del sud e non uniformemente minacciate dell’intera nazione, che senso avrebbe e quale teoria privilegia alcune religioni, dato che di questo si trattava, infatti chi invade non rispettava niente e nessuno dove si trova o dove si colloca e con cosa?

Se il tema poi si espande alla definizione e il comune parlare dei centri abitati rielaborati ed elevati secondo le necessità tipiche degli arbëreşë, si apre infatti, una violenta tormenta di farina senza precedenti.

Diversamente dai valori sociali e formali contenuti negli innalzati e i sistemi abitativi, germanofoni o medioevali, dirsi vogli, ritenuti simili, uguali o equipollenti al modello di città aperta degli Arbëreşë.

Dato per certo che i Katundë, sono il modello innovativo che non ha eguali, e pur se i suoi innalzati nascono sei secoli orsono, possono essere considerati il germoglio delle odierne città metropolitane, infatti essi sono una rappresentazione di sistemi aperti di Iunctura urbana, dove, i quattro rioni tipici, rispettivamente: Karelletë, Chishia, Bregù e Sheshi; sono le tappe del percorso storico evolutivo di una radice, che si sviluppa e sostiene nel lungo tempo, in tutto, il solido fusto moderno da cui sono nati rami e fioriture consone.

Chiunque si appresta a recarsi per illustrare o presentare gli ambiti di un Katundë, appellando “Borgo Arbëreşë”, si trasforma in un viandante comune, senza meta specifica; come fanno quanti entrano in una chiesa e, invece di fare la croce, vi accedono rinnegando credenza, storia e luce.

Soto il puro aspetto Storico, Urbanistico e Architettonico, un Katundë e un Borgo sono antitetici e perfettamente contrari, perpendicolari diagonali, comunque mai paralleli:

  • Un Katundë, tradotto letteralmente, vuol dire luogo di confronto, lugo di movimento operoso: Ka e Tundë; esso rappresenta l’uguaglianza sociale senza vincoli di un determinato gruppo indigeno a cui gli Arbëreşë si affiancano, per la crescita del luogo e del suo agro. In tutto, forma urbana o patto di iunctura familiare solidale, priva di prevaricazioni, di genere o di gruppi organizzati e tutti uniti esprimono vicinanza solidale di un ben identificato luogo aperto e accogliente le cose dell’agro.
  • Il Borgo, diversamente, rappresenta l’espressione sociale, piramidale, la città chiusa avvolta su se sessa, non contempla uguaglianza di genere, perché piramidale società ellittica, con apposte mura, fossati acquitrinosi e, porte chiuse.

Di queste quatto colonne che fanno la trama storica evolutiva di un centro antico Arbëreşë, ovvero di un Katundë, si potrebbe allargare il tema e farla diventare una vera e propria diplomatica, per l’uso improprio che si fa nel divulgare i il sistema sociale distribuito nei rioni: “Sheshë in Arbëreşë”.

Il sostantivo comunemente è presentato come una piazzetta circolare allivellata, dove si aprono le poste di un numero imprecisato di ingressi privati delle storiche Kallive o Katoj.

Questa una visione a dir poco inopportuna, la cui radice nasce dai sessantottini, che leggevano i giornaletti di Capitan Miki o il Grande Blek, dove in genere le illustrazioni di questi suggeritori delle cose Americane, disegnavano le capanne degli indiani o gli scenari di immaginario, nello spazio circoscritto dalle capanne con pelli di bufalo.

Tornando alle cose, i fatti, i bisogni e le esigenze del vecchio continente, di cui noi Arbëreşë siamo parte essenziale dal nel XV secolo e, in questa breve diplomatica si cerca di essere professionisti maturi, non adolescenti in cerca di avventure di leggenda, specie sulla scorta di risorse pubbliche che non hanno riverbero e, non superarono il circoscritto della storica edicola di Nonino.

Per riparare a questa deformata storica, del protocollo Arbëreşë qui si vuole rendere chiaro, completo, indivisibile e indeformabile, il significato del sostantivo “Sheshë”.

Specie dopo quando esposto da quanti qui si sono recati a stendere themi di laurea, senza un relatore che avesse idea, della storica parlata della R.s.d.s.A. e, mi riferisco a quanto appreso ascoltando come si faceva un tempo, acquisendo fatti e cose dall’orecchio, e non leggendo confuse alfabetari o riversi vocabolari, con lo strumento occhio, l’antico metodo per divulgare sapere.

Per questo sia ben chiaro a tutti voi, viandanti distratti, compresi quanto non trovarono agio e notorietà, nelle frazioni di origine e, qui si sono insediati per fare danno, immaginando di avere gloria impossibile, a imitazione di quanti certi che il popolo fosse ignorante e sempre pronto a credere alle cose, diffuse con metodo dai regnati.

Lo “Sheshë” senza affanni non è; uno spiazzo dove affacciano un numero imprecisato delle porte di casa; in quanto la parola, di radice antica, vuole indicare un sistema di “Iunctura familiare solido e indivisibili” ogni volta che viene organizzato e sostenuto; esso si compone: di case che si sviluppano a ridosso di Rruhat articolate, su cui affacciano gli accessi di porte gemellate a finestrelle, (dal forte valore strategico) archi di misura e metrica, di luogo, Scalinate, vicoli ciechi e orti botanici, in tutto un componimento di sostenibilità e difesa senza mura perimetrali, se non quelle dei Katoj familiari sempre aperti.

Se il modello esposto vi dovesse creare pena linguistica, di titolo e merito, recatevi nei centri antichi di un Katundë della R.s.d.s.A., non da individui supponenti e imparati, ma attenti ascoltatori dello stridulo dei cinque sensi, che ognuno di noi possiede, ma mi raccomando non andate togati perché i cinque sensi non si attivano!

Adesso passiamo a un altro argomento ovvero, “I Musei”: essi iniziato ad essere articolati, con compilazioni di libero dire locale, senza avere una stratificazione che li leghi alla storia del luogo o della macro area relativa, specie nel percorso che univa casa e chiesa, per il proseguimento della specie Arbëreşë.

Il Costume in questi ambiti, diventa indispensabile protocollo, l’unico in grado di tracciare il percorso evolutivo della minoranza, anche se comunemente è stato sottoposto a studio per opera e misura di campanili, tutti articolati in funzione di manifestazioni utili a rendere primi, i dispensatori di turno, oggi di Calabria Citra, domani di quello Ultra e così via, via per decenni, senza mai smettere di vagare e rinforzare gli inutili principi, terminati nell’essere stai ospiti di biblioteche ora di Barcellona, domani di Parigi, dopodomani di Madrid, Valenzia e Monaco, Venezia, Firenze e così via sempre, ramenghi e fuori dal circoscritto del Collegio Corsini dove è nato.

È dalla fine degli anni settanta, del secolo scorso che in maniera a dir poco gratuita, raccogliere vesti, attrezzi e ogni sorta di elemento che vorrebbe fare memoria, in circoscritti di elevato impropri e, senza radice linguistica sono appellati “Musé”.

Una idiomatica deriva che calpesta il parlato Arbëreşë, lo stesso che vorrebbe fosse appellato con radice del parlato in: “Loku menditë”o “Ku mhbami mendë”.

