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TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

TERRA DI SOFIA E LE FIGURE OLIVETARE CHE RIVERSANO ACETO SPERANDO DIVENTI VINO (Fèzà e llirierë te buti, bën ngà vit ushulë e jò verë)

Posted on 15 settembre 2024 by admin

Aglomerati primariaaaa

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le terre del casale che poi divenne di Sofia, furono attraversato da Romani, vissute da Bizantini, pretese dai Longobardi, per poi ricevere agio agrario dell’Ordine Cistercense e in fine dal XV secolo divenute terre parallele ritrovate per gli esuli Arbëreşë, questi ultimi dopo averle riconosciute, ebbero agio di bonificarle e renderle giusto confine abitato di sei casali della diocesi di Bisignano confine storico con quella di Rossano.

E in questo luogo che da sei secoli sono vissuti, gli adempimenti di integrazione e sostenibilità con gli indigeni locali prima e, poi riverberando con le pieghe del territorio del principato di Bisignano, del Regno di Napoli, dell’Italia e come cerchi concentrici di cultura abbracciare tutto il vecchio e i nuovi continenti.

In questo luogo operoso, fatto di artigiani di genio e contadini infaticabili, dopo le vicende di scontro e di confronto con gli indigeni locali, con l’elevato del Palazzo Arcivescovile, dal 1595 ebbe inizia la Semina culturale in continua crescita, grazie ai numerosi titolati, che ebbero modo di formarsi nelle storiche scuole Sofiote.

Certamente dopo la stagione di confronto inizia l’era delle attività vernacolari, dove ad essere protagonisti sono le attività artigianali e il rassodare e mettere in produzione le terre.

Nascono per questo i cunei agrari di produzione e della trasformazione di prodotti agro silvo e pastorali, si erigono mulini e masserie, mentre all’interno del centro abitato, maniscalchi, fabbri e artigiani diventano i punti dove rendere efficienti attrezzi e ogni ordine di manufatto indispensabile ad accelerare i tempi della lavorazione.

Questo certamente sino alla fine del XVII secolo, quando iniziano a formarsi generazioni di clerici, grazie al palazzo arcivescovile qui elevato e, nuove leve che frequentando queste famiglie, ricevono formazione culturale in terra di Sofia.

La svolta epocale avviene con l’istituzione del collegio Corsini in San Benedetto Ullano, da questo momento numerosi Sofioti hanno modo di frequentarlo ed essere protagonisti alle necessità del regno, come il prete Giuseppe Bugliaro che venne scelto da re Carlo III, ad assumere il ruolo di Cappellano Militare della Real Macedone, appena istituita.

Il Bugliaro diventa l’elemento trainante di tutta la cultura storica degli Arbëreşë, privilegiando in modo particolare chi proveniva dal Terra di Sofia, infatti la sua posizione sociale all’interno della capitale del regno facilita l’ingresso nei canali culturali e delle fratrie sociali che contano.

Il primo fu Baffi e dopo un po’ di tempo anche Masci il secondo perenne, per questo segue una deriva a dir poco scorretta, per raggiungere il vertice di aspirazione politica a qui tempi in fermento, specie con il rinnovamento di cassa sacra dove seguendo il Baffi, forma la sua indole non certo da imitare.

Oggi rileggendo le dinamiche seguite dai due, per la loro affermazione pubblica, politica e storica, appare evidente il sovrapporsi o incrociarsi di meriti dirsi voglia, attestazioni e racconti dove si confondono ruoli e meriti dei due Nativi in Terra di Sofia.

Questo è anche il tempo in cui le nostre maestranze agricole, viste le nuove richieste dell’industria in carenza di olio per far ruotare meglio le nascenti rotative del nord Europa, invitava a fronte di nuovi guadagni a, rimuovere gelseti per alimentare i bachi da seta ormai sovrastati dalla crescente via della seta.

I percorsi carovanieri o rotte commerciali che congiungeva l’Asia orientale, e in particolare la Cina, al Vicino Oriente, raggiungevano e modificavano le richieste del bacino Mediterraneo.

Si piantumano uliveti e, nel breve tempo della crescita delle piante, nascono così i frantoi storici, finalizzati alla estrazione e produrre olio.

Questo naturalmente lungo i cunei della trasformazione, che non sono solo punto di mulini per estrarre farina e crusca dal grano, ma da adesso si affiancano anche i frantoi, lungo lo scorrere continuo, del Galatrella e del Vote.

Oltre alle figure del Pastore, Casaro, Agricoltore, Mugnaio e Prete, prende valore l’arte del Frantoiano, Cantiniere, Calzolaio, Fabbro, Falegname, Maniscalco, Muratore, Sarto, Stagnino, Stimatore dell’Agro, Trasportatore a dorso d’asino.

Da questo momento si affiancano ai luoghi ideali del governo della Gjitonia del centro antico, anche quelli dell’agro che diventano luogo di incontro e confronto, nel mentre la scolarizzazione da ora in avanti avviene nelle famiglie più elevate che accolgono giovinetti per indirizzarli alla grammatica, la storia e geografia.

Per questo le famiglie rinomate del centro antico, diventano luoghi di formazione per quanti i genitori decidono di elevarli dalla loro condizione sociale, tra questi vedremo emergere Baffa/i, Becce/i, Berlingieri, Bugliaro/i, D’Auria, Fasanella, Masci, Ferriolo, Miracco, Pizzi.