Un sistema difforme, disarticolato o confusione che non fa certo museo antropologico, delle arti e del costume, quest’ultimo, nello specifico è, presentato in maniera a dir poco inopportuna, se non ridicola, esponendo in pubblica piazza la parte più intima della vestizione, assieme a quella più infima e vile indossato da qualche decennio come blasone nobile nel momento del “si” specie sull’altare, davanti al testimone celeste.

Il tutto con l’apposizione pubblica del primo concetto: Bhërlocunë, e il secondo atto Vàndèrenë, il tutto poi  contornato dal voler rendere la cosa, ancora più penosa, con la zògha a modo di ruota o di coda, nella pubblica via e, addirittura in chiesa sull’altare.

Il museo per gli addetti titolati della R.s.d.s.A. è considerato mera raccolta di elementi disarticolati, un’incompiuta di tempo fatti e cose, che diventano mercato domenicale o rionale li disposto, per attendere Kopizènë, e pronte ad essere frantumate e rese patrimonio senza sudore, per i raccoglitori di polvere locale.

Altro argomento di seminato fatuo sono le Inopportune, “Vallje di Scanderbeg”, infatti il soprannome, rievocando e sottolineando la sua appartenenza all’epoca mussulmana, non certo il tempo in cui fu eroe Arbëreşë, anche se comunemente in tutti i centri storici senza misura, si rievocano dal giorno del Termine di memoria e, in estate Arbëreşë queste esternazioni, sono e rappresentano la memoria del passaggio generazionale del parlato.

Intanto con la dicitura di “Vallje di Scanderbeg”, vorrebbero rievocare una giornata di memoria per una epica battaglia, che vide Giorgio Castriota sterminare gli avversari e, per le tante vittime stese inermi, conferma della vittoria, lui che all’epoca era un cristiano praticante, iniziava, con i suoi sottoposti a ballare e cantare, sopra le resta degli avversari inermi, che giacevano in quelle distesa, di corpi senza vita.

Certo che la formazione storica e culturale denota carenze non di poco conto, anche perché, solo quanti non adeguatamente formati ed attenti, promuovono queta figura con le effigi dei Turchi Selgiuchidi, e dei capostipiti Beg.

Di questo ci lasciava notizie anche Giovanni da Fiore, il quale, quando ebbe modo fare memoria, scriveva; Giorgio Castriota, comunemente appellato “Scanderbeg”.

E’ un altro segnale di memoria ereditiamo la toponomastica di Santa Sofia Terra, dove la strada che unisce l’antica chiesa Bizantina del IX secolo, con quella nata Latina del XVII secolo pota a memoria, “Via Castriota”.

Per concludere le “Vallje”, non sono altro che una prova generale dell’avvenuto lascito del parlato e, vuole essere confermato con Canti di genere e Movenze del corpo, per ricordare e sancire il passaggio tra generazioni; è questi non sono altro che i concetti basilari della storia delle comunicazioni.

Relativamente alle attività di memoria delle consuetudini la credenza, la lingua e il costume, si è sempre preso di mira attrezzi, costumi e null’altro al fine di musealizzarle, contornati dalle cose più inopportune e senza logica museale tra di esse.

L’inadeguatezza degli addetti poi ha fatto il resto, dal punto di vista del concetto Museo, verso il costume e gli attrezzi utili a delineare la risalita dell’economia, secondo i dettami dell’antropologia, ed è per questo che sono stati prodotti errori e manomissioni molto pericolose alla memoria dello storico protocollo, in essi racchiuso e, si come ricoperti di polvere e fluidi scuri, non sono oggi più leggibili nei loro contenuti di tempo.

Vedere ascoltare le attività antropologiche riassunte tutte, con le cose più comode e semplici e, interpretate, in maniera povera/semplice sono il percorso condiviso con i tempi e le pieghe della storia che non è mai stata tale, proscrivere il contenuto è nostro obbligo, perché è bastato essere muniti di una “Singer serie Sfinge del 1926”, quest’ultima la data baricentrica delle vesti femminili Arbëreşë che non vanno oltre il tempo della Sposa, la Regina del fuoco, la Vedova e  la Vedova incerta.

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EVOLUZIONE STORICA DEGLI ARBËREŞË: DA GJITONIA, A IUNCTURA URBANA OGGI CONFUSA (Gjitonia: vatrà e cèlljur prètë billjëtë Arbëreşë)

EVOLUZIONE STORICA DEGLI ARBËREŞË: DA GJITONIA, A IUNCTURA URBANA OGGI CONFUSA (Gjitonia: vatrà e cèlljur prètë billjëtë Arbëreşë)

Posted on 23 agosto 2024 by admin

Untitled-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando una diplomatica ha come specifica trattazione la minoranza Arbëreşë, sostenutasi per caparbia linea, in ogni stagione, senza l’ausilio di scritti, immagini, perché vissuta secondo consuetudini storiche, diventano indispensabile esporre i prodotti, in specifici presidi della memoria.

Specie se l’solamente della minoranza ha prodotto tipologie ambientali, e vissuto di memoria privo di qual si voglia forma letteraria e delle immagini collettive, riuscendo a tenere il passo con i tempi, senza stravolgere o differenziare la formazione delle generazioni in continuo progredire.

Da alcuni secoli a oggi, le nuove leve della cultura, se escludiamo il primo analista Pasquale Baffi, Il quale per essendo a pieni titoli, numeri e conoscenza prima, delle lingue scritte più antiche del vecchio continente, preferì indietreggiare davanti al dilemma dello scritto Arbëreşë e, scelta che avrebbe sicuramente danneggiato agio a confusioni diffuse alla sua dinastia di appartenenza tutta.

Nonostante ciò preferì rispettare la forza di conservare nelle consuetudini del passato non certo figlia delle arti figurative e, quelle dello scritto, tuttavia quanti non li seguirono in questa scelta inopportuna, fecero danno con lo scrivere, infatti o prodotto letterale in lingua Arbëreşë, che dopo di lui con molta energia terminò nel divide invece che unire gli Arbëreşë.

Se nel corso dei secoli in tutta la regione storica, hanno seguito le regole prima della Gjitonia o recinto ideale della famiglia allargata, poi le dinamiche di Iunctura urbana, oggi con la modernità in atto, perché ostinarsi a cose antiche e senza senso come la scrittura,

In tutto delle forme di vocabolari, all’incontrario dato che, la minoranza non sa né leggere, né scrivere il suo parlato e, ancor peggio storicamente utilizzando alfabetari in continua crescita con 20, 30, 40 lettere e sempre più crescenti come ironizzava nel 1919, Norman Douglas, in visita per gli anfratti della Calabria Citeriore Arbëreşë.

Vero, inconfutabile e senza ombre rimane un dato: il modello scrittografico non ha mai unito gli Arbëreşë, anzi è forse una dei germogli delle divisioni in atto.

È proprio per evitare il progredire di tale deriva, che qui si propone la Gjitonia, non come luogo sociale dei cinque sensi ripetuto identicamente in ogni ambito o quartiere degli oltre cento paesi Arbëreşë.