Ha inizio cosi il percorso delle scuole nel centro antico in Terra di Sofia, dove oltre i temi della credenza Bizantina sono insegnate le antiche trattazioni della lingua greca e latina, da cui estrapolare un modello di comune di Arbëreşë, in forma scritta clericale, di questo in particolare va rilevato un dato che ancora oggi resta sconosciuto, non hai comuni viandanti o copiatori seriali, che quanto impattano contro le necessita minimali della forma scritta, si difendono dicendo, da noi si dice così.

E no, se sei un esperto devi saper unire le parlate di un popolo, non dividerle in Zognë, Zotë, Katundarë e llitirë, discriminando senza saper condividere e unire generi, cose e natura.

È dal secolo XVII che il Katundë vive una stagione di contrasto nato a Napoli e qui senza soluzione di continuità si riverbera ancora oggi in Terra si Sofia, dilagando sin anche nell’agro, qui a Napoli, si sviluppa il genio e il luogo natio, si adopera ad adombrarlo con ogni opera, ricorrendo sin anche ai più meschini e volgari, radicandosi sin anche negli adempimenti parentali o germani dirsi voglia, che mirano alla morte del prescelto.

Esempio emblematico la storia di Pasquale Baffi, tradito derubato e, solo uno si è ostinato a leggere e capire cosa fosse successo tra le sue cose Napoletane e quelle del suo Katundë natio, rimasto impassibile alla sua morte, non essendoci stata alcuna reazione.

Baffi il letterato più alto che abbia avuto il mondo culturale degli Arbëreşë, costa a me rilevarlo e, sino al 2003 era ritenuto nullità, perché non aveva mai scritto in lingua Arbëreşë o romanzato penose figure di genere riverso, questo almeno a parere di uno dei pilastri dipartimentali dell’epoca che preferiva copiatori seriali, a chi era fortemente acculturato e avendo consapevolezza della storia millenari dei profughi d’altre Adriatico non ha azzardato pena scrittografica (???????).

Pasquale Baffi è bene ribadirlo, nella storia della letteratura è il più grande, il più geniale, il solo, il primo, letterato Arbëreşë, lui non scrisse libri, compilò inutili Alfabeti o scrisse Dizionari riversi dall’Arbëreşë al corrispettivo Italiano, che è la cosa più inutile concepita per i minori della diaspora balcanica.

Infatti come si possa concepire una compilazione simile, perché non trova risposta, dati gli Arbëreşë una popolazione analfabeta della lingua parlata diversamente dell’italiano tutti parlano, studiando e leggono; questa è premessa nota fortemente divulgata, a tal proposito e sulla base di tale principio storico, come si può concepire un vocabolario che dall’ Arbëreşë, spiega il corrispondente in italiano, come dovrebbe fare l’analfabeta a cercare un qualsiasi vocabolo, se non si ha cognizione di lettura in Arbëreşë, la risposta ai soliti viandanti distratti o ricercatori di notorietà llitirë

Infatti essendo il Baffi, il primo unico e solo letterato che il pianeta o mondo Arbëreşë abbia mai avuto, nel predisporre i suoi studi storici, che chiamava “Discorso” non ha mai menzionato scritti o prodotti editoriali in Arbëreşë, nonostante avesse titoli e capacità intellettuale per farlo, ma questa e solo storia di chi sogna campanili da scalare e lui non ne aveva necessità perché illuminato dalla sua natura.

Preferendo con il non sconvolgere una consuetudine secolare, facendo molto di più dei comunemente scriba, concentrandosi in cose molto più genuine ed intelligenti, come comparare la radice delle parole, dei governariati delle terre della diaspora con quelle indo europee più note.

Infatti a messo a confronto le parlate dei viandanti della via Egnazia, di quanti si dirigevano in terra santa a cercare gloria e credenza, con gli indigeni li pronti a confortarli e sostenerli.

Altro dato fondamentale che appare nei suoi scritti che titolava “Discorso sugli Arbëreşë”, sono gli appuntamenti storici che questa popolazione era uso predisporre nel tempo dell’inizio dell’estate, secondo due principi:

  • Il primo per ospitare i parenti degli indigeni scomparsi e ricordarne le gesta con processioni nei luoghi di sepoltura
  • Il secondo ricordare i propri eroi, con danze e canti rimanendo ai margini del percorso dove sfilavano gli ospiti.

Questa era anche l’ossessione per numerosi Arbëreşë, per esternare ironia in lingua parlata indirizzandole verso gli ospiti più nobili che sfilavano e per non essere individuati non per il dire, ma per le gesta e il fare, si camuffavano dipingendosi il viso e in alcuni casi indossando indumenti femminili.

Queste gesta oltre a studi specifici, davano senso alle diplomatiche che il Baffi compilava tra il 1754-55-56-57 e, dato che le rotative del regno, non avevano tutti i caratteri Greci, secondo le regole di stampa di Gutenberg, Baffi inviava i suoi scritti, nel nord Europa, dove suoi leali estimatori, provvedevano a disporli in stampa senza errori alfabetari.

È il Baffi a realizzare il percorso storico di questo popoli prima e dopo l’insediamento dei profughi nel regno di Napoli, individuando paesi e casali, indicandone alla fine del XVI secolo quale direttiva religiosa era seguita dagli Arbëreşë se latina o greca, indicandone la eventuale radice Latina o Greco Bizantina.