Ma rendendola tecnologicamente o radio televisivamente visibile e fattiva, ne basterebbe una, per ogni macro area, nello specifico i programmi della RAI Regionale o TV Private di macro area.

Il tema nasce perché generazioni di Arbëreşë, sin anche dagli anni sessanta del secolo scorso, non acquisivano la parlata, le movenze gli atteggiamenti sociali, la memoria degli appuntamenti di credenza e quelli delle stagioni e di confronto, leggendo libri partecipando a commedie e, certamente prima di andare all’asilo o intraprendere la formazione scolastica d’obbligo, o seguendo la radio o la televisione.

L’unico spettacolo o teatro che essi frequentavano per formarsi e produrre memoria era lo spazio indefinito del Governo delle donne, una vera e propria scuola, oggi paragonabile a uno spettacolo o meglio una perenne trasmissione dove a recepire per le nuove generazione erano, l’occhio e l’orecchio, gli stessi che oggi vediamo assieme alle ripetute soste pubblicitarie, che nella Gjitonia, erano le pause di promozione i telegiornali di critica, questi ultimi sempre evasi  da bambine, bambini e adolescenti.

Ad oggi per unire formare e rendere le nuove generazioni pronte ad affrontare le nuove vicende sociali si progettano e si propongono corsi e adempimenti di formazione senza una base di ricerca, prima di approntare i progetti di qual si voglia, natura devono o vorrebbero finalizzare, per la sostenibilità.

Nonostante ad oggi non esiste comune, macroarea della RsdsA, che abbia delle eccellenze pronte ad accogliere raccontare o esporre chi siano da dove veniamo, come ci siano integrati e perché i nostri ambiti urbani pur se equipollenti a quelli indigeni radicalmente sono diversi.

Non esiste una Iunctura storica e sociale del raccontato unico e indivisibile come dovrebbe essere, ma una pericolosa deriva diffusa fatta di personalismi di pena locale, anche comunemente esposta e, priva di reverenza verso chi ascolta, che anche se all’apparenza appare distratto, forse è più formato del parlatore di turno.

In ogni Katundë si ritiene che la storia, sia un fatto ristretto e non riferibile a epoche e cadenze in linea con i fatti di uomini e cose, ragion per cui ogni esponente locale si sente investito del libero interpretare e, raccontare, divulgare o sentenziare, senza alcuna cognizione di storia plausibile.

A tal proposito valgano gli esempi a cui continuamente si da accenno, in quanto, la vergogna culturale è anteprima senza precedenti, al comune divulgare cose, elevare figure, promuovere costumi o raccontare appuntamenti sociali, solo per sentito dire o comune conversare da indigeni.

Infatti solo chi conosce, parla e ne capisce questa lingua, colma di consuetudini e genio antico, perché allevato con orecchio e occhio dall’infanzia, può cogliere in ogni sua inflessione di sensi e prospettive dell’Arbëreşë parlato, fatti cose, credenze, consuetudini luoghi della storia locare parallela e colma di echi dell’antico Est.

Come con l’avvento della televisione l’alfabetizzazione si faceva con la nota trasmissione “Non è Mai Troppo Tardi, anche gli arbereshe oggi dovrebbero con le istituzioni tutte accordate a produrre programmi televisivi.

Con i quali, oltre al parlato storico Arbëreşë, si potrebbero alfabetizzare le nuove generazioni, nell’indicare come leggere e attivare secondo un protocollo mai adottato, ovvero il parallelismo di occhio e orecchio.

Un suggerimento emanato dalle alte sfere della comunicazione nel 1995, prima del tragico consiglio germogliato nel 1999, oggi il tronco perverso di fiori in emergenza fatua.

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STORIA DI LAMIA, CARONTE, PILATO E KAINO, L’ONDA NERA DI UN KATUNDË ARBËREŞË (Pathë lljchë Tata Mieshëtrj, mëma gruja me garbë e ine Moterë nuse e mirë)

Protetto: STORIA DI LAMIA, CARONTE, PILATO E KAINO, L’ONDA NERA DI UN KATUNDË ARBËREŞË (Pathë lljchë Tata Mieshëtrj, mëma gruja me garbë e ine Moterë nuse e mirë)

Posted on 20 agosto 2024 by admin

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“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

“CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË” Kushët të shpërìshuratë i thë mbajturatë arbëreşë

Posted on 18 agosto 2024 by admin

boccolo(NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

sono gradite correzioni integrazioni e nuovi articoli per una migliore attuazione, nel caso ciò avvenisse: inviate ogni cosa all’indirizzo di posta elettronicaatanasio@atanasiopizzi.it

 

Premessa

La Comunità Arbëreşë preso atto dello stato in cui versa il patrimonio materiale e immateriale a essi riferito, ritiene sia doveroso attivarsi con quanto consigliato nel documento, qui di seguito riportato, con  titolo: Carta per la Tutela della Regione Storica Diffusa Arbëreşë, i concetti che saranno riferiti sono già largamente utilizzati e provati nelle Carte storiche del restauro; il fine che il documento vuole persegue è la sostenibilità “dell’intero patrimonio della minoranza Italo-Albanese”, per questo, la prerogativa del documento diventano gli aspetti caratteristici legati al territorio costruito, le aree rurali e il paesaggio inteso nel senso più completo, in quanto ciò rappresenta il contenitore fisico della storia, della cultura e della tradizione consuetudinaria tramandata oralmente in arbëreshë. Ciò per una lettura precisa rende indispensabile, che i centri facente parte della RsdS s’impegnano affinché la tutela non vada mai più intesa come “mera estrapolazione di frammenti storico linguistici”, in quanto, gli episodi di sintesi non hanno, né caratteristica, né forza per sostenere in senso globale le eccellenze storiche, del patrimonio minoritario.

 

CARTA PER LA TUTELA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËRŞË

Ambiti di Attuazione

 

Art. 1 – I comini che costituiscono la regione storica arbëreşë, convinti che la conservazione del patrimonio materiale e immateriale, interessi i tutori e i conservatori della arbëreşë, si augura che si possa giungere a una collaborazione sempre più estesa, condivisa e concreta, indispensabile per favorire e conservare idioma, consuetudine, arti, storia e cose della minoranza; si ritiene, in oltre, altamente desiderabile che le istituzioni e i gruppi qualificati, senza minimamente intaccare il diritto pubblico, possano manifestare il loro interesse per la salvaguardia del patrimonio attraverso cui la civiltà ha trovato la sua più alta espressione, oggi purtroppo largamente esposta e per questo compromessa dalle dinamiche di attuazione globale; gli intenti della RsdsA vogliono allargare i temi di studio ai singoli e alle organizzazioni della cooperazione intellettuale condivisa il cui fine mira a rendere sostenibile la cultura benevola sostenibile dalle singole macro aree.

Art. 2 – le norme di tutela si applicano negli ambiti caratterizzati e vissuti dalla minoranza, in cui sono ancora presenti episodi delle loro permanenza, per questo è importante individuare le arre geografiche ad esse riferibili, dove lingua, consuetudine, religione, rito e genio locale, sono divenute l’espressione del peso storico della minoranza dal XV secolo; va sottolineato che la carta ha il solo fine di tutelare, sostenere e valorizzare gli ambiti delle popolazioni di origine albanofona, che in leale convivenza con quelle indigene, vive nel pieno rispetto della giusta integrazione, secondo i diritti e i doveri sanciti della Costituzione Italiana.

Art. 3 – Le macro aree riferibili alla minoranza arbëreshë ricadono nelle regioni e le relative provincie qui elencate: Abruzzo, Provincia di Pescara; Molise, Provincia di Campobasso; Puglia, Provincia di Foggia, Taranto e Lecce; Campania, Provincia di Avellino e Benevento; Basilicata, Provincia di Potenza; Calabria, Province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria; Sicilia Provincia di Palermo, Trapani e Enna.

Art. 4Costatato che le condizioni della vita moderna vede soccombere le eccellenze storiche della regione storica, si trovano sempre più compromessa da episodi manifesti; si ritiene quindi opportuno formulare regole che si adattino alla complessità dei casi, e per questo si raccomanda quando segue:

1) la collaborazione dei conservatori, degli architetti, dei rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche, naturali, storiche e dell’idioma, i quali, quando raggiungono risultati che garantiscono idonea applicazione siano studi riferiti o divulgati.

2) a tal proposito si dovrà provvedere alla messa in atto di un canale multimediale condiviso dalla RsdsA, attraverso cui gli Uffici o sedi amministrative, delle metodiche portate a buon fine, diventino anche la vetrina prima, durante e dopo l’esecuzione delle metodiche di salvaguardia.

3) per questo sarà anche costituito un archivio centrale in cui convogliare per consultazioni o riferimenti di ogni natura riferibile alla minoranza in modo da evitare interpretazioni e manomissione ad ogni bene del patrimonio storico materiale ed immateriale 

Art. 5 È importante rilevare che negli interventi di edifici o quinte di ambiti storici, il carattere e la fisionomia tipica che caratterizza la fisionomia del rione, deve essere oggetto di cure particolari, nel pieno rispetto della tutela prospettica e cromatica. Oggetto di studio possono anche essere le piantagioni e le ornamentazioni vegetali per conservare l’antico carattere. Essa raccomanda soprattutto la soppressione di ogni pubblicità, di ogni sovrapposizione abusiva sottoservizi, di ogni industria rumorosa e invadente, in prossimità di episodi dell’arte e della storia.

1) per quanto detto va posta particolare cura agli elementi materici che compongono l’opera come la disposizione che essi anno per restituire la composizione stilistica e materica che non deve essere alterata con forme e materiali che ne deturpino il senso e l’equilibrio formale;

2)l’equilibrio materico è formale va mantenuto anche nelle forme di infissi tetti grondaie, cornicioni e ogni tipo di elemento che possa deturpare l’equilibrio storico degli ambiti in particolar modo quelli che ricadono all’interno del centro storico o identificate come zone(A). 

Art. 6 – Gli ambiti a cui fa riferimento la carta, sono il territorio e il costruito storico, tutelando, quali elementi caratteristici, sono le Kaljve, Katoj, rruhat, vicoli ciechi, gli orti botanici relativi, le abitazioni a due livelli, i profferli di frazionamento familiare, i moderni palazzi post napoleonici, le chiese, oltre ogni tipo di presidio religioso. Gli stessi che dal punto di vista urbanistico rientrano nella tutela, degli anfratti e tutte le opere realizzate dagli Albanofoni nella mitigazione del paesaggio da naturale a costruito. Al fine e per completare la tutela degli ambiti citati, va posta particolare attenzione alla toponomastica di ogni ambito, in quanto rappresentano l’evoluzione di avvenimenti caratteristici di mutua convivenza tra territorio e uomo, ed è per questo che le prospettive non devono perdere nella maniera più rigida, fome, pigmentazioni e l’articolarsi di queste secondo tempi e temi locali in linea con la storia; la norma si applica anche a tutti i beni immateriali e della manualità in senso generale, in quanto celano significativi elementi del contributo al sostentamento della cultura e delle arti in generale oltre all’agro, silvicola e pastorale arbëreşë.

Art. 7 – Oltre al costruito, le disposizioni di tutela trovano applicazione anche negli elementi immateriali quali canti pagani e religiosi o nella rievocazione storica degli appuntamenti di inizio estate, in quanto, atto d’integrazione tra indigeni e arbëreshë; sono anche oggetto di tutelare tutti gli avvenimenti e i riti che sono poi l’orologio biologico, lo stesso che scandisce le stagioni nell’anno solare, sia per quanto riguarda gli aspetti civili che religiosi, per questo vanno trascritti in precisi protocolli rituale che si avvalgono di tutte le scienze e le tecniche utili a dare significato univoco all’evento, previo lo studio di verificare storico certificante, la giusta attuazione.

Art. 8 – La conservazione del patrimonio arbëreshë quindi si applica per ogni macro area, habitat, manufatto, anfratto o episodio che sia rappresentazione fisica o materiale della cultura generale degli arbëreşë, costumi, consuetudine e religione strettamente legata al territorio e al suo costruito, trama di Iunctura diffusa della RsdsA, in quanto, contenuto e contenitore parallele alle aree geografiche d’Albania.

 

Finalità

Art. 9 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale serve a tramandare senza compromettere o modificare il patrimonio che non appartiene a noi, ma alle generazioni future e anche per queste ultime si applica lo stesso principio.

Art. 10 – La conservazione del patrimonio materiale e immateriale è limitato al solo usufrutto che non va inteso come sintesi del significato, ma coerentemente, siano utilizzati per dare continuità inequivocabile alle caratteristiche consuetudinarie, della lingua e di tutti gli atti materiali depositati nella parlata arbëreşë, impegnandosi per questo a non alterare o piegare secondo alloctoni procedimenti di sintesi, nulla di quanto ereditato.

Art. 11 – La conservazione e la tutela e il non applicare sin anche coloriture anomale, diventa quindi prioritario per ogni Albanofono che s’impegna alla sostenibilità della condizione ambientale secondo tradizione ereditata; saranno inoltre messe al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzo che possa alterare i rapporti di volumi, dei materiali e dei colori esistenti.

Art. 12 – I beni materiali e immateriali non possono essere separati dai luoghi storici nei quali sono stati testimoni, né dall’ambiente in cui si trovano. Lo spostamento di una parte o di tutto non può quindi essere accettato se non quando la sua difesa lo esiga o quando ciò sia significato da cause di eccezionale interesse di tutta la Regione storica diffusa e sostenuta dagli arbëreşë.

Art. 13 – Gli elementi della manifattura in senso generale o in particolare, manifatture, sculture, pitture o decorazione che sono parte integrante della regione storica o degli ambiti urbani, non possono essere separati da essi se non quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Art. 14 – La salvaguardi degli ambiti e le eccellenze tipiche degli Albanofoni vanno normati e sottoposti a processi, che devono rispettare protocolli preordinati; lo scopo è di conservare e di rivelare i valori formali e storici di ogni manufatto o evento consuetudinario, che trova coerenza nel rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche.