È sempre Pasquale B. a salvare i Papiri di Ercolano, quando avuta conferma dell’arrivo dei Francesi a Napoli e, conoscendone la natura le aspettative verso le cose dell’antichità, anni prima fece nascondere gli storici scritti, i quali se oggi sono ancora parte delle preziose cose dell’antichità conservate a Napoli, lo si deva alla sua previsione, perché ne aveva intuito il grandissimo valore.

Pasquale Baffi oggi viene ricordato nel suo luogo natio, con un busto bronzeo do ve Temistocle e Gennaro si adoperarono a dismettere l’orinatoio pubblico, e lui non merita questo omaggio di memoria proprio in quel posto malsano attorno al quale il centro antico si è sviluppato, si possono capire le scelte di apporre il busto di Scander-beg, turcofono, giustamente depositato nel lavinaio dove era il vuttò dei nobili Bugliari, o senza logica storica e di pensiero lineare è depositata un monumento a memoria della terra di origine degli Arbëreşë tutti.

Una sfera fatta di pietra calcarea do ve usualmente per il lavinaio che li scorreva era la Fossa per spegnere la calce, ironicamente un aspetto addirittura ironico, la pietra calcarea che rappresenta la vecchia Albania, depositata proprio li dove si rendeva morbida o meglio si sgretolava si spegneva rendendola morente l’essenza calcarea.

Queste, assieme ad altri adempimenti all’interno del centro antico, in Terre di Sofia rappresentano il sunto di una vergogna storica senza precedenti, poi se si volesse continuare con le rappresentazioni moderne dei graffitari anonimi non resta che piangere.

In quanto non vi è un luogo, un anfratto, una prospettiva che viene valorizzata in nome di quelle persone o di quelle figure, rappresentative di questo luogo tanto cari e ameni per quei cognomi prima elencati.

Gli stessi che in nessun modo sono ben voluti, ricordati, rispettati e neanche citati per titolo e nome, ma con il banalissimo e dispregiativo alias o soprannome degenere locale.

Similmente e incautamente come si usa appellare Giorgio Castriota figlio di Giovanni il quale è citato in onomastica o esposto comunemente con effigi islamiche, ovvero: Scanderbeg, sormontato da ironica cupola mussulmana eroicizzato da erbivoro in corna difformi.

Tutto questo non lo si fa solo con le figure del passato ma anche con le moderne, le stesse che quando espongono fatti e luoghi della storia locale, si risolve con l’indagare il centro antico e i cunei agrari, proprio con i dipartimenti che sono stati l’inizio formativo di queste eccellenti figure, le quali per principio di incompetenza locale, non sono coinvolti neanche a illustrare cose in loco, che solo chi studia e compara storia, architettura urbanistica e costume, può concepire.

Terra di Sofia, ad oggi non ha una guida storica del centro antico e del costume, nonostante vi sia la tendenza a distruggere il primo, addobbare di incoerenze e appellativi senza ragione il secondo, per non parlare delle tante figure di genere che hanno fatto la scuola storica di questo luogo, confondendo e allocando in prima linea, abbandonando le eccellenze sotto la polvere dell’ignoranza, dell’incompetenza e dell’inconsapevolezza della storia.

Qui ancora oggi non esiste una mappa delle attività storiche, sia all’interno del centro antico o delle sue periferie storiche, vicine e lontane, dove figure di memoria in arte manuale hanno reso possibile, il lavoro nei campi, con attrezzi vestiario, scarpe e quadrupedi, che a seconda le esigenze garantivano di bonificare le terre, per estrarre profitti vitali per loro e le proprie famiglie.

Tantomeno sono noti i Katoij, Moticellje o Kallive dove ebbero i natali le figure più eccellenti di questo nostro centro antico e, di come poi queste si siano sviluppate al punto di essere chiamate al plurale di nobile radice, non più al singolare di povertà.

Il lavoro dei campi e il sacrificio di mantenerli produttivi, non disdegnava o mortificava alcune genere di figura, i campi  posti a prodizione, richiedevano ogni tipo di capacità individuale e quando ci si recava in campagna l’unico atto discriminatorio era il capofamiglia a dorso d’asino mente la regina della casa a piedi, lo seguiva fiera e caricata a sarmenti sulla schiena, assicurando l’indispensabile scintilla del fuoco con il proprio “Telljë  personale”  fatto di stoffe arrotolate e cucite .

Intanto e nonostante ciò si preferisce allontanarli con disprezzo, per terminare l’analisi ad opera di referenti anonimi locali, che raccontano cose ed esempi alloctoni senza senso, terminando con un nulla di fatto e. la memoria locale non trova memoria e senso della manifestazione, che aggiunge strato di velo pietoso al luogo di noi illustri natio.

Oltre alle case e alle Botteghe artigiane del centro antico e delle sue frazioni, assume importanza storica la toponomastica che per essere stata fatta con intelligenza e cognizione storica è un protocollo che se idoneamente letto racconto le vicende e lo sviluppo del Katundë nel corso della storia.