Art. 15 – La tutela di ogni cosa deve fermarsi, dove ha inizio l’ipotesi: sul piano della ricostruzione congetturale qualsiasi atto per il completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche, tecniche e consuetudinarie, deve distinguersi dalla progettazione architettonica o storica raccontata, le stesse che dovranno recare necessariamente il segno della nostra epoca. Il processo di valorizzazione e tutela sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio storico, archeologico e linguistico arbëreşë, riferito a un monumento, un manufatto, una consuetudine, un rito, un canto riferibile alla macroarea.

Art. 16 – Quando le tecniche tradizionali si rivelano inadeguate, il conservare che deve proteggere un monumento, manufatto o la stessa consuetudine può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi atti a produrre la corretta conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata con dati scientifici e sia garantita dall’esperienza e approvata dalle memorie storiche, la cui attendibilità sia garantita dall’essere un portatore sano e non riesumato.

Sostenibilità

Art. 17 – Nella conservazione e valorizzazione dei beni materiali e immateriali arbëreşë sono da rispettare tutti i contributi scientifici e storici che ne certifichino l’assetto, rilevando l’epoca di appartenenza, perché l’unità stilistica o di abbellimento non è lo scopo il principio della difesa; quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura di epoca anteriore non si giustifica che eccezionalmente, a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, ritenuto soddisfacente il suo stato di conservazione; il giudizio sul valore degli elementi in questione e la decisione circa le eliminazioni da eseguirsi non possono dipendere dal solo autore del progetto ma da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo e Il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) .

Art. 18 – Nelle opere di restauro o ripristino dell’integrità del manufatto di qualsiasi fattura, si dovrà fare uso di elementi destinati a sostituire le parti mancanti che devono integrarsi armoniosamente nell’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché la metodica di tutela non falsifichi il manufatto o il suo valore della consuetudine storica di memoria, al fine di rispettate, sia l’istanza estetica che quella storica.

Art. 19 – Le aggiunte non possono essere tollerate se sono all’interno delle regole consuetudinarie arbëreşë e, tutte le parti devono rispettare la coerenza storica ed estetica, l’espressione dal punto di vista della tradizione, dell’equilibrio e il rapporto con la storia di macro area.

 

Art. 20 – Gli elementi devono essere oggetti speciali e caratteristici del luogo, al fine di salvaguardare la loro integrità e assicurare coerenza con la macro area per l’idonea prosecuzione del messaggio; i lavori di conservazione e di ripristino del senso proprio del manufatto sono eseguiti e devono ispirarsi ai principi enunciati negli articoli precedenti.

Art. 21 – Le scuole di ogni ordine e grado saranno coinvolte con attività settimanali di ricerca e sopraluoghi al fine di prendere atto di quanto sia di loro appartenenza e che un giorno dovranno provvedere a tutelare.

Art. 22 – la toponomastica e gli appellativi di luoghi, rioni, vichi e prossimità abitative devono essere tutelati e ricollocati con diciture bilingue certificate e corrette, evitando di sostituirle con eventi o personaggi che in vita mai avrebbero sottoscritto tali scelte.

Art. 23 – l’ambiente non costruito rappresenta anche esso una traccia e quando contempla il tracciato storico delle attività agro salvo pastorali, cosi anche le fontane e gli abbeveratoi che furono stazioni strategiche della transumanza o i percorsi verso i presidi della trasformazione agricola, vanno valorizzati con la messa in opera di percorsi pedonali o ciclabili dell’arti agrarie.

Art. 24 – Lo stesso principio vale per l’estrazione di minerali o i forni della produzione di calce e mattoni o di ogni genere di prodotto lapideo, come cave o le dette “parere”.

La Storia

Art. 25 – La storia della minoranza albanofona va riferita secondo le cadenze cronologiche, a partire, dal XIV secolo a oggi, senza prevaricazioni e valorizzare, esaltare uomini e avvenimenti nei confronti e rispettosi di epoca, luogo o avvenimento. La regione storica va storicamente tracciata con regole precise, in cui si dia l’esatto valore per la letteratura, la scienza la religione e le leggi; la regola vale anche per i periodi, le cose e gli uomini neri che in regione storica vagarono (fortunatamente in numero molto esiguo), tutto quanto per disegnare un quadro definitivo e senza ombra o velo alcuno della storia per le eccellenze arbëreşë.

Art. 26 – Sottoporre ad attenta analisi la storia del Collegio Corsini e il peso culturale civile e religioso, in quanto primo luogo della sapienza arbëreşë, direttamente connesso nello scenario europeo, sia nella sede modica e, solidi principi di San Benedetto Ullano e poi in quella più estesa in ogni senso dopo il 1792 di Sant’Adriano, sino alla sua storica scissione con la nascita del convitto, la scuola di Sant’Atanasio in Roma e la solida Curia di Lungro nel 1919.

 Art. 27 – Va in oltre rilevata l’urgenza di stilare un elenco in cui le eccellenze dal punto di vista umano in campo letterale, ecclesiastico, giuridico e della scienza esatta e di tutte le discipline che contribuirono alla crescita e l’unificazione del meridione, le stesse che invece di essere vanto  devono fare la fila confusa per  apparire incontaminati alle nuove generazioni arbëreşë e terminare di voler valorizzare alcuni campanili a scapito di altri, che oggi potrebbero essere vanto mondiale per i primati raggiunti dalla RsdsA.

Art. 28 – I Comuni le Associazioni e le Università si impegneranno a fornire una chiara e leggibile storia di tutti i luoghi le cose e gli uomini della regione storica, priva di inutili rammenti che vogliono coprire alcuni aspetti, rispetto ad altri; per questo ogni relatore deve utilizzare tutti gli strumenti e le professionalità per avere piena consapevolezza degli ambiti e delle cose trattate; a tal proposito e opportuno rilevare che la RsdsA viene raccontata come chi paragona Cristoforo Colombo, a chi termino nelle coste dell’isola d’Elba.

I Presidi della Memoria

Art. 29 La messa in atto di musei esposizioni o eventi devono essere attuati nel pieno rispetto della tradizione con il fine di tramandare senza personali interpretazioni, quanto esposto o divulgato; il fine comune da perseguire è quello di tracciare un itinerario nelle diverse macro aree, che possano riferire in maniera unilaterale gli eventi storici e di quanto abbiano inciso su quel territorio la consuetudine le arti sartoriale e tutte le altre  attività agro, silvicole e pastorali, eccellenza per la quale furono accolti i minoritari.

Art. 30La vestizione dei costumi va eseguita secondo l’antico rituale, rispettando tempi e caratteristiche estetiche che completino in tutte le sue parti, l’esposizione delle preziosissime vesti; il costume femminile dalla tradizione arbëreşë e un elemento unico, è il riferimento storico, per questo va utilizzato nella sua interezza ed esclusivamente in manifestazioni e momenti istituzionali o religiosi, poi eventualmente la versione di sintesi molto più sobria, va esibita in spettacoli o manifestazione di senso pagano o commerciale senza atti di pura esposizione fine a se stesso.

Art.31 – I lavori per la tutela e la conservazione degli elementi materiali e immateriali delle caratteristiche arbëreşë saranno sempre accompagnati da una rigorosa documentazione, con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e fotografie redatte da un comitato scientifico precostituito e composta: da un Architetto, uno Storico, un antropologo, un filologo, uno psichiatra e almeno un Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato).