Terre di Sofia, dalla metà del XVII seco, ebbe Cappellani Militari, Medici, Vescovi, Poeti, Letterati, Bibliotecai, Archivisti, Museologi, Politici, Accademici, Notai, e un numero rilevante di prelati, per questo nella macro area Sanseverinese era nota come il “Katundë delle Scuole di Sofia”

A tutte queste eccellenze accademiche se sommiamo gli artigiani, l’operato per la valorizzazione del centro non ha confine e infatti il benessere sociale non aveva ostacoli, nonostante un ristretto numeri di individui che remava solo per il suo benessere e quello dei suoi fratelli andati in matrimonio a nobili donne San Demetrese e Ullanese.

Una nota di merito, in questa diplomatica Sofiota, va al geniale pastore, Gioan Vincenzo Pizzi, il quale ormai vecchio e non più in grado di condurre le sue pecore, gestiva l’orto botanico dei Baffa/Caccuri in località “Morijthë” dove era anche il frantoio del nobile famiglia, oggi raso al suolo e seppellito per fare strada.

Il vecchio pastore qui durante lo scorrere dei tempi morti, svolgeva l’attività esemplare realizzando zoccoli di legno, ovvero, realizzava supporti di calpestio differenziati, per quanti, avevano difficoltà motorie, associava due sagomature lignee che compensavano la mancanza motoria del paziente.

Se vi dovessero sopraggiungere dubbi a riguardo, abbiate il coraggio di chiamare il qui scrivente e vi racconterò cose di cui, come abitanti di Terra di Sofia vi vergognerete, per voi e per i vostri figli, ai quali potrebbero ricevere in dono, un domani speriamo remoto, il vivere l’inferno medesimo.

Testimone è Adelina Pizzi, la cui storia sino ad oggi non conosce nessuno, ma ormai al compimento dei suoi primi quarant’anni, come indicato in data, è bene che tutti la conoscano e, chi furono i quattro artefici di questa storica dipartita, siano ripudiati dalle Terre floride estese di Sofia.

Le stesse che sono perfette per concepire figure illustri, ma poi non allevarli, accoglierli e ricordarli come fanno le madri buone che rimangono senza e in attesa perenne che ritornino rispettati.

 

Atanasio Pizzi Architetto Basile                                                                                                  Napoli 09-15-2024

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donne

SE NON AVEVI ANATOMIA DA SPOSA ADELINA NON TI FACEVA INDOSSARE STOLLITË (Pà sisë ,bidë e gofe, nenghë thë kielenë stollitë me garbë)

Posted on 13 settembre 2024 by admin

donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I costumi Arbëreşë sono veri e propri manuali, un componimento sartoriale, cucito e rifinito dal XVII secolo, seguendo le direttive, di credenza e contenuti.

Essi per questo assumono un ruolo culturale solido e continuativo, il più colmo di memoria delle origini e quanti hanno modo di osservarli, avendo sempre a fianco un illustratore adeguatamente formato, ne possono cogliere i valori di appartenenza.

Il costume per questo rappresenta un vero protocollo figurativo, fatto di contenuti depositati con garbo, in quelle innumerevoli cuciture e pieghe, come si fa con i libri o, quando si dipingono paesaggi per memoria.

Essi rappresentano la traccia dell’antica civiltà mediterranea Arbëreşë Bizantini, attraverso cui sono stati inseriti, concetti generali delle civiltà Indo-Europee.

Si riconoscono per il percorso che svolge la donna nell’ambito del governo delle donne nel corso della vita, in ruolo di: Sposa; Regina della Casa; Giornaliero; Vedova; Vedova Incerta.

Le stoffe di questi vestiti tra le pieghe, i ricami e colori sin anche in doratura clericale, contengono le tracce del cammino di noi arbëreşë, per questo il costume, indossato in maniera superficiale e con poca gradevole devozione, denota tutto il disprezzo verso le pene dei nostri avi, i quali, riverberarono sudore e sangue, per lo sviluppo economico e sociale delle discendenze in quelle sante terre parallele ritrovate.

Come i costumi e, del resto altre cose di dominio generale materiale e immateriale, contengono strati multisecolari, facilmente leggibili con figure titolate o con memorie storiche locali, con i quali e per i quali, confrontando le cose con quelle della odierna Albania, lasciano emergerebbe quanta differenza culturale sia stata introdotta nelle cose parallele portate dalla terra di origine, oggi, moderna storia Albanese, e mi riferisco a quella oltre Adriatico istituita agli inizi del secolo scorso, dove sono attinte atti e movenze, da quell’est, che agli avi Arbëreşë mirava ad incuneare amaro e pena islamica.

Da non confondere, con i legami della civiltà dei nostri antenati dell’antichità di quelle terre, con quanti, oggi con movenze ignobili femminili, arrivano per ricordare i primi venticinque anni del nostro eroe Giorgi Castriota, dipingendolo di “beg” e non d’azzurro dell’Atleti di Cristo.

Nessuno cita le vicende di mutuo soccorso, quello, sano e indissolubile del Drago, che è raffigurato, nella Capitale Napoli dal XV secolo, lo stesso che ha consentito ai nostri avi, di essere accolti e considerati come profughi buoni e, non da invasori violenti e malvagi, un costume, che nessun genere di radice Arbëreşë, ha mai indossato.

Nonostante nel quindicesimo secolo sia stato fuso in materiale bronzeo l’apporto dell’atleta Giorgio oggi lo si espone senza attenzione alcuna come quando lui era ricattato e costretto a fare gli interessi delle cupole con terminali caprini di corna difformi e, simulare luna crescente

Infatti le coloriture dello storico costume, sono di Azzurro: il Cielo la credenza; Rosso: la Fedeltà; il Verde: il Lavoro della terra; l’Oro la solidità o fondamenta economica; l’Argento: il Lavoro in miniera, Il Bianco Ricamo; il Marrone, la non conferma del marito scomparso; il Nero, il lutto; Il Nero sul Bianco, il lavoro di casa: Il Bianco ricamato la fonte per sostenere i generi.