La Difesa dell’Idioma

Art. 32 – Per la tutela e la conservazione dell’idioma e degli ambiti costruiti saranno eseguiti studi specifici all’interno della regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë, estrapolando e riunendo tutte le parlate tipiche delle macro aree a iniziare dal corpo umano e gli elementi prossimi al suo sostentamento e naturali; scremate di tutte le cadenze idiomatiche Ispaniche, Francofone e Bruzie; solo a seguito di questa operazione si porteranno a confrontare i risultati con quello della terra di origine odierna, per tornare in nell’antica terra di origine a riconfrontarli; il fine mira ad ottenere un solido fulcro antico  che non sia compromesso da chi gli arbëreşë rifiutarono di condividere cose  nel XV secolo, preferendo l’esilio e patire in terra altra ben da oltre cinque secoli.

Art. 33 – I dati ottenuti dal procedimento su citato per l’integrità dell’idioma, vuole evidenziare le parlate comprovate e definite da un comitato scientifico preordinato e che non siano il semplice confronto di appassionati che vivono macro aree dissimili o istituti che producono riversi di ricerca, ma da un comitato scientifico in questa fase così composto: da un Architetto, Uno Storico, Un antropologo, Un Filologo, Uno Psichiatra e il Natio d’Ambito (con non meno di 70 anni pur se emigrato) e un numero di Linguisti pari a quello di tutti i componenti la commissione.

Art. 34 – Le parlate tipiche saranno raccolte in due distinti volumi: il primo letterario e grammaticale; il secondo della manualità, delle scienze e delle arti, disegnato schematizzato in coloritura .

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Tale documentazione sarà depositata in pubblici archivi e sarà messa a disposizione degli studiosi.

La sua pubblicazione è vivamente raccomandabile.

Senza titolo

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BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË  (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

Posted on 14 agosto 2024 by admin

Sirena_partenope_post_2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë sono, centri antichi colmi di consuetudini, genio locale e sapienza, essi alimentarono, diedero agio e solidità sociale alla regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë:

La storia ne conta più di cento, tutti elevati secondo dinamiche in sintonia armonica delle salutari colline del sud Italia; qui formarono insieme di genio costruito e, assumendo il ruolo di culla d’idioma, credenza e consuetudini, indispensabili all’uguaglianza sociale dei generi che compongono questa popolazione furono preferiti ad altri.

In tutto luoghi di iunctura familiare, colmi di fascino, storia e parlato; tutti fondati, secondo i principi di genio parallelo, fraternamente immersi negli ambiti offerti dalla natura, la stessa che affascinata dalle gesta rispettose di queste genti, li accolse volutamente in ogni dove, senza mai interporre soluzioni di continuità estrema.

Crescere all’interno di un paese arbëreşë e come fare un lungo e benefico sogno, la differenza che distingue i fortunati al risveglio, sono i ricordi che rimangono impresse nella memoria del vissuto in questa parentesi benefica rigenerante.

L’enunciato vuole rendere merito al dato che non basta vivere e crescere in un ambito locale così antico, come i Katundë arbëreşë, per annodare pieghe sufficienti del modello consuetudinario più raffinato del mediterraneo, infatti tutti notoriamente sognano ma pochi ricordano, e sanno fare tesoro di questo ameno viaggio naturale.

Notoriamente ad occuparsi della tutela dei Katundë sono stati filologi, antropologi, storici di età antica medioevale e moderna, i sognatori prediletti di epoche, fatti e cose dei Katundë, peccato che di quei sogni non essendo parlanti, non hanno saputo partecipare e condividere cose con glia attori principali e al risvegli appellarli impropriamente borghi, o terminare che tutto l’apparato storico di genio di cui sono stati inermi spettatori, si possa risolvere, nell’aver individuato una lingua altra per appellarla Arberia, che è puro astrattismo mentale e neanche principio o fine di un sogno.

Notoriamente l’etnologia è una disciplina che vorrebbe comprendere le singole società, i loro modelli di vita e di pensiero, per poi, mettere a confronto le varie società facendo emergere somiglianze e differenze.

Ma da questo arrivare all’enunciato che le cose del passato, siccome vetuste, non hanno senso e vanno dismesse, è una pena che non ha un termine di decenza

Se poi il campo lo allarghiamo sull’insegnamento per le nuove generazioni locali parlando e trattando l’argomento come una lingua diversa, perché più moderna o al passo con i tempi, si cade nel campo dell’astratto e precipitiamo in un dirupo nero che non trova memoria in nessun ragionevole sogno.

Infatti non si tratta di offrire solo ed esclusivamente regole, costruzioni e quindi non è solo uno strumento linguistico che non trova una radice plausibile verso chi lo deve apprendere ed applicare.

Vero è che una persona che possiede uno strumento linguistico deve anche poterlo contestualizzare e riconoscere in quello specifico luogo di sogno.

Il dato nasce dal fatto che una lingua e una cultura si influenzano vicendevolmente, perché e lo strumento naturale e sonoro usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi dietro c’è una cultura di riverbero locale, che fa da cassa armonica a tale strumento.

Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza considerare lo strumento linguistico e viene descritta attraverso quest’ultimo.

Possiamo affermare scientificamente che esiste un binomio lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto locale sempre vivo.

Questa breve trattazione vuole sottoporre all’attenzione della numerosa platea di trattatisti storici costumisti, clerici che dicono di aver saputo sognare cose in Arbëreşë.

Perché come sottolineato da principio sopra citato, non tutti al risveglio ricordano e sanno interpretare il vissuto in sogno, a tale scopo e bene ricordare loro che esistono sognatori di pensiero più titolati e meno influenzabili al risveglio in queste culle arbëresşë.

Dove sagge madri, le stesse che storicamente fecero e sostenevano il governo delle donne sapevano, come depositare i figli stanchi e farli addormentare in quelle culle di legno che ondeggiando al ritmo di quelle nenie, cantate con raffinate melodie vocali, aprivano gli scenari di sogno dei bambini buoni, gli stessi che poi adulti lì in quei manufatti, violati dai non sognatori, i quali dopo decenni non vedono e non sentono depositato il cuore dei buoni sognatori.

La mia culla dondolava facilmente e non cigolava, non aveva difetti di sorta era una fortezza aperta dove solo le mani sapienti di una madre del governo delle donne, potevano accedervi con delicatezza e amore verso il figlio, mai nessuno ha violato la culla, anche se non aveva mura ed era sollevata come un Katundë su una collina.

Per questo nessun bambino di buoni sogni, ha mai sognato o pensato di considerare il luogo del sogno, alla pari di un borgo, in quanto lo hanno sempre considerato, come un luogo sacro puro, religioso, come lo sono l’acropoli di Atene per Atena, Partenope con Napoli, o Roma per i due figli adagiati, vicino al fiume dove sognare.

Per concludere e terminare con un forte sogno di credenza va ribadito come ogni Katundë come la “Terre di Sofia” sono luoghi che nascono con un riferimento primo di credenza e, non sono luoghi atei come lo furono quelli senza sogno, denominati Borgo.

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I SEI GIORNI DI SANTA SOFIA D’EPIRO

I SEI GIORNI DI SANTA SOFIA D’EPIRO

Posted on 13 agosto 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era la mattina del 18 agosto del 1806 e all’improvviso si odono il crepitare di fucili e, il ter­rore invase l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei simpatizzanti ispanici; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli.

Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti, e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato adibito a granaio.

Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gian Marcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi e di eguale stirpe, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, Gian Marcello, solo, egli solo, furibondo lo trafigge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».

Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcel­lo Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del ve­scovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero ve­gliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).

Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini

La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).

Nella trattazione storica che hanno avuto come protagonisti gli Albanofoni nel Regno delle due Sicilie si ricorda per tradizione i giorni dal 12 e sino il 18 Agosto del 1806.

Fu allora che i briganti (?) scheggiarono Santa Sofia, terminando la vita del Vescovo Bugliari, del medico suo fratelli, il notaio, la guarnigione intera e un numero imprecisato di Sofioti/e, la vicenda, vide soccombere dal 13 a 19 agosto il piccolo Katundë, al punto tale che ogni generazione che seguì a quell’evento, è stata allevata in memoria e ricordo del momento più buio della storia locale e di tutto il regno, un lutto o senza soluzione di continuità dal 18 Agosto del 1806, ciclicamente ricordato da chi è saggio e conosce tutte le pieghe di quella vile vicenda di potere occulto.

La terribile pagina ebbe inizio con il brutale assassinio di Giorgio Ferriolo insieme al suo piccolo stato maggiore, composto dal fratello e da alcuni uomini fidati, continuò con la devastazione del paese intero e si concluse con il vile assassinio del Vescovo Francesco Bugliari, vero e unico bersaglio poco più in basso di dove era allocato il Monte del grano.

L’accento dell’eccidio è stato sempre posto sulla domestica Bertina, ma la complicità di indegni personaggi della stessa comunità Albanofona, fu determinante per portare a buon fine la volontà dei mandanti; alcuni presenti e ripagati con misere suppellettili, mentre i registi assenti, grazie all’eliminazione del prelato, poterono godere e rivestire diversi ruoli di rilievo all’interno del regno, grazie a Dio, solo durante il decennio francese per poi trovare fine, per ironia della sorte “dietro “a un granaio.

Va premesso che il Bugliari aveva avuto solidi contatti con Pasquale Baffi, i due oltre a essere stati gli unici artefici del trasferimento del collegio in Sant’Adriano, si scambiavano ogni tipo di notizia relativa agli eventi che sfociarono con la rivolta del 99.

Una fitta corrispondenza intercorse tra lo studio legale del Baffi, allocato nel centro storico di Napoli e l’abitazione paterna del Bugliari posta a monte del centro abitato di Santa Sofia d’Epiro.

Analizzando con perizia storica gli avvenimenti, apparisce molto strano che negli accadimenti napoletani a pagare sia stato solo il Baffi e che a essere devastata, sia stata sola la sua abitazione nei pressi dell’allora Biblioteca Nazionale e non il suo studio dove si conservavano preziosi manoscritti inediti e lettere di corrispondenza privata.

Il collegio guidato dal Bugliari oltre ad una vandalica devastazione, dopo il 99, riprese la sua missione culturale, religiosa e politica senza particolari patimenti.

Nonostante l’indiscutibile legame d’ideali con il Baffi, il Vescovo F. Bugliari, non fu particolarmente perseguitato dal governo centrale, eppure, una volta tornati a gestire il regno, i Borbone, diedero avvio ad una violentissima e capillare pulizia su tutto il territorio, che durò per più di quattro anni.

Un elemento di non scarsa rilevanza è il dato di fatto che i Borbone saliti nuovamente al trono si sentirono in dovere di ringraziare tutti coloro che aveva lavorato a difesa il loro regno, come ad esempio il reggimento della Reale Macedone che nel 99 fu determinante a placare gli animi degli insorti.

Quando dovettero scegliere della sorte del nipote e del parente di Don Peppino preferirono colui che si era reso disponibile e si mise a disposizione con gli organi inquirenti, avendo come punizione solamente l’esonero da ogni privilegio.

Il di che Napoleone si affacciò alle porte di Napoli, l’occasione di poter tornare agli antichi splendori veniva servita su un piatto d’argento a coloro che con i Borbone non avrebbero mai avuto gloria.

Antiche ruggini per pochi metri di terreno tra il presidente del collegio e il Lopez andavano oleate con i fumi dell’ignoranza, a quel punto armare la mano per assicurarsi ulteriore impunità fu di facile attuazione.

Apparisce strano che trascorsi appena cinque mesi dall’ingresso trionfale nella capitale partenopea di Napoleone e avviato il rinnovamento francese una pagina così nera abbia un senso, se non per garantirsi ulteriore impunità per il tradimento che a quel punto incominciava pericolosamente a vacillare.

Napoleone il 13 marzo de 1806 sedeva nel trono di palazzo reale a Napoli e pochi mesi dopo, una banda di briganti si scontrava, in contrada Pagliaspito di Santa Sofia d’Epiro, con G. Ferriolo e i suoi valorosi uomini dando avvio all’orrenda strage.

Sin troppe volte quelle sei giornate assunsero i contorni di leggenda o propinata a modo di favola.

Gli accadimenti di quel mercoledì 13 sino al martedì 19 successivo, letti in un’ottica di volgare vandalismo e brigantaggio non pongono l’attenzione sui traguardi acquisiti in poco tempo da coloro che si distinsero esclusivamente nell’intervallo storico del decennio francese; iniziando la loro ascesa proprio dopo quelle orrende giornate.

La tesi è suffragata anche dal fatto che se nel versante destro della valle del Crati, vi era un obbiettivo alla portata delle scorribande dei briganti, quello era il collegio di Sant’Adriano, quale bottino materiale sarebbe stato più consistente e facile da strappare. Stranamente, per le loro scorribande i briganti scelgono un centro abitato, pur se era noto a tutti che in quei contesti si viveva dei fumi della povertà diffusa.

Dopo pochi mesi dalla morte del vescovo Bugliari, coloro che avevano vissuto nell’ombra ebbero su di essi i riflettori della notorietà e nel contempo si diedero alle stampe trattazioni sulla questione meridionale oltre alle ricette, soluzione possibile a quella endemica piaga.

Come racconta la storia del ricco contadino che invece di frequentare la bottega di Michelangelo e apprendere umilmente un mestiere, preferì acquistare i suoi attrezzi per ritenersi al pari del grande maestro.

Allo stesso modo da coloro che non ti saresti mai aspettato, addirittura vengono pubblicati studi linguistici senza che le ombre di questa disciplina li avessero mai avvolti.

Questi erano i temi con i quali Pasquale Baffi aveva incantato, con le sue irripetibili disquisizioni, tutta l’Europa e per essi fu la persona più ambita e ricercata negli affollati salotti intellettuali della capitale partenopea.

Chi all’indomani dei fatti di Santa Sofia ha inviato alle stampe gli scritti su cui porre solamente la parola “fine”, ignorava che fare propri quei documenti, fatti di sudore, patimenti, umiliazioni e sangue, sarebbe stato come tradire coloro che in quelle giornate sofiote diedero la vita.