Queste vesti, che passano di generazione in generazione, alcune volte sono state anche prestito, per avere misura di nuove confezioni, tuttavia se la conformità fisica o meglio l’anatomia della ragazza prescelta ad essere sposa, moglie, madre e, se le vesti non collimavano secondo un preciso protocollo di vestizione per la rappresentazione finale, con quella della modella in studio di vestizione finale, si preferiva non imprestare quelle vesti.

La misura che le sagge indossatrici del passato erano proporzione fondamentale si riferivano ai fianchi, i glutei, i seni e il rapporto dal giro vita, sino alla cima dei capelli, con quella di estensione sempre dal giro vita  di gambe sino al tallone del piede, due armonie fisiche, che se non riconosciute o individuate, dalle sagge madri indossatrici, a misura d’occhio, non davano agio di accoglienza per la prescelta, la quale dimessa con garbo, si doveva rivolgere ad altre sagge locali, che possedevano vestizioni per un fisico, poco armonico e con volumi che andavano altre la tolleranza da sposa.

Il manuale completo di vestizione è molto articolato e, in questo breve non è il caso di espandere in tutte le sue parti, Tuttavia esso abbraccia tutti gli elementi compositivi, i quali se non adeguatamente aderenti e coprenti con saggezza le parti femminili della procreazione con garbo e misura per il genere femminile che si espone a procreare, diventano mera esposizione senza volto o valore femminile, come purtroppo frequentemente accade senza alcun garbo e rispetto, in musei e feste di rappresentanza. 

Il protocollo è ancor più articolato e consistente, fornendo l’indelebile e unico protocollo di vestizione, che unisce il camino della Casa, con l’altare della Chiesa, tuttavia, forse è meglio rimandare ad altre attività compilative della nostra storia e, qui, non distrarre troppo i comuni viandanti.

Tuttavia è meglio non esagerare con temi e diplomatiche di lume veritiero, altrimenti si finisce per alterare troppo la realtà allestita da e per viandanti, i quali affermano e dicono di aver studiato ogni cosa, non avendone e lume per farlo, in specie come quello rilasciato dagli Olivetani moderni per esporre cose lette, riverse e definite da altri.

Resta un dato, ovvero, che nonostante l’intellighenzia artificiale, ringrazia e accoglie tutti i cultori di spessore che collaborano con lei e gli offrono nuove diplomatiche di conoscenza, quella degli umani fatta di Istituti, Istituzioni, Amministratori titolati da comuni studiosi o topi di archivio, biblioteche e musei senza muse di memoria compiuta, discriminano quanti si distinguono in discipline specifiche, lasciandoli penare come è successo ad Adelina Pizzi, che non le e stato dato neanche l’agio di essere anagrafica.

Ed è lei che oggi osserva misura, disapprova quanto di parallelo e vile, le sia stato reso, per negarle sin anche la vita a lei e agio per quanti donato tutto per il bene della R.s.d.s.A., lei essendo consapevole che il cielo è colmo di pianeti buoni, con una Luna e un Sole, questi “ultimi” mai assenti e sempre pronti a dare visibilità a tutti gli uomini che istituirono, inventano, promuovono e distribuiscono senza mai riposare il male assoluto e fine a sé stesso.

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I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

Posted on 04 settembre 2024 by admin

bovaroNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La borghesia fu determinata dall’affermarsi dei “liberi Comuni” e, fu anche il momento della fioritura del «Terzo Stato» il germoglio della “questione meridionale”, conseguente al centralismo statale.

I vocaboli «Borghesia» e «Borghese», derivati dal primitivo «Borgo», hanno generato a sua volta dal germanico Burg, un chiaro riferimento all’età medievale, in tutto, forme abitative ubicate tra le mura più antiche di un centro fortificato, dotato d’autonomia giuridica.

In tutto il regno di Napoli diffusamente ha avuto e, tuttora vanta i suoi borghi, designando nello specifico il vocabolo bùvero, d’evidente derivazione scherzosa o denigratoria classificatoria, dell’improbabile francese bouvre, così come il burgensis‘ o buvarése napoletano e, italiano bovaro.

I borghi, poi, sono entità assolutamente differenti dalle “borgate”, che hanno dislocazione suburbana, mentre essi sono conurbati di vergogna, nominati con appellativi di santificazione per decenza ess: il borgo di San Lorenza, San Luca, ecc., ecc.

Il borgo ha le radici di Bùvero per antonomasia, essendo ben 330 i centri allestiti che raccolgono e tutelano le antiche tradizioni della popolazione calabrese, in origine con esigenze vernacolari, attorno o nei pressi di una chiesa a cui era associato l’impianto urbano di sciesciola, nel corso della millenaria storia di approdo, mediterraneo di Grecanici, Arbi, Bizantini, Alessandrini, Longobardi, Cistercensi, Arbëreşë e altre dinastie più recenti e sono i rimanenti 73.

Questi ultimi diversamente dai primi, danno vita a luoghi, di patto solidale con gli indigeni o i primi, tutti gestiti dalla natura, che li scuoteva e li sollecitava periodicamente a migliorarsi.

La maggior parte sono piccoli paesi, vichi, contrade o avamposti nati per essere circoscritti secondo la Iunctura delle diverse radici culturali, messe a confronto in forma di groviglio di vicoli, archi che in alcuni casi conducono contro una parete cieca o in orti un tempo farmaceutici, oggi lasciati al proprio destino.

Questi nuclei abitativi, stanno o appaiono spesso sui giornali e le televisioni, tutti pronti ad essere posti in bella mostra, per elevare chi li comanda, e coltiva sogni fatui esaltandone il dispiacere che non li abbandona.

Quanti operano e sono memoria storica si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane e, di anno in anno volgarizzato con immaginario di una vita mai vissuta.

Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli, le curve e dove un tempo erano gli orti e i vutti dell’antica terra di confine mediterraneo.

Ormai storicamente attestate nel sottoscala delle graduatorie nazionali per la qualità della vita e dei servizi promessi e mai resi ai cittadini, nell’attesa di un illusorio ponte che mira nel nulla.

Tuttavia e nonostante, storicamente questa penisola estrema del mediterraneo sia nota come area geografia di primo approdo, col suo sempre viva la sua processione, verso la terra promessa, ha prodotto in epoca moderna il dannosissimo e comune fenomeno del narrato autocelebrativo, di una tossica retorica di “Borghi”.

Ormai ogni il più distratto e disinteressato viandante e, purtroppo ne esistono molti, preferiscono appellarli impropriamente “borghi”, un artificioso condimento, buono ogni tipo di pietanza, una sorta di prezzemolo per tutte le occasioni per fare banchetto e pancia.

Un comando vocale moderno, come lo fu nella storia: “apriti sesamo” esaltando in egual misura sia le borgate più fatiscenti, banali e decrepite che le antichità di minoranza, che in questi articolati vicoli di Iunctura. conservano pagine di storia.

La stessa che molti viandanti credono sia conservata in Musei Archivi, Biblioteche e Dipartimenti moderni, dove si recano in pellegrinaggio a raccoglie il fatuo più rigoglioso.

A tal proposito è bene precisare che i centri antichi come le realtà storiche dei paesini più microscopici e isolati non possono essere il trionfo dell’ignoranza o l’ipocrisia glorificata dei progetti che hanno alla base la meta confusa dal luccichio del dio danaro, profusa per ’“autentica”, in tutto il mito urbano a modo e copia della “Grande Bellezza”, in tutto semina fatuo in solco piramidale a misura di “Borgo”.

Infatti essa non rappresenta altro che una favola perversa “priva di alcuna potenzialità” dove appendere al chiodo sviluppo, turismo e capitali, gli stessi che nel breve periodo si rivelano eccessi ridondanti per truffe mediatiche, accumulatesi come strati fangosi e, da un momento all’altro trascinano nel caos valicando così, ogni limite di buon senso, misura e realismo.

Chi conosce questa regione e ci vive con il cuore che batte e la mente senza polvere di grano saraceno, sa bene che solidi paesi sono corrosi dal tarlo che vive imperterrito consumando ogni commestibile cosa, sia essa di fusto materiale o radice immateriale in tutto una sempre presente anomia sociale.

Qui ha iniziato a spopolarli l’emigrazione economica, che li priva dalla fine del XVIII secolo, dell’energie dei suoi atleti migliori, i quali mortificati dall’incuria della cultura egli ambiti costruiti locali, vedendosi così giorno dopo giorno la dignità di secoli di storia, per macchiare case vuote o pericolanti apponendovi fantasmi o episodi di vita mai avvenuti o fantasmi di genere ignoto.

Quest’Ultimo divenuto un meccanismo che mette ai margini la vera unica e indissolubile vita, genio e produttività di questi comuni collinari, che per incanto con sacchi di ipocrisia appena trebbiata ipocritamente li riscopre come risorsa in grano per i mulini ormai dismessi, e per farlo utilizzano il “borgo” storicamente riconosciuto per generare gabelle.

I borghi per la Calabria ricordano quei luoghi murati dove risiedevano principi, baroni e sottoposti della piramide che chiedeva dazio e interessi senza mai fare sconti o agevolare nessuno, affluenti dove non è nato mai una figura buona.

Negli ultimi decenni e specialmente nei piccoli agglomerati di radice minoritaria, per inscenare concorsi di bellezza tra gli elevati storici, organizzano concorsi e sfilano lungo i vicoli ormai spogliati di ogni intimità, facendoli fronteggiare ancheggiando a modo di “miss Italia” e, per innescare una sorta di copia televisiva ad eliminazione finale, addirittura dicono che a presentare e parlare per eleggere il “borgo dei borghi” sia proprio il voto di prospettive e case abusive degli anni sessanta del secolo scorso, ovvero le più recenti e senza storia, di luogo genio e materiali, in tutto le maschere di un carnevale, promotrici del giorno di Termine per questi antichissimi luoghi di memoria, Arbëreşë, Grecanica e Occitana.

Allo stato delle cose per quanti da qui emigrarono per vergogna lasciando questi camini spenti adesso sono diventati per questo diventati il rifugio privilegiato di megalomani senza arte, gli stessi che allestiscono presentandoli per i comuni viandanti o distratti ed annoiati vegetali locali, la sagra più cafona ed inutile, dei fuochi delle vacanze, proprio quando non servono perché e il tempo della natura e del sole.