Crea sgomento la pubblicazione di trattati che furono tradotti in diverse lingue, non immaginando, che fare propri gli attrezzi del maestro è possibile, altro è produrre arte e cultura.

Comparando questi gioielli di inestimabile valore letterario con altri scritti degli autori è palese la differenza nell’argomentare quelle indebitamente pubblicate, a tal proposito oserei dire che grecisti di elevato spessore si nasce, non si diventa con l’appoggio dei napoleonidi per poi tornare nell’oblio alla fine del decennio.

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I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

Posted on 12 agosto 2024 by admin

Regno1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La filologia è un insieme di discipline che studia i testi di varia natura, inizia con quelli antichi confrontandoli via via con quelli più contemporanei e, ripercorre la forma originaria con analisi critiche o comparativa delle vicende trascorse.

Sono i Filologi che dovevano essere protagonisti nel corso della compilazione della legge 482 del 1999 e, dare merito e misura del giustificare di chi e cosa poteva accedere di diritto, nella lista che avrebbero usufruito dei benefici di legge, assegnando un titolo e valore agli Arbëreşë che non sono citati.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Indo Europea possa vantare.

Comunemente traducendo Gjitonia simile al “Vicinato”, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato di scambio, quale mercato o monte del prestito e, nel contempo vedeva e sentiva in arbëreşë, in poche parole un luogo nebuloso o impolverato dove s’imprestavano cose.

Tra le più inopportune citazioni ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada, a cui fanno seguito un’innumerevole quantità di temi di concetti, copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, lo stesso che ancora vaga senza pace.

Non ultimo il riferire del concetto di vicinato, estrapolato dai documenti della vergogna sociale che avvolgeva i Sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il tema di vicinato sviluppato in una delle nove relazioni prodotte per indagare, questa piega sociale, rielaborato furbescamente in forma arbëreşë, da quanti della minoranza non conoscevano idioma, consuetudini secondo i minimali e rudimentali protocolli di storia moderna, per dare senso al circoscritto immateriale.

Che la Gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo, è un dato di fatto che non finirà mai di stupire e, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini, la storia, il tempo e i luoghi della minoranza arbëreşë, che ha saputo svilupparla.

Essa è un’esigenza vernacolare locale, tipica di un corridoio tracciato dai paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, estendendosi dall’estremo piò ad este della Grecia, sino a quello più ad ovest del Portogallo

Quando si nomina, Gjitonia, essa risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione o metrica possibile; essa s’insinua con le sue radici nel protocollo di iunctura familiare, per questo solo chi ha avuto la fortuna di viverla, può avvertire e riconoscere, quelle sensazioni di consuetudine antica post moderna o globale.

In altre parole, i principi etici o prescrizioni, la cui compilazione tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile diretta dalle donne e sostenuta senza apparire dagli uomini.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, in altre parole, la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri, imposti da regnanti stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreşë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per dimorarvi, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati liberi di esprimere questi valori di antica radice sociale mediterranea, organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti assegnati ai generi umani, diviene la parte materiale di regole conservate nell’immateriale memoria e nell’amore del cuore.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni di Iunctura familiare mediterranea.

La famiglia allargata infatti, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive discendenze, in tutto si formavano gruppi, non minore di una dozzina, tra maschi e femmine, dove ognuno dei quali/delle quali, erano o meglio venivano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità e in parallela autonomia.

Questi erano in forza allo sviluppo dei noti Sheshi, che pulsavano positivamente e senza sosta nel formare i centri antichi tipici dell’urbanistica, che sosteneva la integrazione e la fratellanza tra popoli nel mediterraneo.

Il modus operandi andò sempre più regredendo, integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, per questo il modello di “famiglia allargata” dovette cedere il passo al modello di “famiglia urbana”.

Il passaggio epocale di questa iunctura familiare dura sino agli anni sessanta del XX secolo, quando inizia o sgretolarsi in forma numerica, per la necessita di nuovi esodi economici migratori verso il nord Italia ed Europa, ed ecco che si restringe la consuetudine locale, all’interno dei propri spazi abitativi e, adesso con la porta dell’ingresso non più aperta.

Quando la famiglia allargata diventa gruppo urbano resta isolata, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare, l’elemento che garantisce il riconoscimento di antichi legami di fratellanza sin anche generica.

Notoriamente esso è intercettata nelle armonie condivise dei cinque sensi, di unica memoria, ed è così che si avverte ancora il senso di Gjitonia; tatto, odori, sapori, suoni, una ideale dimensione senza un confine circoscritto, in tutto avvertire nel cuore nell’animo e nella mente intime, il riverbero di quelle note antiche.

A tal proposito trova agio restrittivo l’enunciato: la Gjitonia è dove arriva la vista e la voce; riferito come ultimo arazzo in Arbëreşë da una anziana donna sandemetrese, registrato da un non parlante ricercatore, il quale lo fece tradurre agli allievi ascoltatori di un corso accademico nella Calabria citeriore, senza alcuna formazione lessicale, per poter essere poi dato alle stampe, con tema compilato secondo protocollo filologico.

Ed è per questo che oggi comunemente la si paragona a modelli impronunciabili, con fondamenti di natura puramente materiale.

In tutto, avendo ed essendo, le nuove generazioni, smarrito il senso di quei patti antichi immateriali, gli stessi che la società di oggi non può conoscere, in quanto, non le ha mai vissute e non averle avvertite, le stesse che germogliarono misure dell’identica naturalezza sociale della terra di origine.

Queste non potevano essere intercettate in luoghi vuoti ripopolati in estate dai figli delle generazioni, ormai più in vita che nei paesi venivano a villeggiare d’estate e, venivano intervistati d’estate nel mentre con i vecchi amici giocavano a scopa, briscola e tresette nel bar della piazza.

Metri e metri di registrazione che non possono e ne potevano imbrigliare un governo di cose immateriali che, sfuggiva dai limiti della loro mente; ed ecco che arriva il suggerimento antropologico di un ricercatore, che consiglia di andare per luoghi estrattivi a trovare agio di studio nel vicinato di un altro parallelo terrestre.

Questa ricerca è il risultato di un decennio di indagine dove i diretti interessati e divulgatori nonostante gli scritti comprovanti negavano di aver mai preso parte alla crociata della Gjitonia come il Vicinato.

Gli interessi groppi dipartimentali allargati poi davanti all’evidenza si restringevano all’interno delle proprie stanze e quando il ricercatore con discendenza e memoria di Gjitonia, trovava porte e finestre chiuse dove si udiva discutere animatamente, all’esterno la conferma di essere nel giusto mie si potevano diffondere le nuove ricerche che nel 2014, salvarono l’agglomerato da me difeso in giudizio per non essere demolito, almeno sino al 2039.

Quando si aprono le porte tutti sorridono, ma in cuore loro tutti sanno che quell’antico governo che sosteneva la scuola dei sensi è terminata e, non tornerà più in vita, e oggi per sopperire a questa storica mancanza locale si chiamano gli indigeni più estroversi a imprimere messaggi figurativi di un passato senza alcun sentimento o senso di luogo.

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LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

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