Fiammate che durano qualche settimana fatti sempre di notte quando è facile illudere glia astanti locali annoiati, a cui si perla di Sheshi, Quartieri e Gjitonie a impronta dei ritmi e le cose delle metropoli, incuneando nell’immaginario in corto circuito di servitù politica e riconoscimento elettorale.

Alcuni annoiati di città, li scoprono e li acclama, o ne fa retiro di riposo, per misogini, ricchi e stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle dell’isolamento che costruiscono attorno a quanti non hanno lavoro e prospettive per il futuro.

Sono questi i motivi che rendono i piccoli centri calabresi, al pari di camme eccentriche per i pochi, che alimentano retorica mediatica specie per la Calabria.

Di borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi e progetti che per illudere ponendoli sospesi al fatidico chiodo, che diventa limbo, per poche persone.

Come accade a uno dei centri abitato tra più belli d’Italia, anche il più povero, isolato e desolato, ma però, mantiene nel suo primato per la scelta del luogo edificato dai suoi abitanti storici per elevato a picco sul mare.

Quando si apparisce sui media per salvare un centro antico, non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami per promuovere un centro commerciale a buon mercato per realizzare anche in Calabria la Disneyland senza rispetto verso patrimonio e le necessità dei suoi abitanti e dell’ambiente.

Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei Katundë Arbëreşë secondo direttive di associazioni che promuovono equilibrio, prassi intelligenti e progetti secondo la carta di Atene e quello di Venezia, le uniche direttive nate non a fini di narcisismo di mestieranti in cerca d’autore.

Secondo competenza di valorizzazione e riequilibrio delle risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando le sequenze storiche che a avuto ogni opera architettonica.

Valga prima di ogni altra cosa, la pianificazione, del riconoscimento di un manuale figurato della storia e lo spirito che univa la chiesa e le case, dei centri abitati calabresi, dove è la natura ad essere alleata, dell’uomo e non il dio danaro; quindi resta solo da dire, “mirë se nà erëdjt ndë Katundë, zotra e zogna.

Commenti disabilitati su I VOSTRI 330 CHIAMATELI PURE BORGHI MA I MIEI 73 MINORI, SOLO KATUND, HARË E VILLAGGI (Katunditë tonë mosë i ndëroni hëmer se gnë mosë bënj mbëcatë)

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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

EDITI, LAPIDEI E GRAFITI IRROMPONO INNOPPORTUNE NELL’ASCOLTO ARBËREŞË (furi mëmèsh, me shërep bëneI buk, fresa e me gudur e righanë buk vallje)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

la storia del costume

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Negli ambiti attraversati, bonificati e ricostruiti per essere vissuti degli Arbëreşë, ha avuto modo di replicarsi senza soluzione di continuità, il modello sociale di parlato, adottato storicamente, nella Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, ben sedici macro aree evolutesi esclusivamente grazie al parlato materno e il buon ascolto dei figli/e mai distratti/e.

In tutto il meridione italiano diffusamente distribuita e storicamente integrata questa consuetudine viva, che non ha mai subito pieghe di sorta dal XIV secolo sino agli anni sessanta del XIX secolo ad oggi e, nessuno, confermo nessuno, ha perso padronanza o misura di questo parlare così acquisito.

Il tutto avvenuto senza alcun supporto di immagini, testi o vocabolari grafitati o scritti, specie se riversi e inutili con parole in lingua Albanofona (?) illeggibili, incompressibili e, avendo una radice somma di sostantivi in italiano irrecuperabile, se non leggendo, senza distrarsi l’intero edito, con vocaboli inutili e senza radice di memoria.

Infatti nessuno della vecchia dinastia e della nuova, dagli anni cinquanta sino al 1975, ha mai avuto insegnamento per acquisire il parlato Arbëreşë, chiaramente quello definibile della crusca, che non ha mai usato libri calamaio o pennini, perché tutti gli allievi hanno vissuto sotto il vigile governo delle donne e i magici luoghi dei cinque sensi: il camino che riverberava e crepitava in lingua parlata, sin dove si estendeva la Gjitonia.

Chi scrive è una memoria attenta e sempre presente di questo titolo accademico senza eguali e che non ha bisogno di riquadri lignei o di genere, per il titolo accademico del parlato più solido e irraggiungibile da nessun istituto o istituzione allestita in epoca moderna dirsi voglia.

Il titolo della crusca Arbëreşë, inizia con la descrizione del corpo umano tutto, si estende alle cose della natura, che lo rendono vivo e gli consentono di fare agricoltura, grazie a consuetudini, la credenza e il costume rispettivamente: del comune vestire, in sposa, regina del fuoco e vedova di vita o incerta.

Questo titolo ha come sede naturale i quattro sheshi, tipici dell’urbanistica Arbëreşë, gli stessi organizzati secondo una rifinita Iunctura familiare di luogo specifico, senza vincoli o recinti fisici di sorta.

Tutti gli allievi sono fieri di partecipare e non perdere una lezione, dal primo giorno di vita e sino che si ha possibilità di confrontarsi nel corso della propria vita e, sin anche da vecchi quando non si è più in grado di auto sostenersi nelle case, oggi di cura, per chiedere aiuto e ricevere conforto in Arbëreşë.

Il titolo che è un riconoscimento ideale del luogo natio, lo senti lo avverti nel cuore e nella mente e ogni volta che l’orecchio avverte striduli linguistici e sobbalzi, disapprovi quelle stonature o compilazioni inutili che non ti risvegliano memoria, ma fanno danno profondo attorno al tuo avanzare fiero. con quel titolo fatto non di volatile farina fatua, ma crusca e odori di criscito locale del tuo forno di casa.

Chi ha un titolo della crusca arbëreşë, conosce i protocolli del saluto, sa quando restare e partecipare o allontanarsi dalla discussione, conosce i tempi e i modi per apparire senza mai prevaricare genieri e figure di rilievo.

Il titolato non palesa mai forme di rispetto a nessun essere umano, conoscere il tempo di farsi da parte, in tutte le cose che fanno la vita comune degli Arbëreşë con titolo valido di crusca e, quando uno di questi dovesse venire a mancare, il titolo scompare e si diventa comuni llitiri, diffusamente infarinati, per essere subito riconosciuti.

Questo era un titolo di studio che si acquisiva prima di iniziare il ciclo primario delle scuole dell’obbligo italiane, un tutolo di crusca, che assieme a tutti i tuoi coetanei davano forza al consuetudinario storico, certificando, toponomastica ricorrenze e parlato al proprio centro antico; forza storica di una memoria composta e compilata di consuetudini, ascolto e movenze ritmate, quando si doveva festeggiare la memoria dell’Estate degli Arbëreşë, quella ricordata nel 1775 da Baffi nel “Discorso” della storia degli abitanti delle antiche terre, oggi denominate Albania.

Di tutte le generazioni parlanti questa lingua, nati prima del 1975 e poi maggiorenni nel 1996, il parlare Arbëreşë è diventata parte fondamentate seguendo i tempi del vivere insieme e non certo leggendo libri o compilazioni del comune alfabetare, divenendo per questo, le memorie storiche dell’odierna promozione di questa lingua antica, conservandone sia il senso che il valore di ogni macroarea.

Nonostante ciò non sono mai interpellati nelle manifestazioni che contano e vedono promuovere il pianeta delle consuetudini e delle architetture del bisogno vernacolare, le stesse che ripetutamente e senza riguardo sono compromesse a tutto campo e sin anche le prospettive storiche, rivitalizzate con inopportune raffigurazioni.

E delle quali si cerca di valorizzarle, invitando e dare la scena a quanti non hanno alcuna percezione di cosa sia e cosa rappresenti la R.s.d.s.A. e il suo parlato non scritto.

La valenza del parlato è stata sempre circoscritta e diretta al corpo umano e, sin anche nelle esternazioni del saluto tra generi non ha mai valicato questo limite.

Vero resta il dato che nelle attività sociali il saluto non è mai rivolto al tempo del giorno, mattino, pomeriggio o della sera dirsi voglia, ma esclusivamente, al benessere e allo stato del corpo umano in continua crescita evolutiva.

Un altro dato fondamentale di questo aspetto sociale del parlato è la valutazione che di giorno in giorno, si facevano degli allievi della Gjitonia, in tutto delle nuove generazioni di generi in crescita, il primo eseguito dal governo delle donne, che con cadenza specifica riferiva fatti e necessità al governo degli uomini e al reggente del modello di Iunctura locale.

Era questi in base ai dati pervenuti in forma orale, a valutare le necessita e le caratteristiche di ogni figura e del suo ruolo all’interno del gruppo che si poneva tra il focolare di casa e, la Gjitonia iuncturale.

Questa era una olimpiade giornaliera dove nessuno era escluso, sin anche quella sostenuta e portata avanti in forma di para olimpiade, dove ogni figura avrebbe avuto per il tempo del futuro, ruolo utile e non discriminatori, per nessuno dei partecipanti.

Il titolo della crusca acquisito dal camino sino dove arriva la Gjitonia, per una figura che ha affinato il sapere relativamente ad aspetti storici e delle arti architettoniche, urbanistiche e del restauro conservativo.

Nel momento in cui sono stati avviati nuovi stati di fatto, con dipartimenti di ricerca, relativi agli ambiti naturali e costruiti di tutta la R.s.d.s.A. e del suo percorso evolutivo, ha dato agio per continuare e fornire nuove frontiere di studio, rivolte all’edificato storico e dei suoi materiali di epoche specifiche dei centri antichi Arbëreşë.

L’insieme lingua della Crusca e titolo accademico degli Olivetari Partenopei, ha consentito di raggiungere mete di studio, tali da fornire risposte significative, sia delle consuetudini, del parlato delle credenze, del genio locale e sin anche del valore aggiunto all’intero ambiente naturale dove questi Katundë hanno iniziato a dare vita e coerenza a ogni evento naturale accaduto.

Questo ha consentito attraverso modelli G.I.S. di addivenire a nuovi modelli di studio sino ad oggi ignoti a numerosi dipartimenti preposti al mono tema, che inquadrano la R.s.d.s.A., come un modello linguistico di radice incerta, in perenne evoluzione, senza tenere conto che la minoranza  Arbëreşë, trasferendo questo suo modello sociale, sei secoli orsono dalle terre della odierna Albania, rappresenta la costanza, che porta nel su intimo, il rispetto degli altri popoli e per questo capace di essere, esempio di integrazione mediterranea, in credenza cristiana. 

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